Nel Mezzogiorno la rivoluzione, la guerra, il plebiscito, le elezioni, la riorganizzazione delle strutture di potere e la battaglia politico ideologica mobilitarono le strutture profonde della società e del potere locale. Gli attori politici sperimentarono una vita pubblica di dimensioni mai conosciute. Il conflitto civile e militare contribuì inoltre alla formazione di un sistema dove una parte della popolazione era coinvolta non solo nella costruzione del nuovo Stato (come nel resto d’Italia) quanto nella lotta ai nemici interni. Certo, se esisteva un collante politico comune al nazionalismo italiano dell’unificazione, era la comune censura della vecchia Italia. Non per tutti ebbe lo stesso significato: i piemontesi avevano unificato il paese intorno alle loro antiche istituzioni, gli unitari lombardi sostenevano di essersi liberati dello straniero austriaco, quelli siciliani rivendicavano di aver sconfitto gli antichi oppressori borbonici. Nell’isola la critica al governo ebbe qualche aspetto popolare (la resistenza alla leva) ma fu confinata all’interno della dialettica unitaria (con la confusa eccezione di Palermo nel 1866) e con una poderosa integrazione dei gruppi dirigenti nel movimento nazionale. Negli ex stati granducali e pontifici non c’era traccia di resistenza armata. Erano solo i napoletani a fare i conti con la sfida dei partigiani delle Due Sicilie. Nel Mezzogiorno il movimento nazionale era diviso tra moderati, garibaldini, mazziniani, autonomisti, ma contro la resistenza borbonica e il brigantaggio scomparvero le differenze esistenti. Italiani e napoletani unitari le ricalibrarono per il nemico e il suo braccio armato. La guerra del brigantaggio fu un conflitto civile asimmetrico e limitato. Un conflitto civile perché oppose cittadini dello stesso stato, registrando la presenza di progetti statuali e di legittimità opposti, tra loro incompatibili, che si misurarono attraverso la violenza armata e la mobilitazione politica (Pinto, 2013). Limitato perché non si trasformò mai in una guerra generale, non coinvolse direttamente altri Stati e coinvolse aree limitate della nuova nazione e in misura del tutto minima le città e alcune regioni dello stesso Mezzogiorno. Asimmetrico perché schierò politici, militari, gruppi civili unitari di tutta Italia (e quindi del Mezzogiorno) contro i partigiani borbonici. In questa direzione, il tema del conflitto civile e del coinvolgimento delle popolazioni finì pertanto per assumere un ruolo cruciale, perché il livello di violenza coinvolse innanzitutto i civili. Le vittime della guerra furono molto spesso le popolazioni. Gli unitari ne fecero la principale bandiera della lotta al brigantaggio, oltre che il terreno della prima imponente mobilitazione politicosociale dello stato unitario (Pinto, 2015). La guerra dei civili determinò una imponente mobilitazione del movimento unitario. Gli uomini della nazione italiana e la loro espressione nelle ex province napoletane, pur divisi su temi cruciali, furono compatti rispetto alla necessità di completare ad ogni costo la rivoluzione nazionale e di definirne la spazio pubblico, sbarazzandosi dei vinti o, comunque, impedendo a qualsiasi costo ogni tentativo di rivincita, conquistando le istituzioni e affermandosi come classe dirigente. Il complesso mosaico delle provincie meridionali, composto da amministratori, funzionari, notabili, proprietari, professionisti non fu un soggetto subordinato nella transizione al nuovo Stato. La determinazione nel controllo del potere locale, la volontà di condizionare le scelte politiche generali, l’annientamento degli avversari legittimisti e dei briganti erano i suoi obiettivi. Lo strumento fu la saldatura tra le esigenze del notabilato e dei civili meridionali, e la necessità di legittimazione delle istituzioni e del progetto nazionale italiano. L’integrazione dei provinciali nelle strutture di potere e nei gruppi politici del paese iniziò con le elezioni politiche, la formazione del Senato, la composizione delle strutture periferiche dello Stato e del governo locale. Alle consultazioni del 27 gennaio 1861, su 129.119 elettori delle liste meridionali (418.696 in Italia) votarono in 87.316, nel 1865 votarono 73.357 su 129.760. Le elezioni si tennero anche se erano in corso le insorgenze e l’assedio a Gaeta, Messina e Civitella, a prova della scarsa presa dei borbonici nel potere locale. I circa centocinquanta deputati meridionali che videro la loro elezione convalidata erano una fotografia della classe dirigente dell’unificazione. Si aggregarono nelle correnti nazionali (cavouriani, garibaldini o mazziniani) invece di creare gruppi particolaristici di tipo regionale (pure possibili visto il sistema elettorale uninominale) (Romanelli, 1988), come del resto aveva ampiamente previsto Cavour (Cavour, 1961, p. 265). La destra ebbe il suo maggiore successo nel 1861 (46% dei seggi), fu ridimensionata nelle scadenze successive (1865 34,5%, 1867 35,7%). La sinistra invece passò dal 20% del 1861, al 27,8% nel 1865, al 30% nel 1867 (nel 1865 conquistò gran parte dei collegi meridionali). Nel 1861, tranne poche eccezioni (Garibaldi, Mazzini, Avezzana, De Boni, Govone, Saffi), gli eletti erano tutti del Sud, appartenevano ad ambienti politicizzati, quasi cinquanta erano diretta espressione delle vicende del 1848, trasversali a destra e sinistra, tra questi erano Poerio, Spaventa, Nicotera, Musolino, Ricciardi, De Sanctis, Mancini, Piria, Scialoja, Bonghi, Massari, De Cesaris, Morelli, Lazzaro. C’erano anche gli autonomisti conquistati nel 1860 come Romano, De Cesare o Manna. I borbonici erano assenti, con qualche fugace eccezione, come il duca Proto di Maddaloni e nel 1865 De Martino. Altrettanto importanti furono le elezioni locali. Alle prime consultazioni il 19 maggio del 1861, nelle province napoletane parteciparono 129.067 elettori su 178.683 elettori (il 72%). Si era all’inizio della grande insorgenza borbonica, il successo delle elezioni confermò la forza degli unitari locali, evidenziata dal successo nella gestione del cambio di regime dell’estate 1860 (Pinto, 2013c, pp. 39-68). Questi, insieme ai tanti saliti sul carro del vincitore per partecipare alla spartizione del potere, conquistarono definitivamente municipi e province, che avevano preso in mano nel settembre dell’anno precedente. Nelle province e nei distretti nessun capoluogo perse il suo status o le sue funzioni, rassicurando gruppi ed interessi. Gli apparati burocratici dei comuni, largamente intatti (a differenza della polizia e di qualche settore della magistratura e degli ex ministeri), confermarono l’efficacia di un cambio di regime che aveva tenuto conto di necessità individuali, compromessi pragmatici ma anche un modello di subordinazione o collaborazione amministrativa consolidato. Anche la guardia nazionale rappresentò una grande attrattiva come luogo di organizzazione del consenso e, a volte, soggetto politico alternativo a chi governava il potere locale. La politica di rapida integrazione di gruppi politici provinciali nelle componenti nazionali fu decisiva per spingere larghi strati della popolazione a prendere posizione e sentirsi coinvolti nella difesa delle nuove istituzioni, per convinzione, necessità, semplice opportunismo o perché obbligati. L’ossatura era il notabilato di alti e medi funzionari, professionisti, proprietari, imprenditori ed altre figure capaci di interpretare le società locali e di mediarne relazioni ed esigenze con uno Stato di dimensioni assolutamente inedite. Quello che motivò le scelte non era tanto l’origine sociale, pur evidente, ma il momento politico, il successo del progetto costituzionale-unitario, l’affermazione nella gestione del potere reale. Il nuovo ceto dirigente, doveva molto alle circostanze rivoluzionarie e non poteva accettare un ritorno al vecchio regime o peggio, la rivincita degli avversari locali. Alcuni avevano un passato nel lungo conflitto civile meridionale in cui si erano schierati con l’opposizione politica ai Borbone. La massoneria era largamente diffusa ed ebbe un ruolo importante nel cementare il movimento nazionale filo-italiano. Molti notabili, giovani, ambiziosi e dinamici avevano fatto pratica nella rivoluzione, pensarono che la difesa dell’unificazione coincidesse inevitabilmente con il nuovo ruolo politico e sociale. Nel movimento unitario meridionale non ci furono fratture serie sulla scelta monarchica filo-sabauda. Giacinto Albini, detto il Mazzini della lucania, spiegò alla commissione d’inchiesta che «il governo non deve avere diffidenza di nessuna delle parti liberali, perché il Partito repubblicano non ce n’è. L’idea dell’unità è predominante è fortissima in questa provincia ed è congiunta a quella della Monarchia». Pietro Rosano, avvocato e influente notabile all’opposizione, scrisse in un complicato memoriale che «la democrazia trova maggiore adesione, ma restò finora nel campo scientifico e si affratellò di buona fede alla monarchia costituzionale che prometteva la indipendenza e l’Unità nazionale sulle basi di una leale libertà cittadina». I notabili provinciali trovarono nel consolidamento dello Stato italiano la miglior garanzia per le basi del proprio potere. Non si potevano dimenticare le quattro restaurazioni borboniche e le repressioni conseguenti. Coloro che si erano schierati nei decenni precedenti erano animati dal disprezzo per i Borbone, per la Chiesa e i preti, e molto spesso per l’intero ex regno duosiciliano. Se il magistrato napoletano Boschi voleva cacciare Francesco II da Roma per «togliere speranze ai briganti», il prefetto meridionale Gemelli sosteneva che nel «clero vi sono gli aperti nemici del governo». La rivoluzione aveva garantito al ceto dei proprietari, anche piccoli, la difesa del proprio patrimonio fondiario, la base fondamentale dell’economia meridionale, in una fase di congiuntura ancora favorevole (Sereni, 1980; Lupo, 1990). Era in corso un processo iniziato da decenni di trasformazione della proprietà agraria, che crescerà dopo il 1867 con la vendita dei beni sequestrati alle istituzioni religiose. E non era solo nella rendita rurale, quanto nella amministrazione pubblica. Silvio Spaventa, uomo forte della destra e in quel momento al centro del partito a Napoli, scrisse al fratello, una volta assunta la direzione degli interni a Napoli, che «non ti puoi fare un’idea di quello che avviene e di quello che si fa: è un chiedere, un acchiappare da tutte le parti quanto più si può, un armeggio, ed un intrigare». I suoi nemici del Popolo d’Italia di Napoli erano sulla stessa linea. Sostennero che solo nei primi giorni della dittatura a Garibaldi giunsero seimila richieste di impiego. Si era letteralmente accerchiati, sostenne Angelo De Meis parlando del governo napoletano del 1860, dai «chieditori di impieghi» che si volevano collocare nel cambio di regime. Le lotte locali invece finirono per alimentare il sostegno al brigantaggio, offrendo spazio a conflitti che, anche se interpretati con gli strumenti della antica fedeltà dinastica o religiosa, si inserirono soprattutto nelle pieghe delle lotte e delle fratture sociali. Era una antica tradizione, spiegò il prefetto Nicola De Luca, molisano, ex deputato del 1848 e dirigente storico del movimento liberale: «la storia insegna che in tutti i cangiamenti politici le provincie meridionali sono diventate teatro di brigantaggio». Guglielmo Pepe, del resto, aveva scritto da tempo che il brigantaggio era una risorsa dei gruppi sociali più fragili, e degli sconfitti politici, per tentare una rivincita o semplicemente sopravvivere (Galasso, 1983). Così gli unitari al potere, per un momento, consentirono questa saldatura tra nemici locali e tensioni sociali. Opposizioni e resistenze si diffusero così tanto tra nemici di partito che tra gli esclusi dal potere o concorrenti per piccole o grandi posizioni, mostrando il vero volto della minaccia ai provinciali giunti al potere. Le rivalità sul terreno della lotta politica regionale offrirono una rete di sostegno alla resistenza borbonica. Quando nel 1861 Peruzzi attraversò le province napoletane osservò che ovunque erano «gare fra famiglia e famiglia mosse da ragioni d’interesse o da vanità». Gli eterni odi per il potere locale, disse l’ex prodittatore lucano Albini, diedero fiato all’opposizione, per quanti «interessi furono spostati» dalla rivoluzione. I notabili meridionali, pertanto, furono condizionati dalla scelta anti-borbonica e del conflitto con i nemici locali. Un terreno decisivo, che accentuò l’interpretazione sociale del brigantaggio, per la mancata distribuzione delle terre demaniali. Alessandro Rubino, liberale di Avellino, in un memoriale scrisse che «Si faccia che la parte proletaria sia possidente e domani possa essere in grado addivenire prospera e ricca e si vedrà che il governo avrà la più potente leva nel popolo per andare oltre». Carlo De Angelis, ex prigioniero politico ed esule, cilentano e sottoprefetto di Campagna nel 1861, analizzò il territorio in una lunga relazione, descrivendo il peso delle faide locali nella formazione delle appartenenze politiche e l’eredità della insoluta questione rurale dopo la fine della feudalità. La miseria spiegava la «foga da cui sono invase tutte le popolazioni di volersi appropriare di beni demaniali». Anche i funzionari venuti dal Nord condivisero spesso queste opinioni. Il prefetto di Cosenza, il lombardo Guicciardi, sostenne che la ripartizione dei beni demaniali avrebbe contribuito a modificare il contesto sociale che favoriva il brigantaggio. Era una posizione molto diffusa tra gli unitari. Ai funzionari più attenti non sfuggiva il degrado sociale delle campagne napoletane e la tensione che in molti territori emerse nella questione demaniale, come testimoniano le analisi dei prefetti De Ferrari, Mayer, Bruni, Veglio. Il prefetto facente funzioni di Potenza, Bruni, sostenne che impostando la divisione dei demani, si tagliava la terra sotto ai piedi al brigantaggio. Vincenzo Sprovieri, deputato cosentino, rivoluzionario calabrese, uomo della spedizione dei Mille e della politica locale, ammetteva le grandi usurpazioni dei proprietari, e riteneva che le quotizzazioni avrebbero favorito una pacificazione sociale. Il consigliere provinciale Vincenzo Amicarelli, di Monte Sant’Angelo, uno dei paesi che diede più uomini alle bande, disse che la divisione di beni demaniali forniva elementi naturali alle bande brigantesche. Pietro Carcani criticò le considerazioni pubblicate dal deputato Mosca che cercavano di confinare il brigantaggio all’interno di una contrapposizione tra proprietari e contadini. Sostenne la complessità delle province napoletane e del ruolo dei ceti dirigenti, dei «grandi proprietari» che appoggiando massicciamente la scelta unitaria avevano consentito la rivoluzione» . La questione, resterà aperta, ma i notabili unitari la evitarono con matematica logica e di classe, e presentarono il brigantaggio come un male atavico, che andava estirpato perché da sempre i borbonici lo strumentalizzavano, dopo che avevano determinato le condizioni sociali per la sua fioritura. Gli unitari meridionali parlarono di rinnovamento morale di una società resa corrotta e vile dal passato regime. La stigmatizzazione dell’eredità dell’antico regno e della dinastia borbonica ne diventò un corollario cruciale, fino a trasformarsi in un tema centrale per spiegare la guerra. Una efficace sintesi la fece don Liborio Romano, che pure si autodefiniva tra i custodi della parte migliore delle antiche istituzioni. In memoriale del 1862, nel momento di maggiore difficoltà del compromesso unitario, oltre alle polemiche congiunturali, collocò tutta la storia duosiciliana in una progressiva degenerazione del governo borbonico, che aveva creato le condizioni del brigantaggio. La retorica italiana si nutrì di questi modelli. Il mazziniano beneventano Rampone racconterà la storia dei suoi compaesani e del fratello, volontari nella colonna Nullo, catturati e «barbaramente uccisi, e seviziati» dagli insorgenti molisani. Solo gli atti dei briganti erano abietti, ed escludevano gli autori da ogni consorzio civile. I nazionalisti meridionali sapevano che agli occhi di parte della popolazione la figura del brigante era pienamente legittima e per questo andava distrutta. Erano descritti come sanguinari, depravati, pazzi e criminali, la parte peggiore della società. La trasformazione sociale e il rinnovamento del Mezzogiorno dovevano passare, per i notabili e i gruppi politici meridionali, e solo dopo la completa distruzione del brigantaggio e dei suoi burattinai della corte borbonica di Roma e, di conseguenza, con l’annullamento politico dei loro avversari locali. E ci riuscirono condizionando la rappresentazione del brigantaggio e sempre chiesero una guerra all’ultimo sangue. E non a caso, visto che dirigenti unitari, sindaci, guardie nazionali, molto più dei militari regolari, erano gli obiettivi dei briganti (o dei loro mandanti locali), sia come vittime di estorsioni, rapine, sequestri, sia per le naturali conseguenze di un conflitto irregolare in cui i morti civili superavano quelli militari. La guerra dei briganti colpì anche beni e materiali, condizionando il complesso delle economie provinciali. Nel 1861 il deputato Giuseppe Ferrari disse che «il brigante giunge di notte, in poche ore impone taglie, prende viveri, cavalli, munizioni, organizza il furto, spaventa tutti con l’assassinio, coll’incendio, colpisce i suoi nemici, i magistrati, i sindaci, i liberali». Anche per il mazziniano Aurelio Saffi i più colpiti erano «gli interessi materiali dei privati» e soprattutto i civili. I gruppi politici e civili meridionali si scatenarono contro il brigantaggio per convinzione, timore e necessità, diventando i principali attori della richiesta di azione e repressione. Nel momento di maggiore crisi del 1861, il beneventano Nicola Nisco, uomo della destra, rappresentò al capo del governo Bettino Ricasoli il suo apprezzamento per il generale Cialdini, per un breve momento al comando a Napoli, sottolineando che le «fucilazioni sono una giustizia ed un rimedio opportuno: assicurano i liberali di essere il governo con loro». Per Giuseppe Vacca, magistrato, uomo di primissimo piano dell’establishment napoletano, considerato uno dei portavoce reali dei vecchi autonomisti meridionali schierati con l’unificazione: “Uno è pericolo vero e grave ed è il brigantaggio: la questione è di esistenza per tutti. E però tale da richiedere rimedi pronti ed eroici. Era venuto il momento di spaventare, e con mezzi terribili i saccheggiatori, gli incendiari, i macellatori: e la missione provvidenziale del general Cialdini andrà benedetta da queste popolazioni”. Nel 1861-62 a fianco di notabili di peso, anche amministratori locali, ufficiali di guardia nazionali o semplici cittadini del Mezzogiorno inondarono il governo e le istituzioni di richieste di intervento, aiuti militari, azioni decise. Una corposa petizione della giunta e dei cittadini di Barletta, inviata alla Camera dei Deputati il 4 aprile del 1862 chiese che venissero assicurate le loro persone, le proprietà, i traffici dalle continuate scorrerie di briganti che infestano il Barese, e la confinante Capitanata. Nell’una e nell’altra delle due province, più che i malfattori sono da tenere in vista i retrivi cresciuti in audacia e che danno loro aiuti. Tempi eccezionali richiedono misure eccezionali. I consigli comunali deliberarono innumerevoli documenti come nel comune di Ariano Irpino, votato il 12 agosto 1862, dove si chiese l’intervento del governo, del prefetto e di La Marmora per affiancare ai militi e alle guardie nazionale locali il soccorso di un reggimento di cavalleria. Il comune denunciò la sua economia distrutta, le campagne abbandonate per la paura, le aziende sotto pressione e in crisi, e chiese di scatenare “Una guerra di sterminio” alle orde di briganti che di momento in momento crescono in numero e di ardire… Mette raccapriccio narrare quello che fanno: orrori, atrocità e scelleratezze senza fine. Qualche mese dopo la deputazione provinciale di Avellino chiese al governo «una legge di eccezione che valga a distruggere il sempre rinascente brigantaggio; avendo finora provato, e con troppo danno nostro, di non bastare all’uopo le istituzioni che abbiamo». Nel dicembre del 1862 il deputato pugliese Sigismondo Castromediano trasmise alla camera le lamentele di Terra d’Otranto, dove il brigantaggio «non è perseguitato» con determinazione. Negli stessi giorni il sindaco di Monopoli convocò, con militari e guardie nazionali, un consiglio di guerra per condannare un brigante catturato, ma fu bloccato dal generale Regis, che ritenne la procedura scorretta. Questi, per risposta alla mancata fucilazione si trovò contro, scrisse: «Dimissione in massa Municipio, Guardia Nazionale, Popolo tumultuante». Un imprenditore di Foggia sostenne che fino ad allora si era fucilata «poca gente» (Molfese, 1964, p. 110). Secondo lo stesso generale La Marmora, che prese il posto di Cialdini a Napoli, in molti casi si spingeva alla vendetta ed agli estremi rigori. Nel dicembre del 1861 un gruppo di cittadini lucani residenti a Napoli, fondarono l’Associazione di mutua difesa contro il brigantaggio. Con un manifesto, iniziative e comizi nei comuni per promuovere sottoscrizioni e forze di autodifesa. Le critiche si moltiplicarono nel momento in cui le bande a cavallo iniziarono l’offensiva. Un esempio, tra i tanti, fu la polemica furibonda scatenata a Potenza con il comandante locale delle truppe italiane, Giacinto Avenati (e poi con La Marmora). Il 7 maggio 1862 il Consiglio comunale votò un documento proposto dall’assessore e canonico Rocco Brienza, un vecchio cospiratore unitario, popolare in Basilicata, chiedendo perché il «brigantaggio che tuttavia infierisce nelle nostre contrade… non venga convenientemente combattuto e perseguitato». Il Consiglio, con una maggioranza di sedici contro uno, affidò all’assessore l’incarico di un testo che considerò insufficiente l’azione dell’esercito, visto che «si stanno incessantemente registrando rapine, disonori, incendi, stragi e morti. È più di un anno che ai superstiti è dato deplorare la perdita dei più cari, di persone agiate, paventare per quelli che sono già segno alla reazione per amore di patria e per tenace attaccamento all’Eletto del Plebiscito del 21 ottobre 1860. L’ennesima conferma dell’intensa pressione dei gruppi politici a favore di una violenta repressione del brigantaggio. Nell’agosto del 1862 Luigi Settembrini, uomo forte dell’Università di Napoli e potente opinionista della destra, scrisse al fratello Giuseppe che i «nostri dovrebbero far capire al governo che senza uno espediente forte, senza questo espediente, qui non ci sarà mai quiete, ne mai possibilità di governare» (Settembrini, 1894, p. 190). I provinciali unitari, o semplicemente gli attori civili locali, più di chiunque altro, chiesero sempre azioni implacabili, richiamandosi ad un passato del brigantaggio e della guerra rurale che ritenevano di conoscere meglio di ogni altro. Lettere e petizioni di sindaci, notabili, intellettuali riproposero sistematicamente questo schema. Le richieste di misure speciali erano concordi tra deputati, accademici, magistrati (con qualche eccezione), sindaci, prefetti, consiglieri provinciali, imprenditori, ufficiali di guardia nazionale, ma i dirigenti della sinistra erano tra i più spietati; nel mese di marzo del 1863 l’ultra mazziniano “Popolo d’Italia” attaccò violentemente il governo perché lo ritenne debole e poco repressivo verso i civili sostenitori dei briganti: «non ha preso mai alcuna seria risoluzione a questo riguardo». L’ex ufficiale garibaldino napoletano Luigi Gargiulo, in un libretto pubblicato a Milano, propose di «far evacuare tutt’i monasteri e conventi trovansi nelle campagne, o fuori l’abitato», e una legge per sottoporre «a consigli di guerra subitanei i briganti ed i loro manutengoli» .
La Legge Pica fu il punto d’arrivo di questa poderosa pressione dei provinciali, e del loro massimo accordo con governo e soprattutto con i vertici militari, che con la stessa determinazione chiedevano potere e strumenti per affrontare definitivamente la repressione della guerra. Il voto, ottenuto a larghissima maggioranza, il dibattito parlamentare e i passaggi gestiti da Massari nei mesi precedenti servirono a mostrare anche al ceto politico e alle forze impegnate nel Mezzogiorno l’efficace risposta dello Stato unitario alle proprie istanze. Lo ammise alla Camera proprio il deputato napoletano duca di San Donato, uno dei (pochi) intransigenti oppositori della legge, che disse : Debbo fare pure un’altra dolorosa dichiarazione, ed è che il mio voto è nella massima minoranza non solo in questa assemblea ma anche al di fuori. Disgraziatamente è nella generale idea delle popolazioni delle province meridionali che vi sia bisogno assolutamente di una legge severa, severissima, nel reprimere il brigantaggio, quasi che tutto quello che si è fatto fino ad ora abbia prodotto un qualche alleviamento ai loro dolori e sia anche riuscito a menomare il flagello del brigantaggio.
La volontà di condizionare la politica nazionale e la difesa del nuovo assetto di potere politico ed ideologico emerse con altrettanta forza proprio nella scelta di legalizzare le misure straordinarie, che diventarono il vero terreno d’incontro tra i gruppi politici provinciali e l’arcipelago unitario nazionale. Una linea che non si arrestò con l’approvazione della legge (che pure creò problemi, criticità, drammi e prepotenze). Mazziotti, notabile della destra meridionale, si indignò quando La Marmora solo accennò a una diminuzione delle truppe nel Mezzogiorno (ottobre 1863). Questa richiesta continuò fino agli anni Settanta. Nel 1867, 37 consigli comunali del casertano e del Molise inviarono una petizione alla camera per richiedere le misure straordinarie contro i briganti e «organizzare alcune bande volanti di militi e di guardia nazionale». Poi diventarono più sporadiche, ma continuarono almeno fino al 1870 (e in qualche caso oltre), testimoniate negli interventi parlamentari su petizioni di vari comuni. La guerra era vinta, i pochi superstiti del brigantaggio resistettero qualche anno, ma i nazionalisti italiani avevano eliminato la resistenza armata al nuovo Stato.




Un pensiero riguardo “Brigantaggio e questione sociale”