Le Prefiche o “Chiagnazzare” o “Chiangimuerti” o “Ciangiulìni”.

Il culto dei morti è da sempre elemento principale di tutte le culture sacre popolari ed è presente in molti aspetti folkloristici attuali. Come il giorno della commemorazione dei defunti che ha costituito, in ogni civiltà, un business redditizio. Ma in particolare, vogliamo ricordare un antico mestiere, legato a questo ambito economico, ormai scomparso. Intorno all’VIII sec. a.C. I Greci, abili navigatori quali erano, cominciarono a spingersi oltre la terra d’ origine. Durante i tanti viaggi nel Mediterraneo colonizzarono il sud italia perché lo trovarono amabile e accogliente, una terra che dava loro ciò di cui avevano bisogno: clima mite, terra fertile, acqua da bere e soprattutto ottima posizione per i commerci e per il desiderio di egemonia. I Greci che vi si stabilirono commerciavano con la madre Grecia e con questa attività, si sa, passano le idee e gli usi e costumi che sono giunti fino ai nostri giorni. Il culto dei morti è sempre stato molto sentito nel Sud Italia. La parola chiave era PATHOS la forte drammaticità nell’espressione del dolore: sopracciglia folte, unite e aggrottate contornavano un viso senza un accenno di trucco e poco curato per la presenza di una peluria evidente sul labbro superiore, i capelli raccolti col “tuppo” alla nuca, tutta la testa coperta da un fazzoletto di tessuto nero stretto sotto al mento. La donna non portava pantaloni. In primis la moglie del defunto piangeva e gridava fino a strapparsi i capelli, seguita da una scia di parenti donne e amiche e prefiche pagate che sostenevano il “coro” durante la veglia funebre. Non era una vera e propria preghiera, ma più una litania di lamento, ripetuto all’infinito a cui si univa un movimento ondulatorio del corpo. La marcia funebre che aveva luogo dalla casa alla chiesa a seguito del defunto avveniva sempre in pompa magna, con urla, pianti e svenimenti, tanto che la vedova veniva sempre scortata da parenti donne o uomini che dovevano sostenerla fisicamente nei momenti di mancamento.
Arte che affonda le sue radici nel tempo lontano o forte dolore per la perdita che veniva esorcizzata attraverso pianti e lagne?
Tutti i partecipanti al funerale, andavano vestiti rigorosamente di nero, il lutto, che per la persona piu stretta al defunto doveva durare almeno 18 mesi, dopo tale periodo si poteva utilizzare un bottone rotondo rivestito di tessuto nero da apporre all’abito o alla giacca in bella vista, affinché tutti sapessero della condizione di vedovanza. Stiamo parlando della lamentazione funebre, uno tra i più significativi riti del cordoglio, le cui tracce si perdono nel tempo. Per fare un viaggio degno verso la scoperta dei sacri “lynos”, bisogna partire inevitabilmente dalla Basilicata, forse la regione che più di tutte ha conservato il ricordo di tali primitivi cerimoniali. Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato possibile. Ma oggi, che la disperazione è tornata di gran moda, il mestiere della prefica potrebbe avere un futuro? Pare di sì. Visto che la lamentazione funebre potrebbe presto passare da rituale legato al mondo agreste a materia d’insegnamento nei master di “tecnica del pianto”. Tale pratica, in realtà, è un testo drammaturgico improvvisato in cui si sa già cosa dire, secondo skills facilmente acquisibili. Un aspetto da non trascurare, poi, è quello relativo alla mimica del cordoglio, al non verbale, all’oscillazione corporea che segue perfettamente il ritmo, come in moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi «ipnogena» – come nota argutamente il De Martino – molto simile anche a quella delle lamentatrici mediorientali. Le prefiche le ritroviamo nel leccese ove sono chiamate “repite” e nell’area abruzzese-molisana. Interessante come viene descritta dal De Gubernatis tale usanza, tra le indomite donne sarde: «Costoro, in sul primo entrare e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo strido, battono palma a palma e gittano le mani dietro le spalle. Inverochè altre si strappano i capelli, squarciano cò denti le bianche pezzuole che in mano ha ciascuna, si graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli, a singhiozzi, stramazzan in terra e…». De Martino racconta che nel corteo funebre era d’uso per le donne, una volta disciolte le chiome, accostarsi al morto percuotendosi il petto con violenza e abbandonandosi in un primo tempo a disordinate grida di dolore. Il termine francese che indica il lutto – “deuil” – sembrerebbe mettere bene in evidenza questo aspetto poiché viene dal latino “dolium” che corrisponde a “dolere”. Rituali che sono l’atavico ricordo di antiche usanze: si pensi che nell’Alceste di Euripide il Dio della morte è descritto mentre brandisce una spada nell’atto di tagliare una ciocca di capelli al morto. Non fa una piega. Nel napoletano, poi, era in voga una lamentazione accompagnata da un malmenarsi rituale che terminava con le prefiche che urlavano alla vedova: «ah, misera te!», strappandole ciocche di capelli che poi avrebbero gettato sul defunto. E’ da quest’usanza che deriverebbe una celeberrima hit fanciullesco-popolare: “Maramao, perché sei morto?”. Alla fine il senso di tutte queste manifestazioni estreme è che il dolore per il defunto c’entra fino a un certo punto: trattasi di riti apotropaici di allontanamento della morte, tecniche indirizzate a impedire il ritorno del defunto. Come testimoniato da altre usanze come quella di bruciare i vestiti del trapassato o l’apertura delle finestre dopo il decesso, fino alla strofa che chiude un antico lamento funebre, sagacemente raccolta dall’indefesso De Martino: «Non ho più niente da dirti/ non ho più niente da farti/ statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto…». “Compito delle prefiche””, scrisse il Chiriatti, “”era quello di toccare le corde dell’anima””. E per raggiungere il più alto grado di drammaticità e, di conseguenza, creare una situazione verosimile, venivano educate sin dalla tenera età ad esternare la propria afflizione verso i tramonti della vita.

In lacrime, distrutta dal dolore, persa nella propria disperazione, spesso la si poteva incontrare a più di un corteo funebre al giorno, con la stessa maschera di tragedia dipinta sul volto. Era la “Scapillata”,una figura essenziale, durante un funerale, che il popolo napoletano fece diventare un vero business. In pratica, quando una persona cara veniva a mancare, se non vantava grosse conoscenze o larghi giri di parentele, la famiglia, per non far sfigurare il caro estinto nei confronti di chi andava a dare l’estremo saluto, affittava delle comparse, che al capezzale della salma e al corteo funebre, mostravano tutto il dolore e la disperazione per la perdita. Per chi abita a Napoli, sarà sicuramente capitato che quando per un capriccio si iniziava a piangere, la nonna subito iniziava a dire “M’ par’ proprio ‘a chiagnazzar’!”, indicando le nostre lacrime e i nostri atteggiamenti una reale farsa. Ovviamente, “‘A chiagnazzar’” era la volgarizzazione dialettale della scapillata! La bravura di queste donne era talmente alta, da sembrare che il loro dolore fosse reale, talmente erano profonde e struggenti le loro urla e lacrime. ‘A Scapillata, come le antenate magno greche, portavano i capelli sciolti e le vesti neri, cantavano litanie e nenie funebri, ovviamente gli occhi gonfi di lacrime per lo sconosciuto defunto. Con il passare degli anni anche questo antico mestiere è svanito, ma può ancora capitare, nei giorni nostri, durante un corteo funebre, che si verifichino situazioni altrettanto “estreme”.

L’uso di persone che piangono i morti era praticato ancora in tempi recenti nell’Italia meridionale e si è conservata almeno fino agli anni ’50 ad esempio nei paesi della Grecìa salentina dove esistevano le “chiangimuerti” o “rèpute” e dove si sono tramandate delle famose nenie di origine greca (locuzione latina naenia, la triste lamentazione di monotona espressione iterata da parenti e prefiche negli accompagnamenti funebri o innanzi al sepolcro, al suono cupo della tibia, strumento musicale doppio a fiato in osso; queste donne entravano nella casa del defunto e iniziavano a gridare disperatamente. Subito dopo iniziavano a cantare le lunghe cantiche, in cui non si disdegnava il richiamo ad antiche figure mitologiche greche, tra le quali spiccano Caronte e Tanato; le prefiche grike provenivano soprattutto da Martano. A Calimera si ricorda la figura di Lucia Martanì (proveniente da Martano), donna martanese residente a Calimera. Le ultime rèpute di cui si abbia conoscenza furono Cesaria e Assunta de Matteis, anche loro di Martano, i cui lamenti furono raccolti da Luigi Chiriatti. Il documentario “Stendalì – Suonano ancora” diretto da Cecilia Mangini, con il soggetto di Pier Paolo Pasolini riprende uno degli ultimi riti di canto funebre. Segnalazioni della sopravvivenza di tale uso si hanno in tempi ancora più recenti in Calabria, dove fino agli anni ’80, in alcuni paesi di montagna dell’entroterra vibonese e del cosentino, era possibile assistere a tali strazianti scene, ed in Basilicata, in Sardegna, specialmente in alcune zone dell’interno, le donne erano dedite al cosiddetto rito chiamato “atìtu” o “atìtidu” in lingua sarda. Si piangeva il defunto tessendone le lodi, esaltando la disperazione per la perdita, senza peraltro esserne richiesti dai congiunti del defunto, solo per una semplice forma di partecipazione collettiva al lutto. Le “atitadoras” (termine che designa prefiche in lingua sarda) potevano alle volte ricevere un compenso. Tutte vestite di nero a struggersi in lacrime ai piedi di una bara, strappandosi i capelli e gridando preghiere e lodi al defunto, strappandosi i capelli e graffiandosi la faccia, non è mai stata espressione di sincera disperazione, bensì di un vero e proprio mestiere. In Basilicata, una terra che ha conosciuto nella sua lunga storia la fame più nera, fino a pochi anni fa, si sono vendute anche le lacrime e lo strazio. Donne che avevano il compito di rendere tragico ciò che già lo era di per sé, la veglia al defunto. “Piangere il morto”, in maniera gestuale più viva, era di fondamentale importanza, al punto che esisteva un vero e proprio mercato e, chi voleva celebrare il funerale in forma più maestosa e appariscente, si impegnava ad ingaggiare le prefiche più “quotate” e, in questo mercato speciale, c’era una diversità di prezzo: le più capaci, erano anche le più costose. Vere professioniste del lutto, queste donne incarnavano nel proprio struggimento una paura della morte che i lucani di un tempo combattevano con un “rispetto reverenziale”. «Io non piango per qualcuno che muore, non l’ho fatto manco per un genitore che morendo mi ha insegnato a pensare. No, non lo faccio per un altro che muore». A volte, però, non si possono comandare le lacrime quando queste sono considerate utili. A cosa? Ad allontanare la morte dalla comunità. Le prefiche erano solo una parte, seppur importante, di un rito funebre che andava ben al di là della funzione religiosa. Rompere i piatti per terra e tirare un secchio d’acqua non appena il feretro avesse varcato la soglia di casa erano modi per allontanare gli “spiriti” e la sfortuna. Dopo le prefiche, ogni parente, a turno, era tenuto a mostrare il proprio pianto davanti la bara. Perché il morto “si deve piangere”, anche dopo il funerale. Per mesi gli uomini dovevano lasciarsi crescere la barba e le donne indossare vestiti che fossero neri. L’esteriorizzazione del lutto, serviva a ricordare a tutti che “polvere siamo e polvere ritorneremo” e che a morire ci voleva davvero poco. Erano i tempi delle grandi epidemie, il divario tra queste e il progresso medico-scientifico era ancora troppo grande. Non restava che pregare. Le superstizioni, allora, rappresentavano l’unico modo per interpretare gli eventi, soprattutto quelli tragici. I decessi improvvisi come quelli da ictus, infarto, oppure la famigerata SIDS (sindrome della morte improvvisa del lattante), di cui solo recentemente si sono scoperte le cause, erano inspiegabili in un mondo ancora così legato ad antiche tradizioni e credenze pagane. All’epoca si trattava semplicemente di sfortuna, di cattiva sorte. Ricordarsi della propria fragilità terrena era l’unico modo per rendere onore al fatidico giorno e sperare che questo arrivasse il più tardi possibile. I lucani, come il resto degli uomini, non sono diventati immortali, ma le prefiche e il loro mondo non ci sono più. Il progresso tecnologico e culturale ha soppiantato alcune credenze. Oggi, se succede qualcosa è per una causa, non per uno spirito maligno e le cause si indagano scientificamente, non si esorcizzano. In un modo globalizzato i grandi stilisti decidono qual è “l’abito adatto ad ogni occasione”. Nonostante tutto, tenere a mente che i giorni dell’uomo non sono infiniti, può aiutare a vivere meglio. «Ricordare che morirò presto – ha detto Steve Jobs- è lo strumento migliore che ho trovato per aiutarmi a prendere le grandi decisioni nella vita. Perché quasi tutto, le aspettative esterne, l’orgoglio, la paura, il ridicolo o il fallimento, tutto questo svanisce di fronte alla morte, lasciando solo ciò che è veramente importante. Ricordare che morirai presto è la miglior maniera che conosco per evitare l’errore di pensare che hai qualcosa da perdere». Pare che a  Putignano, vi fosse anche l’usanza di far seguire i funerali di persone facoltose da parte di orfanelli è cessata soltanto nel 1969 per l’intervento del Pretore di quel mandamento.

E chi la immaginava una notizia simile, chillo ‘o cumpare steve bbuono!” . Ora provate ad immaginare questa stessa frase, detta con un certo tono di lamento e dolore che fa da sottofondo. Non è uno scherzo, o la scena di un film, bensì il lavoro di professioniste che con quelle frasi portavano soldi a casa. Queste erano definite ‘e scapillate’, si affittavano come comparse che al capezzale della salma e successivamente al corteo funebre, mostravano dolore e disperazioneper la perdita della persona in questione. La particolarità di queste donne rientrava nella capacità di riuscire a mostrare un dolore talmente profondo e struggente da apparire quasi reale agli occhi di quanti presenziavano al corteo funebre.

La questione sopracitata è stata oggetto di studio di un celebre antropologo, filosofo e storico delle religioni napoletano: Ernesto De Martino (1908-1965), padre della Storia delle Religioni di ambito napoletano e non solo. De Martino, a capo di una squadra eterogenea di studiosi, ha ben deciso che il campo d’indagine dell’Antropologia e della Storia delle Religioni non doveva più essere necessariamente ricercato tra le popolazioni indigene più lontane: il “culturalmente altro” è, in realtà, proprio qui, in mezzo a noi. Gli studi di Ernesto De Martino, come suggerisce già il titolo del suo capolavoro “Sud e Magia”, adottano come campo d’indagine il meridione d’Italia, quasi quello che in passato è stato il Regno delle Due Sicilie. Un altro tema famosissimo dello storico delle religioni napoletano è stato il cosiddetto tarantismo” o tarantolismo”, tema affrontato in un’altra grande monografia, “La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”.

È in “Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria” (1958) che, però, De Martino parla del fenomeno del pianto ritualeattraverso studi condotti col suo team in Lucania. La crisi spirituale-psicologicavissuta dall’individuo in seguito alla perdita di un caro è, dunque, elemento costitutivo della natura umana e si declina nella cosiddetta “crisi del cordoglio”. https://youtu.be/sA9nNrfqog0

Due sono le forme della crisi del cordoglio: -Ebetudine stuporosa o, in alcune parlate meridionali, “attassamento”: senso di stupore paralizzante che, alla notizia della morte di un caro, impedisce di rispondere agli stimoli esterni come se ci si trovasse al di fuori della realtà e che, spesso, impedisce anche di piangere; – Planctus irrelativo o esplosione parossistica: volontà autolesionistica di colui che ha ricevuto la notizia della scomparsa di una persona cara di assumere la medesima condizione del defunto. Ciò consiste nel procurarsi del vero e proprio dolore fisico (strapparsi i capelli, battersi il petto, strapparsi le vesti ecc…) ed è spesso accompagnato da un forte pianto che sembra non poter finire mai. Queste due possibili reazioni alla scomparsa di una persona cara possono placarsi soltanto attraverso il cosiddetto “planctus rituale”(“pianto rituale”), una sorta di “addomesticamento” delle emozioni immediate: il planctus rituale, infatti, sblocca l’ebetudine stuporosa ed evita gli eccessi del planctus irrelativo incanalando il dolore in una propria forma organizzata. È a questo punto della questione che entrano in gioco le nostre “chiagnazzare”, le professioniste del lamento funebreingaggiate per piangere durante i funerali “guidando” il lamento di tutti gli altri. Una sopravvivenzache, in Italia, è esclusiva del mondo meridionale, si tratta di un’abitudine di estrazione magno-greca. Tale sopravvivenza, è staccata dal pensiero cristiano egemonicoproprio perché abitudine ben precedente proveniente dalla madrepatria greca. L’uso delle lamentatrici professioniste, delle “chiagnazzare”, infatti, è immagine ben presente nella religione greca antica. Ritroviamo queste figure professionali, infatti, già nei poemi omerici durante i funerali di vari eroi. Qui le prefiche compaiono, a chiome sciolte, alla testa delle processioni funebri subito seguite da moglie, madre e sorelle dell’eroico defunto. Proprio così, anche nella realtà del Meridione d’Italia, la prefica guidava il corteo con il suo lamento per portare la variamente vissuta crisi del cordoglio allo stato di planctus rituale. Così come emerso in numerosi studi storico-antropologici del secolo scorso, anche stavolta è la pratica del “rito” a riportare ordinenelle cose. Ernesto De Martino, con i suoi studi, è riuscito a dimostrare al mondo dell’Antropologia e della Storia delle Religioni che il Meridione d’Italia è stato (e ancora è) palcoscenico di interessantissime sopravvivenze culturali che affondano le radici nei più profondi meandri della nostra storia. Ebbene, quindi bisogna partire dal Sud e scoprire il Sud è il primo passo per scoprire il mondo.

Anche a PIZZO CALABRO (VV), un tempo c’erano le “prefiche”, dette “ciangiulìni” le quali, a pagamento, scioglievano i lunghi capelli e piangevano alternando le lodi dell’estinto con singhiozzi e grida. Esse si trovavano soprattutto a Pizzo, tanto che ancora oggi il popolo dice: “Ngi volarènu deci pizzitani a pagamendu mu ti ciàngiunu”. Arte che i pizzitani ereditarono, ma che già era in uso sin dai tempi remoti presso i seguenti popoli della fascia mediterranea: Egiziani, Greci, Spagnoli, Israeliani, Albanesi, Siriani, Fenici, Palestinesi, Corsi, Campani, Lucani e Calabri. A seconda, infatti, dei luoghi, le donne, chiamate a cantare la bara e l’elogio del morto, venivano indicate con vari nomi: Repitatrici, Computatrici, Voceratrici. Vari sono anche i nomi con i quali vengono indicati i canti: Rèpitu, Tribolo, Naccarato, Titio. Le prefiche prezzolate parlavano in nome dei parenti intimi e rievocavano i fatti più salienti o più commoventi della vita del defunto. ”‘I ciangiulini” venivano ricompensate con doni o con denaro. I canti venivano generalmente eseguiti nelle case dei popolani, dove l’estinto aveva lasciato un gran vuoto in seno alla famiglia; meno frequenti erano invece nelle case di personaggi illustri. A volte il ruolo di prefica veniva assunto direttamente dalla vedova, dalla figlia, dalla madre, o da un’altra persona intima del defunto, o una donna del luogo adusa a queste prestazioni. Le prefiche si preparavano alle loro funzioni sciogliendosi i capelli sulle spalle e sul petto con gesti mimici e gridando ad alta voce, prima si “forijavanu” (gesta di disperazione) da sembrare invasate a guisa delle baccanti (sacerdotesse invasate e agitate da Dionisio), poi tessevano, potremmo dire, l’elogio funebre tra canto, lamenti ed alte grida di disperazione. Citiamo alcune frasi che spesso le donne di Pizzo intercalavano tra un lamento, un pianto, un singhiozzo: “Volasti comu ‘n’‘acèjù “, “ti ndi jìsti ‘a ‘na volàta”, “si sbacandàu ‘na casa”. Nel “rèpitu” la vedova così si rivolgeva al marito: “Cumandandi”, “Principi”, “Culonna”, “Cosa ‘randi”, “Cumbagnu mio, tu ti scordasti di tutti!” E la figlia “Patrima; comu fu ca mi dassasti a ‘na vota?”. E la madre: “Fìgghjuma, rispundi a mammata ‘n’atra vota sula!”
Spesso questi canti sfociavano in manifestazioni isteriche; le donne si gettavano a terra e si graffiavano il viso fino a farlo sanguinare; usanze di Pizzo ad imitazione delle tragedie greche o dei personaggi di Omero. A Pizzo la funzione delle prefiche seguiva e segue ancora l’iter antico dei funerali: accompagnare il morto fino all’ultima dimora. Le donne del nostro paese quasi come Andromaca che pianse a dirotto ed in modo inconsolabile la morte del caro e mitico Ettore, piangevano allo stesso modo la morte del loro congiunto, per esse padrone della casa e dei beni, eroe della vita e del lavoro. La moglie, rispetto a lui, era in condizione d’inferiorità e di dipendenza. Per non parlare delle tragedie sul mare; infatti a Pizzo toccavano l’apice della disperazione; in tal caso, le urla delle donne sembravano squarciare il cielo, come se volessero scuotere le stesse onde, aprire il petto per infilarsi nelle pieghe più recondite dell’animo e li impietrirsi per anni e anni. Un esempio dell’identità intrinseca e formale ditali funebri cantilene è dato dal riscontro di un frammento raccolto dal Conte Vito Capialbi nel 1847 in Pizzo che dice: “Dundi vinni ‘stu nùvulu? Vinni l’autu mari: trasiu di la finestra e ruppìu lu spicchjàli” ! I canti delle prefiche non seguono nessuna rima, ma sono di particolare interesse per la bellezza e vigorosità delle immagini, per la profondità dei sentimenti e per le espressioni di crudo realismo istantaneo. Le vedove per distinguersi portavano le trecce sulla testa e, anche dopo due, tre anni dalla morte del caro estinto, per far vedere che in quella casa c’era lutto, durante lo svolgimento di qualsiasi processione religiosa, si tiravano i capelli. Quello che i canti funebri, sia in Calabria come in Sicilia, hanno in comune, è l’assoluta mancanza di sentimento religioso. Perchè questa mancanza di religione? Il popolo crede fermamente che la morte è voluta da Dio, quindi, in quei momenti dolorosi, il cuore e la parola corrono piuttosto alla imprecazione che alla preghiera. “Le prefiche dunque ebbero a sostenere colla chiesa la stessa lotta che i mimi, ma, come questi, riuscirono a penetrare nei misteri e li trasformarono in commedia, e, spesso in farse, così le “repitatrici” resistettero e vinsero; e se di poi mancarono, ciò non avvenne per guerre loro mosse, ma pel cangiare dei costumi”. Ne riuscì a ridurle al silenzio il grande e terribile Innocenzo III che, sottomessa all’autorità papale tutta l’Europa scomunicando l’incipiente libertà inglese, non riuscì a sottomettere le prefiche ai decreti dei concilii. Nè più fortunate delle ecclesiastiche furono le podestà civili. Re Federico III minacciò di frusta le donne che seguissero il feretro urlando e strepitando; ebbene, quando egli morì, lo piansero e lo accompagnarono al sepolcro le repitatrici più note! In modo molto clamoroso piangevano anni fa le repitatrici di Pizzo, tanto che attirarono su di loro la collera dell’autorità municipale. Nel 1875, infatti, il sindaco di allora Comm. Marcello Salomone pensò di ridurle al silenzio con un’ordinanza che vietava tali manifestazioni. Ma anche il suo tentativo fu vano poiché le “ciangiulini “ a Pizzo perdurarono fino alla metà degli anni cinquanta. Fissiamo, dunque, ricordo dei loro canti prima che si disperdano irreparabilmente e vadano perduti i concetti, le immagini, le similitudini generali ed indefinite di ciò che costituiva l’uso della “conclamatio” napitina. Bello nella sua tetraggine è questo canto di Pizzo edito dal Mele, nel quale parla un giovane marito, morto di recente, che si rivolge nell’oltretomba al padre.

Nei paesi del Salento, era possibile incontrare, durante lo svolgimento dei riti funerari, coloro che la tradizione popolare chiamava “rèpute” o, termine più appropriato, “chiangimorti” A Castrignano dei Greci, fino a qualche anno fa, era ancora in vita una di queste donne, anche se, da diverso tempo, prima che passasse a miglior vita, non veniva più chiamata a svolgere la sua mansione, perché tali usi si erano persi fra le pieghe del tempo. Il suo nome era Concetta. Divenuta una dolce e nota vecchietta, concesse un’intervista alla RAI, il cui staff giunse nella cittadina per filmare una cerimonia funeraria, organizzata appositamente per l’occasione. Anche se, di fatto, il morto non c’era, la scena fu così drammatica, e la “chiangimorti” talmente convincente, che i presenti si commossero, facendosi scappare qualche lacrima. “Noi prefiche”, dichiarò Concetta, “non piangevamo mai, facevamo piangere le altre donne, quelle della famiglia del morto. Conoscevamo le strofe a memoria e poi inventavamo secondo i casi”. Era consuetudine, infatti, recitare delle cantilene, tramandate oralmente, con voce triste e sommessa, accompagnandole con lunghi lamenti e singhiozzi e, molto spesso, con un gesto del fazzoletto.

“I CIANGIULERI”. Un vero e proprio mestiere… un pianto a pagamento! Erano donne vestite con abiti scuri e con un velo nero sul viso, educate sin dalla tenera età ad esternare il proprio dolore verso i defunti, che prendevano parte ai riti funerari per piangere la dipartita del defunto. Questa figura quasi del tutto scomparsa, raggiungevano la dimora del defunto, si stringevano intorno al feretro e lo compiangevano con filastrocche, pianto, grida, gesti di disperazione… le cantilene (tramandate oralmente) erano accompagnate da singhiozzi, lamenti e a volte anche con un gesto del fazzoletto. Ma quale compito avevano queste donne? Far commuovere l’anima… erano in grado di far piangere le altre persone. Che il loro dolore fosse sincero o simulato, la loro rappresentazione raggiungeva alti livelli di drammaticità a cui non si poteva rimanere indifferenti. E comunque, grazie a loro, anche chi non aveva una famiglia poteva essere compianto. In Sardegna, c’erano invece le “lamentatrici”, chiamate in Sicilia reputatrici, donne molto povere, che, almeno fino agli anni Cinquanta del Secolo scorso (oggi raramente), con lo scopo di sfamare se stesse e i propri figli, si facevano assoldare per piangere i morti degli altri e per intonare nenie funebri che inneggiassero alle gesta e alle virtù dei cari estinti. Le reputatrici si lanciavano in performances estreme, gridando, disperandosi, percuotendosi il petto e la testa, battendo i piedi per terra, lacerandosi le vesti, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto. Il piagnisteo s’intensificava nel momento in cui la bara veniva portata fuori di casa per il corteo verso il cimitero, come a voler sottolineare la terribile sofferenza del distacco, e ricominciava durante “lu cunsulatu”, il banchetto di ristoro per i parenti e i partecipanti, e durante le visite di condoglianze, che arrivavano a durare fino a nove giorni, tra finestre sbarrate e semichiuse o nella penombra delle candele. Si ricordavano con strazio le disgrazie della malattia e le conseguenze inconsolabili della perdita, cui seguiva un’esplosione di urla e pianti per esorcizzare la morte, per creare un contro altare al rischio incombente della follia a causa della sofferenza provata e per rievocare catarticamente la vita.
Il silenzio più assoluto invece calava alla morte di un bambino, annunciata dall’espressione Gloria e paradisu!
Il bimbo defunto non si piangeva mai, nessuno sapeva cosa fare o dire e nessuno osava parlare. Il bambino era considerato un angelo puro richiamato in Cielo da Dio.
https://youtu.be/8VevOqMPP5Y

Vale sempre ed ancora lo stesso infallibile detto.” ‘O guaio è di chi more, chi resta s’acconcia sempre”, ossia Chi resa: menesta!.

GAETA

7 settembre 1860 – 13 febbraio 1861

Solo. A prendere decisioni che avrebbero dovuto salvare il trono dove nel 1734 si era seduto, per primo, il suo avo Carlo III. Solo, a 24 anni, a tentare di salvare il regno e il futuro della dinastia“. Solo, ma non del tutto. Aveva accanto la moglie, Maria Sofia di Baviera, sorella della leggendaria Principessa Sissi. Il 5 settembre il Re incaricò il Primo Ministro di scrivere l’annuncio della partenza per Gaeta, poi andò in girò per Napoli con la Regina, su una carrozza scoperta, con al seguito un paio di gentiluomini. La solita passeggiata quotidiana, come se l’avanzata di quel Generale col poncho – che Re Francesco chiamava familiarmente “il nostro Don Peppino” – non avesse tolto ai Sovrani neanche un quarto d’ora di serenità, come se nulla li potesse privare del dominio di sé, neanche la più pietosa delle scene, proprio sotto i loro occhi.

Francesco II era salito al trono il 22 maggio 1859, “nel punto in cui ferve in Italia una delle più difficili crisi che abbia mai offerto la storia“, si legge nel “Fondo Borbone” dell’Archivio di Stato di Napoli (f. 1691, n. 160). Le circostanze e i tempi non gli avevano permesso di imparare il mestiere di Re, di conoscere i suoi consiglieri, di mettere a fuoco le situazioni, di acquisire la maturità necessaria a padroneggiare quella caotica fase di conflitti ideologici, politici e militari. La Costituzione, l’amnistia, il rientro degli esuli e la riforma delle istituzioni siciliane sono tutti meriti snaturati dalle contingenze, privi di efficacia. Il Regno è debole e miope. La politica estera delle Due Sicilie aveva una tradizione di stretta neutralità e l’aggressione di uno Stato straniero sfuggiva a ogni previsione. La classe politica era totalmente impreparata a una “guerra ingiusta e contro la ragione delle genti“, come Francesco l’avrebbe definita nel Proclama del 6 settembre. Ingiusta e conto la ragione, perché orfana della figura centrale che sin allora aveva sostenuto la retorica romantica e giustificato l’azione bellica: lo straniero invasore e usurpatore di una terra destinata a ritornare unita. Nelle Due Sicilie non c’erano gli Asburgo, i Lorena o gli Este. Nelle Due Sicilie regnava la dinastia dei Borbone, da 127 anni. “Non so cosa voglia dire l’indipendenza italiana” – avrebbe detto Re Francesco – “io penso soltanto all’indipendenza napoletana“.

L’alternativa tra Napoli e Torino – tra la difesa di un Regno secolare e la partecipazione alla formazione di un nuovo Stato – sfuma da scelta ideologica a calcolo di convenienza, attiva antagonismi e ambizioni personali, favorisce riallocazioni di potere e aspirazioni di carriera, mette in crisi la fedeltà alla dinastia, i legami col territorio, il sentimento di appartenenza, le tradizioni. E’ il  contrappasso alla straordinarietà di Re Ferdinando II. La continuità dinastica – l’assenza di fratture tra la scomparsa dell’antico Sovrano e l’avvento del suo successore – sconta per la prima volta incertezze e perplessità. La formula il Re è morto, lunga vita al Reil Re è morto, viva il Re – la versione aristocratica del più popolare morto un Papa se ne fa un altro – è messa sotto pressione dall’impietoso confronto tra i due Re. La sacralità costruita intorno a Ferdinando fatica a rimodularsi su Francesco. La Monarchia borbonica – privata di una figura mitizzata, che aveva accentrato tutti i volti del potere – si ritrova esposta a una perdita di fascino e mordente. La legittimità ereditata lascia il posto al consenso da conquistare, con l’audacia, il carisma, la forza. Francesco non era Ferdinando, i suoi stessi familiari – i fratelli minori e la Regina Maria Teresa – continuarono a trattarlo con sufficienza, a tenere atteggiamenti informali, e al fondo non ne riconobbero mai l’autorità. Persino la presa di potere – per lo smisurato rispetto verso Ferdinando, della famiglia reale prima, e dell’intero Regno poi – non si accompagnò subito a feste e tripudi: le celebrazioni per Re Francesco iniziarono soltanto il 24 luglio – ben tre mesi dopo la morte di Re Ferdinando – e si protrassero solo per tre giorni.

C’era tutto un corpo politico e militare fedele alla persona del Re, più che alla storia del Regno, legato alla figura del Sovrano, più che all’idea di Nazione napoletana. Gli elementi della triade Re-Esercito-Territorio – che sotto Ferdinando avevano raggiunto rispettivamente il massimo livello di legittimazione, efficienza e radicamento – non solo scontavano un calo fisiologico, ma subivano l’urto di una nuova ondata rivoluzionaria. I nemici dei Borbone avevano gioco facile nel ribaltare il significato della continuità dinastica, nell’enfatizzarne il lato speculare. Francesco II era figlio di Ferdinando II, nipote di Francesco I, pronipote di Ferdinando I, ultimo anello di una catena simbolo di una maledizione perpetua, ultimo esponente di una stirpe di vili tiranni, un “nemico giurato d’Italia, un Re che giura solo per poter spergiurare“, avrebbe detto Carlo Poerio, esule napoletano. Gli assi portanti della dinastia iniziano a sfilarsi. I rappresentati della vecchia guardia si rivelano traditori, disertori, e a loro dire rivoluzionari o patrioti. Francesco non ha fatto in tempo a conoscerli, e già se li ritrova schierati contro. Dietro i cambiamenti epocali, dietro lo stravolgimento dei regimi e delle istituzioni, ci sono pur sempre gli uomini, singoli individui, protagonisti in carne e ossa della storia, a cui le rivoluzioni offrono straordinarie e irripetibili occasioni per realizzare carriere fulminee. Perché sudarsi galloni e promozioni, se tutto poteva aversi semplicemente con un cambio di casacca e di padrone, per di più giustificato dalla più nobile delle motivazioni? Perché impegnarsi in una partita già in mano all’avversario, soprattutto se a reggere il banco era Cavour, il maggiore statista dell’epoca? Perché combattere, se tutto era già scritto, e l’alternativa era così allettante? “Ma se l’Europa non lo vuole, perché dobbiamo farci ammazzare per lui?“, si racconta protestasse un alto Ufficiale borbonico, ad agosto, riferendosi a Re Francesco. Spicca un nome su tutti: Alessandro Nunziante, uomo dei Borbone, amico intimo e consigliere storico di Re Ferdinando, consultato di continuo anche da Re Francesco. E’ la figura da esibire a Torino, come simbolo dell’implosione delle Due Sicilie, e da usare a Napoli, per far passare l’esercito borbonico dalla parte del Piemonte, prima dell’arrivo di Garibaldi. Invia le dimissioni il 2 luglio, senza ricevere risposta. Scrive una seconda lettera, due settimane dopo, col colpo a effetto: la restituzione in blocco delle onorificenze ricevute negli anni, le più prestigiose del Regno. Non può portare sul petto – dice – le decorazioni di un Governo che “confonde uomini onesti, retti e leali con quelli che meritano disprezzo“. Inviterà i suoi uomini a divenire “soldati della gloriosa patria italiana” e la moglie lascerà l’incarico di dama di corte. La perdita più grave, però, non è in un singolo nome, mai in un intero corpo militare: la Marina. “Possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana“, scriveva l’Ammiraglio Persano al Conte di Cavour. E ancora: “Gli Ufficiali Napoletani son pur devoti alla politica di V.E. ed a me. Conservo corrispondenza con quelli di Napoli, non compromettente, ma tale però che ce li assicura senza fallo. Mi scrivono che se si tratta di venire sotto il mio comando son pronti quando che sia“. E poi: “Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni“. Il vile trasformismo della Marina è oggi unanimemente riconosciuto, come apparve evidente già allora. “Rispetto alla Marina Napoletana, era impossibile riconoscere le ultime promozioni fatte da Garibaldi, ch’io non esito a qualificare scandalose” – scriveva Cavour a Vittorio Emanuele. “I contro ammiragli Vacca, Anguisolla, Scugli, ecc. erano capitani di fregata nello scorso luglio, sono di sei o dieci anni meno anziani dei nostri capitani; non si sono mai battuti, hanno navigato pochissimo; non hanno saputo né servire il loro Re, né dichiararsi per la loro patria, hanno sino all’ultimo cercato a tenersi la via aperta per approfittare degli eventi qualunque essi fossero“. Ma defezioni e tradimenti si erano avuti già in Sicilia, prima che Persano arrivasse a Napoli con armi per combattere, agenti per negoziare e denaro per corrompere. Francesco Cossovich, incapace di impedire l’arrivo delle navi garibaldine. Guglielmo Acton, con la sua ridicola opposizione allo sbarco di Marsala. Marino Caracciolo, in clamoroso ritardo nell’appoggiare il già debole contrasto ai “Mille”Amilcare Anguissola, pronto a consegnare la sua pirofregata Veloce a un imbarazzato Persano (che a sua volta la girò a Garibaldi che la ribattezzò Tuckory, il nome del soldato ungherese caduto a Palermo con le camice rosse). I fatti siciliani suscitarono sconcerto persino a Torino. “Le cose di Sicilia sono una gran lezione ai Governi” – scriveva D’Azeglio a Persano, il 28 maggio 1860 – “Pensare che quello di Napoli è arrivato a indebolirsi al punto che un uomo solo, con poche centinaia, sembra ormai sia bastato a rovesciarlo. Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese, o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re, con ventiquattro fregate a vapore non abbia potuto guardare tre o quattrocento miglia di coste. Una fregata ogni venticinque miglia faceva dalle dodici alle sedici fregate, e mai più bella occasione di servir bene. Basta: meglio così“.  Il voltafaccia delle forze di mare fu impressionante, ma altrettanto sconcertante fu l’atteggiamento delle forze di terra. La lista si apre con Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, luogotenente del Re in Sicilia. Inviò contro le camicie rosse soltanto la colonna del Generale Francesco Landi (anch’egli bollato col marchio di traditore, e se non lo fu nei fatti, lo rimase nella percezione diffusa: relegato a Ischia, retrocesso alla seconda classe e infine collocato in pensione). Non utilizzò la “Brigata Bonanno”, giunta da Gaeta a rinforzare le truppe. Rimase incerto, timoroso e indeciso in ogni circostanza. Re Francesco lo richiamò a Napoli dopo lo sbarco di Garibaldi, gli evitò il giudizio del tribunale, ma non gli risparmiò un giudizio personale – moralmente più pesante – di incapacità e codardia. Non lo incontrò né lo volle a Gaeta. Ferdinando Lanza sostituì il Castelcicala, su consiglio di Filangieri. Disponeva di 20.000 uomini e seppe solo asserragliarsi a difesa della capitale siciliana. Inviato anche lui a Ischia, in attesa di giudizio, fu poi assolto e messo in aspettativa, anche qui con una condanna morale di Francesco che oltrepassava ogni sentenza formale. Sarà tra i primi a recarsi a Palazzo d’Angri a ossequiare  Garibaldi, dopo la partenza del Re da Napoli. Giuseppe Letizia consigliò a Lanza di prolungare la tregua con i garibaldini, di affrettarsi a firmare la capitolazione, quando a Palermo c’erano ancora migliaia di soldati borbonici pronti a combattere. Gennaro Gonzales riuscì a perdere un’intera Brigata, prima a Messina e poi in Calabria, senza sparare un colpo. Francesco Bonanno, inviato in Sicilia in aiuto di Landi, sbarcò inspiegabilmente a Palermo anziché a Marsala, e poi, in Puglia, smarrì anche lui la sua Brigata. Il Maresciallo Filippo Flores non provò neppure a combattere e preferì sedersi subito a tavolo delle trattative col Generale garibaldino Stefano Turr. Tommaso Clary fu il principale responsabile della perdita definitiva della Sicilia, anche a causa delle infelici decisioni prese a Catania, dove i borbonici erano usciti vittoriosi, e anziché consolidare le posizioni favorevoli furono smembrati con l’invio di truppe a Messina. E poi Fileno Briganti, Nicola Melendez, Giuseppe Caldarelli, Giuseppe Ghio, tutti personaggi ambigui, in vario modo colpevoli dell’atto più ignobile: il rifiuto a combattere, l’accordo sottobanco col nemico, l’abbandono delle truppe. L’elenco della vergogna sarebbe interminabile, a volerlo esaurire. C’era una massa di imbelli e profittatori che quando fu chiaro chi fosse il vincitore “si dichiararono partigiani del nuovo ordine di cose e si sarebbero dichiarati anche sans culottes o maomettani se vi avessero trovato tornaconto” – scriverà il cappellano borbonico Giuseppe Buttà.

Possiamo gettare sale sulla ferita del tradimento e chiederci come mai il Regno Due Sicilie “avesse nei suoi quadri di vertice uomini vecchi e inoltre facilmente corruttibili o comunque pronti ad abbandonare l’ ‘amato’ sovrano“; ma sarebbe un’impostazione autoreferenziale, un voler tacere su modalità persuasive di stampo manifestamente corruttivo, un mettere in sordina il male fatto alla causa risorgimentale da una fedeltà divenuta merce di scambio; e di fronte a tradimenti e cospirazioni, a sotterfugi e manipolazioni, non può fare a meno di dare voce al pensiero dell’uomo della strada: “avrebbero agito allo stesso modo nei confronti di Re Ferdinando?“.

“Il mondo intero l’ha veduto, per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona.

I traditori pagati dal mio nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio;

ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere al tradimento”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

L’oro del Governo di Torino aveva comprato i militari di Napoli.

Francesco aveva portato poco a Gaeta. Non aveva ritirato i depositi personali, aveva lasciato intatto il tesoro dello Stato, e messo in salvo dalla Reggia solo oggetti di devozione e ricordi familiari. Il Governo italiano confiscò tutto, ma era anche pronto a una conciliazione, a restituire a Francesco il suo patrimonio, se solo Francesco avesse pubblicamente rinunciato a ogni pretesa sui territori delle ormai decadute Due Sicilie.  Francesco oppose sempre un fermo e dignitoso rifiuto. Non accettò mai di ritirarsi in cambio di un’onorevole sistemazione, anche quando stretto da condizioni economiche precarie. Ancora nel 1870, all’indomani della partenza da un agonizzante Stato Pontificio, così rispondeva al diplomatico austriaco, Barone von Hubner, che si offriva di mediare per il recupero di almeno una parte delle ricchezze: “La restituzione del mio non mi adesca. Quando si perde un trono, poco importa il patrimonio. Se l’abbia l’usurpatore o lo restituisca, né quello mi strappa un lamento, né questo un sorriso. Povero sono, come oggi tanti altri migliori di me. Il mio onore non è in vendita.

Il traditore aveva permesso la supremazia dei nemici – interni e esterni – ma aveva anche offerto le motivazioni ad agire ai lealisti borbonici, e “giammai il Regno di Napoli ricorda soldati così fedeli alla bandiera” – scriverà Cesare Morisani, un intellettuale militante – come quelli chiamati a far da controcanto ai vili e ai disertori. Chi fu obbligato a seguire le scelte opposte dei diretti comandanti – come i marinai delle navi sequestrate da Persano – espresse il suo dissenso con azioni di sabotaggio. Non si mossero le navi a cui Vincenzo Criscuolo – fedelissimo della dinastia – aveva ordinato di accompagnare il Re in partenza. Lo seguì la fregata a vela Partenope, stracarica di uomini. I capitani traditori Vacca e Vitagliano recuperano sì le loro navi, ma le trovano vuote: gli equipaggi erano scesi a terra, per raggiungere Francesco a Gaeta. La resistenza di Gaeta – fiera, orgogliosa, accanita – mirava a suscitare una reazione diplomatica all’espansionismo corsaro dei Savoia, ma si alimentava anche con la speranza di un revival del miracolo del 1799, quando un’azione lampo, supportata dal popolo, aveva riconsegnato il Regno al bisnonno di Francesco II. “Quella gloriosa e sventurata campagna del 1860-1861” – come la definì il Generale Giosuè Ritucci, comandante del fronte del Volturno, memoria storica dell’Armata delle Due Sicilie – coagulò la rabbia per la prepotenza dello straniero, il disprezzo per il tradimento dei profittatori, la lealtà delle truppe rimaste accanto alla dinastia e l’eroismo dei popolani. Nasceva il mito unificante della resistenza borbonica.  “Chi restò fino all’ultimo, fra quelle mura di sasso, rimase orgoglioso della scelta atta al punto da scriverlo sui biglietti da visita. Difficile comprendere che cosa spingesse tanta gente a combattere su quell’estremo baluardo di una guerra ormai definitivamente compromessa. Odio per il nuovo corso? Desiderio di non darla vinta ai prepotenti? Senso dell’onore? La storia, talvolta, regala atteggiamenti razionalmente incomprensibili che maturano in un clima irripetibile, esaltato, anche se appare del tutto evidente – agli stessi protagonisti – che il risultato finale non può che essere un massacro […]. I borbonici legittimisti sapevano di non avere un briciolo di speranza. Il loro atteggiamento poteva sembrare il rimasuglio di una romanticheria ottocentesca. Forse qualcuno sperava ancora nella rivolta del popolo e nella guerriglia nelle campagne, ma la maggior parte non poteva non rendersi conto che Francesco II e i brandelli di corte rimasti con lui avevano le ore contate. Viverle eroicamente era il tributo che ciascuno pagava al proprio orgoglio. […]. Francesco II e la regina Maria Sofia si comportarono con orgoglio e dignità. Lui riscattò l’immagine del mollaccione che gli era piombata addosso e lei fu donna di straordinario fascino che trascinò l’entusiasmo dei giovani nobili d’Europa. Si distinsero sugli spalti, incoraggiarono i soldati, curarono i feriti e si dichiararono comprensivi con gli uomini della guarnigione, condivisero il razionamento del cibo e, anzi, si privarono del pranzo per favorire gli abitati civili della cittadella. […]. Sembravano preparati – e forse rassegnati – al peggio e lo dimostrarono in modo quasi incurante, come fosse un dovere della regalità“.

Lorenzo Del Boca ci ricorda che gli eroi sono eroi, non perché vincono o perdono, ma perché si comportano da eroi.

I giorni di Gaeta – a prescindere dall’esito – rimangono una pagina di epica. Lontani dalle ipocrisie e dagli intrighi, in un’atmosfera irreale, tra fragore, polvere e grida, Francesco e Maria Sofia riacquistano il loro spazio e la loro gloria, costruiscono una regalità esaltante, attraverso il contatto quotidiano con i soldati, la condivisione dei pasti, la sfida alla morte, sorretti dalla semplicità delle loro abitudini di vita. “Che il nostro destino sia presto deciso o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido di Viva il Re!“: è il messaggio degli Ufficiali nella Fortezza di Gaeta, un mirabile esempio di valore militare e fedeltà politica, che riscatta l’onore dei Borbone e salva la storia delle Due Sicilie.

“Sire, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, 
di cui la tristezza dei tempi ci à fatto spettatori afflitti ed indegnati;
noi sottoscritti, uffiziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una ferma volontà,
rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono,
reso più venerabile e splendido dalla sventura.
Cingendo la spada, giurammo che la bandiera affidataci da V.M.
sarebbe difesa da noi, a costo del nostro sangue.
E’ a questo giuramento che intendiamo restar fedeli;
quali che siano le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi,
sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e tutt’altro bene
per il successo o pei bisogni della causa comune.
Gelosi custodi di quest’onor militare che distingue solo il soldato dal bandito,
vogliamo mostrare a V.M. ed all’Europa intera
che se molti fra noi ànno col tradimento o viltà macchiato il nome dell’Armata Napolitana,
grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono
di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità”.
(Messaggio degli Ufficiali a Re Francesco II,
in risposta al termine ultimo del 31 dicembre 1860
dato dal Re a chi avesse voluto lasciare Gaeta)

“Militi dell’armata di Gaeta, da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio.

Il tradimento interno, l’attacco della bande rivoluzionarie di stranieri,

l’aggressione di una Potenza che si diceva amica,

niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza.

In mezzo a sofferenze di ogni genere, traversando i campi di battaglia,

affrontando il tradimento, più terribile che il ferro e il piombo, siete venuti a Capua e Gaeta,

segnando il vostro eroismo sulle rive del Volturno, sulle sponde del Garigliano,

sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico,

che disponeva di tutte le risorse d’Italia. 

Grazie a Voi è salvo l’onore dell’Armata delle Due Sicilie;

grazie a Voi può alzar la testa con orgoglio il vostro Sovrano;

e sulla terra di esilio, in che aspetterà la giustizia del Cielo,

la memoria dell’eroica lealtà dei suoi Soldati,

sarà la più dolce consolazione delle sue sventure”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

I partigiani del dopo occupazione

Nell’autunno del 1866 finisce la guerra di Francesco II, l’ex re scioglie il governo esule e il corpo diplomatico. Gli unitari italiani diedero anche un altro colpo alla Chiesa cattolica, l’unico alleato restato al re, abolendo i conventi ed eliminando le chiese di patronato laicale.

I vescovi napoletani pubblicarono l’ennesima protesta, il giornale “Legittimo

Conciliatore” raccolse 26.000 firme contro l’abolizione, ma fu inutile.

Il 6 dicembre il cardinale Sisto Riario Sforza tornò a Napoli. Il capo politico e spirituale della Chiesa meridionale, vicino a Pio IX e tra i più intimi amici di Francesco II, in esilio dal 1861. Nella riunione della Sacra Penitenziaria, pochi prima giorni, chiese di rinnovare la strategia rispetto alle istituzioni italiane e al problema del voto.

Alcuni mesi dopo, alle elezioni comunali di Napoli, notabili conservatori cattolici iniziarono a lavorare all’interno delle liste moderare. Re Francesco II resta a Roma altri quattro anni, coltivando nostalgie e cercando di riavvicinarsi alla moglie Maria Sofia (dopo le complicate vicende degli anni passati). Nel suo archivio affluiscono testimonianze dai collaboratori che restati al suo fianco continuarono a raccogliere dati e documenti utili ad un «Lavoro statistico sul Regno delle Due Sicilie durante l’occupazione piemontese».

Il fratello Alfonso e qualche ufficiale partecipano alla campagna contro i garibaldini a Mentana. L’altro uomo forte a lui vicino, Pietro Calà Ulloa, nel 1867 pubblicò un volume proponendo una federazione italiana, divisa in tre grandi regioni. Nel 1870, caduta Roma nelle mani degli unitari, torna a Napoli, separandosi dal re e dalla regina, a cui sconsigliò di continuare la guerra giudiziaria con lo Stato italiano per il recupero dei propri beni. Aveva ragione, le cause intentate in tribunale furono tutte perse, come l’ultima voluta da Maria Sofia ad inizio secolo. Il conte di Caserta, Alfonso di Borbone, partecipò alla Terza guerra carlista, dove fu al comando dell’esercito del nord, incarnando l’anima militante del legittimismo napoletano. La resistenza borbonico-cattolica non ere spenta. Napoli torna ad essere il centro della lotta politica, in diretta continuità con il patriottismo di guerra dell’esilio e del brigantaggio. I vinti si identificarono nel ricordo dell’esperienza dell’estrema difesa del regno, includendo e sviluppando le narrazioni a cui avevano dato origine fino al 1866. La loro causa perduta diventa la rivendicazione di una dignità nazionale distrutta ma anche la sua consacrazione. Disimpegnatosi Ulloa, spesa la passione militante di Francesco II, il cardinale Riario Sforza fu protagonista della prima fase di questa storia, iniziando a tessere una rete politica di ampio respiro. Resisteva un cerchio di borbonici fedeli, anche a livello popolare. Quando il re Vittorio Emanuele II tornò a Napoli nel 1869, per la nascita del nipote, fu l’occasione per una dimostrazione di fedeltà dell’opposizione borbonico-cattolica. Il circolo della Filarmonica tenne un concerto e, ostentatamente, non invitò la corte, provocando l’intervento della polizia. Il cardinale si rifiutò di benedire il nipote del re, festeggiato in pompa magna dagli unitari meridionali. Tra i vari segni di dissenso, nella provincia pugliese, fu distribuita una protesta contro il titolo assegnato: «un’oltraggio a tante nostre miserie, imponendosi il titolo di Duca di Puglia al neonato figlio di un principe straniero… È un’ipocrita allusione all’osare il legame tra Casa Savoja, e la nostra vetusta grandezza, per ribadire sempre più le nostre catene». La Chiesa napoletana si mobilitò per contrastare l’Anti concilio organizzato da Ricciardi a Napoli, finito male per i litigi tra italiani e francesi e poi sospeso dalla stessa questura. Pio IX, poco dopo, ad aprile aprì il Concilio, l’evento più importante del suo pontificato. Gli scopi erano l’approvazione del Sillabo, il principio dell’infallibilità del pontefice, la difesa del potere temporale. Un posto d’onore, mentre sfilavano in processione quasi ottocento vescovi di tutto il mondo, fu riservato a Francesco II. Il borbonismo napoletano era diventato parte integrante dell’unica resistenza possibile all’unificazione, quella cattolica. Del resto, già negli anni della guerra al brigantaggio, solo Pio IX gli aveva dato amicizia e protezione. Anche se confinato in un circuito minoritario, si diede comunque vita ad una combattiva battaglia politica, animata da aristocratici, alto clero, ex militari, preti e popolani. Era, secondo Croce, una piccola società, presente in circoli della ex capitale e del Mezzogiorno. Non mancarono episodi capaci di emozionare, come il duello d’onore tra il borbonico conte Statella ed un ufficiale meridionale delle guide, il capitano Basile. Quando nel1869 il duca di Casacalenda, fece un intervento di apertura allo Stato italiano, una parte importante della nobiltà napoletana pubblicò una durissima protesta perché «abbassandosi a ratificare l’usurpazione» aveva tradito la patria e la classe sociale.

L’aristocrazia borbonica rivendicò la bandiera della dinastia che aveva reso grande ed indipendente la nazione napoletana, contro chi «la cara Patria allo straniero aveva asserviva», mentre essa «saputo per nove anni conservarsi illibata» rispetto a chi era passato nel campo del vincitore.

Poi c’erano ex combattenti come Carlo Corsi e Luigi Gaeta, che diventarono i principali organizzatori di iniziative associative e pubblicistiche, il conte Anguissola, Giuseppe Buttà, i vecchi sostenitori francesi il giornalista Charles Garnier. Spiccarono soprattutto uomini rispettati nell’alta aristocrazia, come Nicola Caracciolo duca di Torella, personaggio rigoroso e combattivo, Francesco de Mari duca di Castellaneta, Pietro Caracciolo di Brienza. Carlo Capece Galeota duca della Regina, colto e raffinato, restato a lungo come rappresentante ufficiale di Francesco II presso il Papa. Tornato a Napoli fu una specie di portavoce dell’ex re e della casa reale. C’erano anche altri familiari di riduci, come il nipote del generale Casella, il capo del governo di Gaeta, Enrico Casella. Convivevano due club,esclusivi quanto ammirati, quello del Whist e la Società Filarmonica, presieduta dal duca di Bivona e poi dal Duca di San Cesario. I giornalisti legittimisti napoletani, attivi tra il 1867 e i primi anni del Novecento, furono il principale punto d’incontro di questo variegato movimento. Secondo la questura, nel1871-72 tiravano una media tra 9.000 ed 11.000 copie. La Libertà cattolica, fondata nel 1867 dall’abate Geronimo Milone, era su posizioni di difesa del potere temporale del papa, intransigentismo elettorale, polemica contro gli unitari e borbonismo, diventò il giornale quasi ufficiale dell’episcopato napoletano, stessi toni ebbe il Contemporaneo di Napoli. Ritornò in campo Ercole Ragazzini, che nel 1861 era stato tra i più aggressivi legittimisti, con La cronaca cattolica, un appassionato foglio che gli costò anche il carcere (morì nel 1871). Queste pubblicazioni si moltiplicarono dopo le elezioni del 1872. Il Galiani, fondato quell’anno (si fuse poi con L’Italia reale), diretto dal duca di Castellaneta e con Calà Ulloa tra gli scrittori di punta si presentò definitivamente come assoluto intransigente. I suoi animatori non vollero partecipare alla campagna amministrativa che, portò alla vittoria della lista del cardinale (nel 1875 solo per evitare polemiche con altri legittimisti attenuò le posizioni). Quando Luigi Tosti, un colto religioso romano, pubblicò un’opuscolo a favore della conciliazione tra Chiesa e Stato italiano, il direttore del giornale rispose con un volumetto, affermando che “il romano Pontefice resterà sub ostili dominatione”. Una sola cosa potrebbe menomare la sua grandezza: il riconoscersi suddito e cittadino italiano! La Discussione fu la principale testata legittimista napoletana, dopo aver raccolto un cospicuo numero di azionisti, l’assemblea che fondò il giornale fu presieduta da Francesco Proto, duca di Maddaloni, che aveva denunciato alla Camera la politica italiana nel 1861 ed era stato tra gli uomini di più vicini all’ex re durante l’esilio. Francesco Scamaccia Luvarà, nipote del comandante delle bande irregolari del 1860-61, era uno dei suoi combattivi animatori.

Il giornale seguì le battaglie dei legittimimisti europei come i carlisti in Spagna o gli chambordiani in Francia. Giovanni de Torrenteros, ex militare e collaboratore di Francesco II, insieme al fratello, mantenne sempre il giornale sulla linea di netto rifiuto della partecipazione al voto politico e intransigente fedeltà ai principi cattolici borbonici. Quando fu formato il Circolo cattolico, in vista delle elezioni del 1892, la Discussione, spiegò il suo appoggio alla nomina del presidente, il marchese di Sangineto, sottolineando che questi era «genero del principe di Bisignano e figliuolo del migliore amico e servitore del nostro nostro Re, il barone di Miglione.

Anche il suo successore, Nicola Montalbò, mantenne una posizione antiunitaria e separatista fino alla chiusura del giornale, nel 1903. Vincenzo Manzione (che ancora alla fine degli anni novanta subì un breve arresto per la sua attività), fondò il Guelfo e poi Il nuovo Guelfo, anche questo su posizioni di rigida lealtà cattolico-borbonica. Il 1872 rappresentò idealmente il passaggio dalla fine della resistenza armata alla battaglia politica. Il cardinale Riario Sforza seguì una linea scelta dallo stesso Pio IX per le amministrative di Roma, con la costituzione dell’Unione romana

Per la prima volta si decise di partecipare alle elezioni a Napoli. I consigli provinciali e comunali non prevedevano l’atto di giuramento al re e alle leggi italiane, considerato un ostacolo insormontabile dal Vaticano; erano quindi un terreno di battaglia possibile. Questa valutazione tattica non modificò la scelta intransigente dell’astensionismo politico. Il Concilio Vaticano del 1869-70 aveva proclamato il dogma della infallibilità pontificia. Fu seguito dalle disposizioni del 1874 della Sacra Penitenziaria Apostolica che sancì il divieto formale ai cattolici di partecipare alla vita pubblica italiana (era Riario Sforza un alfiere di questa linea). Le chiese di Napoli spesso registrarono prediche «anti-italiane». La Discussione contrastò brutalmente tentativi di ambienti conciliaristi con la realtà unitaria, come la riunione di casa Campello (1878-79) o le posizioni del conte Del Pezzo e di altri cattolici conservatori, in favore della partecipazione alle urne dopo la riforma elettorale del 1882. La compenetrazione dei partigiani duo-siciliani nella battaglia cattolica era completa. Il cardinale Riario Sforza, in vista delle elezioni amministrative, fondò una organizzazione, chiamata; Associazione degli interessi economici.

I legittimisti cattolici borbonici ampliarono una rete di mobilitazione capillare sperimentata con la raccolta delle firme per le ventuno petizioni inviate a Francesco II nel 1862-63. Per la prima volta le sagrestie di Napoli si mobilitarono, furono creati comitati operativi nelle 12 sezioni elettorali in cui all’epoca divisa la città, ognuno aveva tre strutture locali. Furono raccolte, undicimila iscrizioni. Il 25 giugno il cardinale inviò una circolare con cui invitò i cattolici a votare compatti e ai parroci a mobilitarsi. Le sedi della Chiesa, compreso l’episcopio, diventarono centri elettorali. Per qualche giorno la battaglia conquistò le prime pagine nazionali, la sinistra napoletana denunciò un tentativo di cambiare la direzione politica del Paese, Ruggero Bonghi chiamò a raccolta gli italiani, il ministro degli interni Giovanni Lanza inviò una circolare per chiedere ai liberali di presentarsi compatti alle urne. Senza esito perché non si superarono le divisioni tra i gruppi unitari. Il repubblicano Giorgio Asproni nel suo diario annotò i timori per questa frammentazione. Anche le liste cattoliche non mancarono di trascinare al proprio interno le faide tra i legittimisti, ma in proporzioni minori. Il principe di Torella, Nicola Caracciolo, fu posto al vertice del comitato elettorale e pose il veto sulla candidatura di Cognetti a cui non furono perdonate presunte debolezze verso gli unitari. Asproni prese atto che anche preti e monaci erano in campagna elettorale. Così nel 1872 i cattolici e borbonici vinsero le elezioni amministrative di Napoli (dopo 11 anni di egemonia unitaria), eleggendo 43 consiglieri su 80 (tra questi 19 nella lista iperlegittimista-borbonica del principe di Torella, gli altri in formazioni concordate, 14 insieme a gruppi moderati), poi in un complicato quadro di accordi, un cattolico liberale, il conte di Acerra, Francesco Spinelli, fu nominato sindaco. Asproni scrisse che le divisioni tra unitari avevano rialzato «il cadavere del clericume, l’hanno rimesso in potere e in onore». La maggioranza durò poco, ma il comune di Napoli restò al centro della battaglia politica. I legittimisti vi concentrarono tutte le loro forze, con l’obiettivo della buona e corretta gestione, cercando di depoliticizzare, nella rappresentazione pubblica, questa versione dell’impegno militante. In una città rilevante demograficamente e culturalmente, dove il grande intervento per il

Risanamento ebbe come protagonista il loro spietato nemico degli anni del brigantaggio, l’ex questore Nicola Amore, la vita politica aveva dimensioni rilevanti ed era un palcoscenico nazionale. Le elezioni successive (1873 e 1874) non diedero buoni risultati ai legittimisti, che ebbero invece una parziale rivincita nel 1875, in alleanza con gruppi moderati. Nel 1880-81 proposero liste che portarono in consiglio una nuova generazione di cattolici ed esponenti della tradizionale nobiltà borbonica. Nel 1885, invece, i liberali fecero blocco e la lista del Comitato cattolico ne uscì completamente distrutta (ebbe un solo consigliere). Cognetti, che sin dal 1867 si era battuto contro l’intransigentismo elettorale, spesso trovò con la sinistra originali contatti (nel 1876 sostenne l’amministrazione del duca di Sandonato).Un cambiamento si annunciò dopo la morte di Riario Sforza (1877), quando giunse al vertice della Chiesa napoletana Guglielmo di Sanfelice, dei duchi di Acquavella, meno radicale. Ma il clima cambiò lentamente, nacque un comitato elettorale distinto da quello fondato da Sforza. Ma vennero pure violentemente critiche verso il nuovo cardinale perché accettò di benedire le case aperte con il Risanamento alla presenza dei reali di casa Savoia. A partite dagli anni ottanta, con l’introduzione dell’Opera dei congressi (a Napoli nel 1879) e soprattutto con il I° Congresso Cattolico di Napoli (1889-1890) ci furono segnali diversi, spinti anche dalla sequenza di sconfitte elettorali registrati nelle comunali fino agli anni novanta, seguite dallo scioglimento delle organizzazioni per creare dopo la morte di Sforza, il Comitato Napoletano e poi l’ Unione Napoletana.

La militanza dei vinti non si limitò alle battaglie dei cattolici meridionali, perchè la causa perduta borbonica raccolse l’esperienza del primo decennio di resistenza rielaborandola, e consolidando temi ed argomenti degli anni del patriottismo di guerra in una propria rappresentazione mitica. Pietro Calà Ulloa continuò ossessivamente a lavorare pubblicando a getto libri, dal brigantaggio calabrese alla biografia di Carlo Filangieri. Questa, uscita nel 1877, fu una sorta di testimonianza conclusiva della sua storiografia napoletana. Per Ulloa il Decennio francese fu epoca di stragi, guerre civili, fratture drammatiche, invece la Restaurazione fu una stagione di ritmo e consolidamento dello Stato. La biografia del principe di Satriano riassumeva questa sua valutazione della storia nazionale, Ulloa concluse il volume scrivendo che Filangieri «era vanto di patria» per questo «i napoletani, per lunghe età, lo ricorderanno». Morì nel 1879, ma questa rielaborazione, mise nell’angolo il suo antico rivale letterario, Giacinto De Sivo, anche lui morto, e non considerato da una parte dei borbonici. Ma i suoi libri torneranno in auge solo tempo dopo. Il maresciallo Giosuè Ritucci, ultimo comandante in capo dell’ex re, scrisse sullo storico che «dei maligni lo avevano indotto a credermi l’efficienza delle sventure toccate al il nostro esercito sulla linea del Volturno; e più a pormi fianco in vista di tradire». Ma anche Giovanni De Torrenteros motivò i suoi scritti come necessità di difendere il suo onore dalle necessità del libro «nel quale spesso si è fatta menzione di me con oltraggio alla verità e alla giustizia». I legittimisti si batterono per la loro versione della storia napoletana e della fine del regno. L’ex cappellano militare Giuseppe Buttà che era stato tra gli assolutisti intransigenti a Roma, nel 1877 pubblicò tre volumi sui Borbone di Napoli. Era la raccolta delle dispense che la Discussione aveva venduto insieme al giornale. Buttà divide la storia dell’antico Stato in due parti, «una di ricostruzione praticata in questo regno da due Re di Casa Borbone, l’altra di lotta tra il vero progresso e la rivoluzione. La prima epoca comincia dal 1734 e finisce nel 1793; la seconda da quest’anno sino al 1860». I volumi erano presentati con un richiamo all’orgoglio nazionale napoletano, fatto di grandi tradizioni tali da «fare esclamare a molti di voi: anche noi apparteniamo a quelle belle contrade». Qualche anno dopo Francesco Scamaccia Luvarà riannodò le fila di questo passato collegando la resistenza anti-repubblicana del 1799 a quella del Decennio francese, l’epopea di Ruffo e le rivolte del 1806-8. Nell’introduzione al libro di Angelo Insogna su Francesco II, tracciò una storia in cui la dinastia borbonica e l’indipendenza napoletana erano strettamente connesse. Le guerre di Carlo III, la politica di Ferdinando IV, la lotta contro gli invasori francesi e i liberali traditori avevano unito una parte del napoletano per «per il RE e per la PATRIA». Questo inedito patriottismo maturò un passato epico e glorioso, denso di primati, sereno e legalitario, il capitano Tommaso Cava disse che Ferdinando II abolì di fatto la pena di morte; talchè in 12 anni di perenne cospirazione contansi appena due sole esecuzioni capitali. Anche se la spudorata setta lo ha dichiarato un Nerone che popolava di cadaveri il suo Regno, mentre oggi si tace quanto tutti sanno che in soli 3 anni sono stati sgozzati 12 mila individui, oltre allo scempio di Pietrarsa, altro nuovo genere di empietà inaudita. Per l’ex colonnello Giovanni Delli Franci le istituzioni duo-siciliane erano «le migliori che mai si cercano tra le più incivilite nazioni di Europa, opera delle elucubrazioni di Ferdinando II.

Così la denuncia della spoliazione delle ricchezze fu affiancata ad una patria distrutta che cercò di coltivare i sentimenti e frustrazioni. La protesta diffusa nelle province pugliesi descrisse un mondo di prosperità finito «dopo nove anni di concussioni, e di soprusi; dopo le sofferte espoliazioni, e rapine di ogni genere,dopo tante leggi di sangue, i brogli del plebiscito, scrisse Cava, utilizzando «mezzi violenti e repressivi». Per Filippo Pisacane il regno non sarebbe caduto senza inglesi e francesi, le «due Potenze i cui rappresentanti erano i più forti sostegni del Piemonte».

Il nucleo concettuale del neo patriottismo duo-siciliano combinò la fedeltà dinastica con l’epopea della difesa della libertà nazionale, anche con il brigantaggio. Bisognava fare i conti però con la spaccatura radicale del regno che aveva visto buona parte delle sue élite, aderire al nuovo Stato italiano. I ricordi dei sacrifici sopportati tra il 1860 con base epica, delle settimane del Volturno e di Gaeta, e l’esilio riempirono comunque saggi storici e articoli dei giornali, mentre continuarono ad uscire i volumi dei combattenti. Luigi Gaeta motivò la pubblicazione delle sue memorie dell’assedio di Messina con l’esigenza di difendere «il nome dell’esercito napolitano», la «vera gloria nazionale» delle Due Sicilie.

Ritucci scrisse che «molti generali avevano vilmente tradita la causa del Re e perciò del Regno, ed altri l’aveano abbandonato. Dovevo volgergli anch’io le spalle nell’estremo bisogno di fidi al suo trono?».

Ludovico Quandel, ultimo dei tre fratelli combattenti, diventato una icona borbonica, ricordò quando la guarnigione di Gaeta salutò per l’ultima volta il re e la regina. Era alla testa della colonna che uscì dalla fortezza per accogliere l’onore delle armi dei piemontesi prima di consegnarsi: «l’ordine di marciare è dato, e man mano i Corpi cominciano il loro movimento prima di uscire dalla piazza. È questo l’ultimo atto della monarchia e dell’Esercito delle Due Sicilie: fra pochi minuti l’uno e l’altro passeranno nel dominio della storia».

Così il legittimismo recuperò il re eroe, il disprezzo per lo straniero invasore, il tradimento dei generali, gli eroi e i soldati. Diede l’esempio lo stesso Buttà, che raccontò la difesa del regno a cui aveva partecipato dal primo scontro in Sicilia fino a Gaeta. E i concetti,che evocavano i valori patriottici napoletani del 1860-66, furono sviluppati e finirono per avvicinarsi alla morfologia del discorso unitario italiano allo stesso tempo rinnovarono i materiali della nazione perduta. I giornali pubblicarono una edizione in legittimo dialetto napoletano del libro di Garnier sull’assedio di Gaeta. Delli Franci, uomo di spicco in tutte le operazioni del 1860, fu autore di una fortunata Cronaca della campagna d’autunno. Nel suo volume il re e i soldati napoletani lottarono con coraggio per la libertà delle Due Sicilie e il controllo dell’infranta l’autonomia. Anche per Ritucci, il Volturno aveva affermato la volontà di resistenza dei napoletani. Questa intensa lotta ebbe sempre tra i suoi obiettivi i traditori, coloro che avevano consentito il crollo del regno. Filippo Pisacane, in esilio con la famiglia reale a Roma e poi a Nizza fino alla sua morte, sostenne che fu la scelta della costituzione voluta da una minoranza il crollo del regno.

Carlo Corsi, ufficiale di artiglieria a Gaeta e attivissimo organizzatore del reducismo borbonico, sfidò a duello l’ex ministro di Francesco II e ora potente generale italiano, il «traditore» Giuseppe Pianell. La sua campagna contro i rinnegati del vecchio esercito duosiciliano, combattuta insieme all’ex capo di Stato maggiore di Messina, Luigi Gaeta, durò mezzo secolo. Quando la vedova di Pianell annunciò la pubblicazione di lettere e ricordi del marito curata da un suo attendente, il capitano Corsi pubblicò un primo libro di confutazioni per «tenere alto il nome napolitano tanto oltraggiato ed avvilito», smontando pezzo per pezzo, con documenti e ricordi, l’azione di ministro della guerra di Pianell nel 1860. Ancora nel 1899, mentre furono organizzate grandi celebrazioni ed eventi per l’anniversario della Repubblica napoletana, il Nuovo Guelfo propose di sostituire la stele ora in Piazza dei Martiri, con una colonna infame dedicata a Romano, Spinelli, Pianell e Nunziante, i traditori della patria. Nella leggenda nera della causa perduta duo-siciliana erano lo specchio rovesciato del patriottismo autentico. Il capitano Cava fece il caso di Antonino Nunziante, fratello del traditore per eccellenza, il generale Alessandro Nunziante, «che determinamente disse che l’onore suo era legato al suo dovere», partecipando a tutte le battaglie egli scontri dell’estrema difesa del regno, anche in presenza di accusare infamanti. Anche il nemico interno era racconto Enrico Cosenz, scrisse Buttà, era stato«antico uffiziale napoletano, disertore del 1848, assaltò con gente straniera i suoi antichi connazionali e compagni d’armi». Per il colonnello Delli Franci, la responsabilità della guerra civile era dei rivoluzionari napoletani «che sciogliendo il freno alle idee, ruppero in eccessi di smodate aspirazioni verso nuove forme governative», provocando la disgregazione delle istituzioni:

Il parlamento nazionale degenerò in aperta cospirazione, con atti che simulano un carattere di legalità; al tempo stesso che cominciava una sanguinosa lotta fra ribelli e milizie nazionali, la città divenne teatro di quelle orrende scene di sangue cittadino, che nelle guerre intestine si versa in olocausto ai capricci di una falso ed esagerato amor patrio.

Erano stati loro opere un successo in queste belle contrade faziose, come quelle dei fratelli Bandiera nei lidi di Cosenza, di Pisacane a Sapri ed altre di simil natura.

La monarchia resta l’unica vera bandiera. In tutte le occasioni dei compleanni del re si continuarono a stampare manifesti che, a nome della «maggioranza dei napoletani», auspicavano che la restaurazione di Francesco II li liberasse del «dominio sabaudo». Nella protesta pubblicata dall’aristocrazia borbonica napoletana nel 1869 il re «per l’indipendenza della Patria à combattuto».

Continua a rappresentare un riferimento simbolico anche per la nobiltà legittimista europea. Tra gli altri, il club aristocratico di Marsiglia, Sauvéteurs du Midi, lo nominò presidente onorario nel 1868 e una città laziale, Cori, lo elesse nella sua società letteraria.

Quando nacque la figlia nel 1869 (morta subito dopo) vi giunsero numerose lettere dalle ex province, conservate in parte nel suo archivio: un sacerdote napoletano gli scrisse commosso per «il tanto aspettato avvenimento» e un gruppo di curati di Caltanissetta, «eco fedele della nazione siciliana», si dissero disposti a dar la vita per la difesa del Regno.

Francesco Spinelli, Conte di Acerra, nacque a Napoli, di nobile famiglia. È stato sindaco di Napoli dal 1872 al 1874. Fu eletto senatore del Regno d’Italia dal 1892 al 1897, anno della sua scomparsa.
Fu membro di diverse istituzioni, come del comizio agrario di Napoli, del consiglio direttivo degli educatori femminili di Napoli, soprintendente dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Fu anche presidente generale dell’Esposizione di Belle Arti di Napoli. Possedeva vaste proprietà fondiarie nella storica tenuta di famiglia, la contea di Acerra.

I legittimisti borbonici, dopo il 1861 combatterono contro i piemontesi anche con i giornali, che ebbero vita assai difficile, e con circoli e associazioni. Era membro del circolo Gennaro Pisacane, duca di San Giovanni, nipote di quel Carlo Pisacane, eroe dell’impresa di Sapri ucciso a Sanza nel luglio del1857 dai contadini. Filippo, fratello di Carlo, fu invece sempre un fervente e coraggioso legittimista, seguì Francesco II in esilio, poi si stabilì a Parigi e non tornò mai più in Italia. Il figlio Gennaro ereditò da lui e conservò intatta la fedeltà ai Borbone. Una figura importante nel mondo del legittimismo borbonico fu il conte Enrico Statella di Cassaro, figlio del generale Antonio Statella, che seguì in esilio Francesco II. Il conte Enrico, “gran signore, carattere fiero e generoso”, che aveva combattuto nell’esercito di Francesco II come ufficiale degli ussari, ebbe come cognato il marchese Antonio di Rudinì, che fu sindaco di Palermo, convinto “savoiardo”, prefetto di Napoli e ministro dell’Italia unita. La polizia napoletana, sebbene sapesse della sua stretta parentela con il di Rudinì – o forse, come sospettarono i maligni, proprio per ordine del cognato filopiemontese – sottopose il conte Enrico e la sua casa a numerosi e rovinosi controlli, e durante una di queste visite i poliziotti osarono ordinare al conte di spogliarsi nudo, per controllare se nascondesse armi. Nel maggio del 1876 il principe ereditario Umberto e la moglie Margherita, che due anni dopo sarebbero diventati Re e Regina d’Italia, visitarono Napoli, accolti dalla nobiltà amica con feste e banchetti. Un giorno, in via Caracciolo, che dame e “galantuomini” affollavano per la consueta passeggiata, il conte Enrico Statella passò accanto alla carrozza della principessa Margherita, e non si inchinò, né salutò. Anzi, due ufficiali “italiani” raccontarono poi che il conte, in segno di disprezzo, si era “calcato il cappello sulla testa”. Uno dei due ufficiali, il tenente Basile, lo sfidò a duello. Lo scontro, al primo sangue, si svolse in una villa a Fuorigrotta, mentre una folla enorme, in piazza Vittoria, aspettava di conoscere l’esito del confronto. Il Basile venne ferito al braccio quasi subito, e i suoi padrini riconobbero immediatamente che la vittoria era dello Statella. Il quale dichiarò, cavallerescamente, che sebbene non gli facesse piacere vedere i Savoia seduti sul trono dei Borbone, egli non aveva offeso in alcun modo la principessa Margherita, poiché, in quanto nobile siciliano e ufficiale dell’esercito napoletano, egli sapeva come comportarsi nei confronti di una Signora.

Carlo Corsi, nato a Napoli, il 24 maggio 1830, da Luigi Corsi, colonnello d’artiglieria, e direttore della prima officina meccanica e fonderia, detta di “Pietrarsa”, che sorge ancora nella località Croce del Lagno sita dove il paese di S. Giovanni a Teduccio diventata Portici. (Oggi sede del museo ferroviario)
Seguendo l’esempio paterno, all’età di nove anni, entra «a mezza piazza franca» nel Real Collegio militare della Nunziatella. Completata la formazione, il 9 ottobre 1849, esce dalla Scuola con il grado di alfiere d’artiglieria, ed è incorporato nel Corpo d’Artiglieria dell’esercito borbonico. Prestando servizio nel Reggimento Reale Artiglieria, dove prosegue la carriera. Dopo undici anni, da capitano ottiene il suo primo comando di batteria, dove sostituisce il traditore Nicola Di Somma, che aveva abbandonato la sua batteria e al Volturno trovandosi in riserva nella piazza di Capua fu chiamato dal Re in persona a coadiuvare l’attacco sul paese di S. Tammaro fortificato dai garibaldesi. Al comando del generale Sergardi appoggiò la cavalleria è con molta intelligenza e coraggio altissimo distruggendo molte barricate fino ad occupare il paese. Per questa sua esemplare azione fu decorato con la Croce di diritto di San Giorgio. Il 29 ottobre 1860, la sua batteria fu la prima ad aprire il fuoco contro gli invasori che furono respinti con grandi perdite. Sconfinato con la sua batteria nello Stato Pontificio, in dicembre raggiunse Gaeta, partecipando così all’ultima difesa del Regno. Il 17 gennaio 1861, viene promosso maggiore: «… per il valore ed il coraggio dimostrato per la difesa del regno». Dopo la resa di Capua, il 2 novembre 1860, con il meglio delle forze dell’esercito napoletano, passa alla difesa di Gaeta, assediata dalle truppe garibaldine e piemontesi. Durante l’assedio, combatte con indomito coraggio nei nefasti eventi bellici, tanto da poter gloriarsi di aver servito il suo re fino all’ultimo e di essere uscito da Gaeta nel 1861 «con le micce accese», segno di riconoscimento per l’onorata resistenza da parte delle truppe assediate. Caduta la piazzaforte, si ritira in esilio a Roma per alcuni anni. Tornato a Napoli, «impugna la penna» per difendere il Reame, fondando il quotidiano Il Contemporaneo di Napoli, che si pubblicò dal 1871 al 1876.
Se con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, molti ufficiali borbonici passano nell’esercito sabaudo, fedele al suo unico giuramento, si rifiuta di entrare nell’esercito piemontese con lo stesso grado di maggiore. Torna alla vita civile, e per il resto della sua vita, si occupa di difendere la causa duosiciliana, come redattore del più diffuso quotidiano legittimista “La Discussione”, e prima ancora fondatore del quotidiano “Il Contemporaneo di Napoli”. Sulle pagine del quotidiano La discussione, si firma «… Carlo Corsi, maggiore delle artiglierie borboniche, capitolato di Gaeta», e descrive le vicende militari della caduta del regno, pubblicando a puntate “Le memorie di un veterano”.
Rimasto senza parenti e con l’unico aiuto di una misera pensione di ex ufficiale borbonico, si vide costretto a vendere uno dopo l’altro tutti i suoi beni, fra i quali la bella villa Corsi di Portici, all’angolo del Largo della Riccia.
Nel 1861, ha scritto l’opuscolo dal titolo Cenno biografico di Giuseppe Salvatore Pianell, destinato a fare passare delle spiacevoli giornate al generale prezzolato grande traditore del regno.
Una copia dell’opuscolo, la invia allo stesso generale Giuseppe Salvatore Pianell (Palermo, 9 novembre 1818 – Verona, 5 aprile 1892), ex ministro della guerra del Regno delle Due Sicilie, trasmigrato nell’Esercito italiano, accompagnata da una nota a termine che diceva: “Và che la maledizione della Patria ti perseguiti fin nelle viscere dell’inferno con tutti i Traditori tuoi compagni”. Nel 1887 diede alle stampe l’opuscolo Il commendatore Luigi Corsi e lo stabilimento di Pietrarsa, per difendere dagli attacchi de “Il Pungolo”, giornale liberale, la politica protezionistica del governo borbonico.
Nel 1903, oramai settantaduenne, diede alle stampe «… un libretto che ebbe addirittura due edizioni, intitolato: “Confutazione alle lettere del generale Pianell”, nel quale rispondeva alla sua maniera, alle affermazioni contenute nelle memorie del generale voltagabbana da poco pubblicate».
Autore di altri testi storici e traduttore dal francese di alcuni libri come “Lettere napoletane” di Calà Ulloa e della biografia di Francesco II a cura di Angelo Insogna.
Nello stesso anno, per difendere l’operato e le azioni dell’esercito delle Due Sicilie (anche detto esercito Napoletano e non Borbonico, in quanto sin dal 1744 esercito nazionale e non milizia mercenaria familiare) nella campagna militare del biennio 1860-1861», pubblica il volume “Difesa dei soldati napoletani”. Il maggiore d’artiglieria Carlo Corsi muore a Napoli, il 2 febbraio 1905.

Esempio di impavido uomo e grandissimo soldato, a te tutti gli onori per quel Regno che con ardore hai cercato di salvare.
Sono questi gli uomini che andrebbero ricordati intitolandogli strade e piazze, invece per essi solo l’oblio.

Pietro Calà Ulloa, acque a Napoli nel 1801, dal Duca di Lauria Francesco e da Donna Elena O’Raredon, nobildonna irlandese. È il primo di tre fratelli fedelissimi alla dinastia borbonica (gli altri due sono Girolamo e Antonio).
Frequentò il Real Collegio Militare della Nunziatella, ma si dedicò solo per brevissimo tempo alla carriera militare. Successivamente si dedicò allo studio, con una imponente produzione di saggi di argomento storico e letterario. Dopo aver svolto le funzioni di avvocato nel 1836 fu assunto alla Corte suprema di Napoli.
Esercitò dapprima le mansioni di magistrato in Sicilia e Procuratore del Re a Trapani, ove nei suoi rapporti descrisse il fenomeno della mafia in Italia. Costituzionalista, fu tra coloro che parteciparono al progetto di dettato costituzionale, approvato da Francesco II.
Fedele ai Borbone, Pietro Ulloa fu l’ultimo Primo Ministro napoletano di Francesco II, carica che gli venne conferita da Francesco II quando aveva già lasciato Napoli. Durante l’Assedio di Gaeta, fu responsabile dei dicasteri dei Lavori Pubblici, Istruzione pubblica, Affari ecclesiastici, Grazia e Giustizia, Interno e Polizia. Ricoprì l’incarico di Primo Ministro anche nel governo in esilio a Roma.
Ritornato a Napoli nel 1870 vi rimase sino alla morte; si dedicò agli studi storici, tra i quali i più noti sono: Intorno alla storia del reame di Napoli di Pietro Colletta (1877) e l’opera in gran parte ancora inedita Sulle rivoluzioni del regno di Napoli. Le sue numerose opere sono interessanti per la luce che gettano sull’ultimo periodo storico visto da parte borbonica. Ulloa è considerato inoltre uno dei padri dell’idea confederativa meridionalistica: furono infatti particolarmente apprezzate le sue argomentazioni in materia, secondo alcuni di origine neoguelfa (tesi peraltro dimenticate per oltre un secolo e solo recentemente riscoperte) su una possibile unione confederativa della penisola italiana, alternativa alla unità d’Italia.

Ludovico Quandel, avviato alla carriera militare dal padre, come i fratelli Pietro, Giuseppe e Federico, entrò il 21 aprile 1855 nel Real Collegio Militare della Nunziatella da cui uscì il 19 ottobre 1858 alfiere del Real Corpo di Artiglieria delle Due Sicilie. Col grado di primo tenente, il 28 luglio 1860 prese parte alla battaglia di Capua, alla battaglia del Volturno e alla battaglia del Garigliano, al comando della Batteria nº 5.
Successivamente fu tra i protagonisti della difesa dell’ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie al comando di due batterie sul fronte di mare.
Per il valore dimostrato, fu promosso capitano sul campo e gli fu conferita la croce di Cavaliere di Merito dell’Ordine costantiniano di San Giorgio.
Dopo la resa di Gaeta, fu imprigionato a Capri e successivamente a S. Maria.
Come altri suoi colleghi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, una volta scarcerato fu invitato ad entrare nel neonato esercito del Regno d’Italia. Preferì ritirarsi a vita privata a Monte di Procida con la moglie, la cugina Giuseppina Vial.
Nominato vice sindaco della borgata Monte del comune di Procida, con atto del 27 novembre 1901, incominciò a svolgere un’opera di cura amministrativa della piccola comunità, all’epoca frazione del comune di Procida.
Grazie al suo contributo, il 27 gennaio 1907, il re Vittorio Emanuele III firmava il decreto, controfirmato dall’allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti, di distacco della borgata dal comune di Procida. Non volle mai concorrere alla carica di Sindaco del neonato Comune per non giurare fedeltà alla monarchia sabauda, essendo rimasto sempre fedele a Francesco II di Borbone.

LA STORIA DI NAPOLI RACCONTATA DAI CANTI POPOLARI: “In galera lì panettieri”

I napoletani hanno da sempre cantato in ogni situazione, e non solo per raccontare l’amore, la bellezza, il dolore, la gioia, ma anche per vantare la merce che vendevano, per esprimere la loro devozione alla Madonna, per comunicare con i carcerati, e per commentare eventi storici, motteggiare un personaggio, rivendicare, protestare…

Ripercorrendo rapidamente la storia di Napoli, ci si accorge che dal XII secolo in poi, i canti scandiscono le epoche. E non è detto che, prima del suddetto periodo, non si sia cantato a Napoli: è solo che gli archivi prima di allora rimangono muti.

Il più antico canto del genere è indubbiamente quello delle “Lavandaie del Vomero” che, intonando Tu m’aje prummise quatte muccatora / oje muccatora, oje muccatora!, reclamano al regnante di turno le terre promesse (muccaturo, sta per fazzoletto, fazzoletto di terra). Il canto risale al XII-XIII secolo e si cantava ancora nel secolo XV, tant’è che molti scrivono che fosse diretto ad Alfonso d’Aragona. Agli inizi del ‘400, si commentava nelle strade l’assassinio di Gianni Caracciolo, il troppo potente amante della regina Giovanna II. Nel periodo vicereale, nonostante i divieti, le vie e viuzze echeggiavano di meravigliose villanelle ma anche di ritornelli satirici sulle avventure di Palazzo. E’ alla fine del ‘500 che risale “In galera li panettieri”, rielaborata da Roberto De Simone. Nacque a causa di una famosa serrata dei panettieri come risposta al mancato aumento del prezzo del pane da ‎ parte del Viceré, che si era opposto per paura di tumulti popolari:

In galera li panettieri
mò ca s’erano arreccuti
tutti s’erano resoluti
deventare cavalieri
in galera li panettieri
Deventare cavalieri In galera li panettieri. Mò ca s’erano ingranduti

Nun vedevano li paput Ca turnavano comm”a ieri In galera li panettieri. Se credevano già baroni D’affamà la pupulazione Nun se devano penzieri In galera li panettieri. Oh che spasso che bellu sfizio Quanno venne la giustizia Ca diceva: “mò che ne spieri” Pave hoggi chello d’ajeri

In galera li panettieri.

Napoli ha una storia ricca di sommosse popolari, legate all’ingiusta distribuzione delle ricchezze e quindi alla miseria di una gran parte degli abitanti. La canzone (una Villanella) “In galera lì panettieri” risale addirittura al 1577, quando durante una carestia la folla si scagliò contro i fornai, accusandoli di speculare sul prezzo del pane. I panettieri vengono accusati di essersi voluti arricchire alle spalle della popolazione: si credevano già importanti come de nobili (“cavalieri” e “baroni”) quando, con grande soddisfazione dei poveri affamati, vennero arrestati.

Ma la descrizione di questa quasi ‎‎“rivolta del pane”, una delle tante accadute in Italia, dall’assalto ai forni milanesi del 1628, ‎descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”, alla “Strage del pane” a Palermo nel 1944, potrebbe ‎anche tranquillamente riferirsi proprio alla rivoluzione dei lazzari napoletani guidati da Masaniello ‎contro le gabelle spagnole e le imposte sui beni di prima necessità…‎

Alla fine del 500, in pieno vicereame spagnolo, l’amministrazione del potere in città era affidata agli eletti dei seggi nobili (con sei rappresentanti) e a quello del seggio popolare (un solo eletto). Il rapporto, dunque, era di cinque voti a uno, decisamente sbilanciato a favore dei nobili, che delle istanze popolari se ne fregavano allegramente. Nel 1585 la sciagurata decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il conseguente aumento del prezzo del pane, provocò una drammatica carestia che sfociò in una violenta insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell’Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace. Che in quell’occasione indossò i panni del perfetto caprio espiatorio.
Il poveretto, al termine di un’assemblea imposta da una moltitudine tumulante, fu giudicato colpevole per aver dato il suo assenso, con gli altri eletti della città, all’esportazione di grano. Ma sarebbe meglio dire per non essere riuscito a evitarla. Né riuscì ad evitare la «beffa del pane». Gli eletti dei seggi nobili, infatti, avevano decretato la riduzione del peso del pane (da 28 a 24 once) lasciando tuttavia inalterato il prezzo: 4 grane. A difesa di Starace bisogna dire che in quei giorni era bloccato a letto da una malattia debilitante. A ogni modo, pur malato e privo di forze, l’Eletto provò a mediare, ma non fece in tempo a far valere le sue ragioni. E pagò con la vita i suoi errori.
Un luogo, più di altri, ci riporta a quegli anni, a quel clima, a quell’insurrezione che precedette di sessant’anni la rivolta di Masaniello. Quel luogo è Sant’Agostino alla Zecca, dove si tenevano le adunate popolari e dove aveva sede il Seggio del Popolo. Qui l’Eletto Starace, che aveva cercato (senza riuscirci) di rimediare alla scellerata decisione del viceré, fu trascinato dalla folla inferocita e accusato pubblicamente di non aver tutelato gli interessi del popolo. Tra insulti, sputi e bestemmie, il capro espiatorio fu condotto alla gogna. Per sottrarsi al linciaggio cercò di nascondersi in una cappella della chiesa, ma fu raggiunto dai manifestanti più scalmanati, ferito con una stoccata al petto e rinchiuso, ancora vivo, in una tomba della cappella. Poi, agonizzante, fu tirato fuori dal sepolcro, portato di peso, ormai morente, in piazza della Sellaria (oggi Piazzetta Archivio di Stato, all’epoca uno dei quartieri più popolari della città) e finito a colpi di pietra. Infine fu squartato, mutilato del cuore, delle budella e definitivamente smembrato. I resti vennero sparsi per le vie della città. E tanti saluti al rappresentante del popolo.
L’uccisione di Starace fu carica di macabri rituali simbolici: «strascinamento», mutilazione ed evirazione del cadavere, ostentate minacce di cannibalismo, antropofagia, vendita della carne «cristiana» (vedi Rosario Villari, Un sogno di libertà). Il sangue di Starace chiamò altro sangue. Contro i panettieri, accusati più o meno subdolamente dalle autorità di speculare sulla carenza di grano, si scatenò la vendetta della plebe.

La rivolta del pane mostrò una notevole capacità di mobilitazione degli strati subalterni della popolazione. Il duca d’Ossuna stroncò l’insurrezione alla maniera sua (e della Corona di Spagna): con un bagno di sangue. Da un lato si rimangiò le disposizioni sul pane: anzi, fece importare farina. Dall’altro, per vendicare l’Eletto del Popolo, organizzò una delle più terribili cacce all’uomo della storia del vicereame. Le vittime furono decapitate e i loro corpi dilaniati come quello del povero Starace. Mani e teste mozzate, a futura memoria, furono appese in una gabbia di ferro alla Sellaria, dove abitava l’Eletto. Il duca d’Ossuna, un viceré megalomane e sanguinario, sarebbe passato alla storia per aver completato il restauro del famoso acquedotto della Bolla. Tolse il pane ai napoletani, ma non gli fece mancare loro l’acqua. Un anno dopo il massacro, fu sostituito dal conte di Miranda Juan de Zunica.
Il martirio dell’Eletto Starace è ricordato oggi da una strada che porta il suo nome: via Eletto Starace, appunto. È la traversa che dal numero 128 del corso Umberto conduce, dopo una breve rampa di scale, in via Ferri Vecchi e in via Lucrezia d’Alagno, nei pressi della fontana della Sellaria. È la strada attraverso la quale l’uomo del popolo fu condotto al martirio. Piazza della Sellaria e Sant’Agostino alla Zecca erano a quei tempi tra le zone più popolari dela città. La Sellaria, oggi piazzetta Archivio di Stato, è stata fino alla metà del 400 sede del Seggio del Popolo. Quando il Seggio fu abbattuto la sede fu trasferita proprio a Sant’Agostino alla Zecca.
La chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, teatro del supplizio dell’Eletto Starace, fu chiamata così perché, nel 1681, vi fu edificato accanto l’edificio della Zecca. In tempi remoti in questa zona della vecchia Napoli, fuori porta Forcellese, era stato eretto un cenobio di suore benedettine. Carlo I d’Angiò, che ampliò la città portandone le mura fino a piazza Mercato, aveva talmente a cuore il benessere delle nobildonne napoletane in ritiro nel vecchio cenobio da far ampliare il convento, dotandolo di ricche rendite.
A Napoli c’è un vicoletto che, più di altri, ricorda l’antica e nobile categoria dei panettieri. Si snoda parallelamente a via Duomo, inerpicandosi da via San Biagio dei Librai a piazza Girolamini. È il «vico nero» che «non finisce mai» e che ispirò il celebre brano Carmela, frutto del sodalizio tra due geni, il poeta Salvatore Palomba e il maestro Sergio Bruni. Vico Panettieri è chiamato così fin dal XIV secolo per la presenza, nelle vicinanze, di numerosi forni pubblici. Vi sorgeva il Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, poi divenuto seminario arcivescovile. Attualmente ospita le suore di Madre Teresa di Calcutta, che da anni mettono a disposizione i locali dell’antico convento, a due passi dalla chiesa dei Girolamini, per accogliere chi non riesce a garantirsi neanche un pasto al giorno.

Giovan Vincenzo Starace era un ricco figlio di commerciante di drappi e seta, forse nativo di Piano di Sorrento, che nel 1576, fu nominato, grazie alle sue fortune personali, “eletto del Popolo napoletano” governandolo per due anni; rieletto poi nel 1583, per la sua insaziabile ambizione e dall’ansia di nobilitazione, cominciò a firmarsi come “Storace” per mascherare le sue origini “borghesi”. Altezzoso e tronfio, passò alla storia non per essere riuscito a nobilitare la sua “casata” facendo sposare il figlio Marzio con la nobile Diana d’Afflitto tant’è che il nome dei loro discendenti divenne, appunto, Storace d’Afflitto, ma per la drammatica rivolta popolare del maggio del 1585 causata dalla penuria di grano a Napoli a seguito della spedizione in Spagna da parte del Vicerè Pedro Girón duca d’Osuna, su richiesta del Re Filippo II, di 400.000 tomoli di grano che avrebbe dovuto porre fine ad una terribile carestia che stava mettendo in ginocchio l’intera Spagna. Per fronteggiare il problema che questa infausta decisione creò a Napoli, in una riunione del Parlamento dei Sedili i cinque Deputati dei Seggi nobiliari proposero di diminuire il peso di vendita del pane, con aumento del prezzo. Due delegati del Popolo, in sostituzione di Starace assente per malattia, si opposero a questa assurda proposta e la decisione pertanto fu rinviata. Incominciò a serpeggiare in Città, una protesta nei confronti di Starace, ritenuto, ingiustamente, fautore della proposta, solo perché “uomo di molto ricapito, ricco, buon parlatore, bianco e pieno di carne”. Per arginare queste calunnie, Starace convocò per il giorno seguente un’assemblea del Popolo, invitando i rappresentanti ufficiali: 29 capitani del popolo e 10 consultori, oltre altri due delegati per ogni ottina (quartiere). Nel frattempo si diffuse la voce in Città che non c’era più pane ed a questa assemblea si presentarono migliaia di popolani del ceto “basso” inferociti che iniziarono ad insultare ed a cercare di aggredire fisicamente Starace che, invano, cercò di calmare la folla giurando che non aveva mai detto di voler aumentare il prezzo del pane, né di volerne diminuire il peso per mandare il grano in Spagna! Sciolse pertanto l’assemblea e propose di recarsi in delegazione, il giorno dopo, dal Vicerè per manifestargli la volontà popolare. Forse perchè il luogo era più vicino al Palazzo Vicereale, fu scelto di riunirsi a Santa Maria La Nova; era il 9 maggio ma la moltitudine che si presentò era impressionante! Starace era arrivato su una sedia (perché sofferente di gotta), portata a mo’ di portantina da due uomini. Questa scena indispettì ulteriormente la folla che incominciò ad urlare che il Parlamento dove il Popolo era uso riunirsi era a Sant’Agostino alla Zecca e non un altro! Starace rispose che non si stava facendo “Parlamento” ma la folla allora lo sollevò di peso sulla sedia, portandolo a S. Agostino «sospeso con le spalle voltate, senza baretta» ed Il trasportarlo così, di spalle, rispetto alla direzione di marcia e senza berretto, simboleggiava dispregio e negazione dell’autorità. Il corteo si gonfiava sempre di più di esagitati che, al grido di Serra! Serra! insultavano l’Eletto e gli lanciavano sul viso ogni genere di sporcizia. Giunti a Sant’Agostino, Starace tentò di mettersi al sicuro in una cappella ma fu raggiunto alla fronte da un mattone; si buttò allora in una sepoltura ma fu tirato fuori a viva forza. Due gendarmi accorsi per aiutarlo, furono scacciati con minacce ed armi improvvisate. A Starace fu messo un cappio al collo e trascinato a faccia per terra per le vie della Città, venne smembrato e fatto a pezzi mentre il tumulto della prima ora ormai era diventata una vera e propria rivolta che infiammò tutta la Città. La folla con il cadavere smembrato dell’Eletto Starace giunse a Palazzo e dopo due giri intorno al Palazzo, gli tagliarono, infine, la testa buttandola ai piedi del Vicerè gridando : “ecco il malgoverno”! il duca d’Osuna, rispose: “Viva il Re” ma il popolo reclamò il pane!”. La rivolta si era ormai diffusa in tutta la Città.

Alcuni popolani saccheggiarono la casa di Starace fino a sera. La rivolta continuò per settimane e cominciarono a vedersi cartelli che incitavano a sollevarsi in armi per il giorno di San Giovanni. La protesta infine si placò grazie anche all’intercessione di un sacerdote teatino, Lancillotto Avellino (conosciuto poi come Sant’Andrea Avellino) che organizzò una solenne processione penitenziale che durò tutta una notte, passando per tutte le chiese cittadine, compresa la Cattedrale, dopo aver distribuito ai poveri, il poco pane che c’era nel convento. Ma Il regime, spaventato per possibili nuove ribellioni, mentre nelle Fiandre un’analoga rivolta già aveva messo in crisi il Governo vicereale, reagì nella maniera più dura; oltre ottocento processi; esecuzioni capitali di massa, centinaia di torturati e condannati alle galere o all’esilio; la casa del principale capo della rivolta, il capitano del Popolo, Giovan Leonardo Pisano che era riuscito a fuggire, fu rasa al suolo ed i ruderi furono cosparsi di sale! Fu innalzato, al suo posto, un macabro monumento con delle nicchie dove vennero esposte, per diversi mesi, 24 teste mozzate di altrettanti condannati per ribellione.
Di quel tragico monumento, ci resta una stampa coeva ed a memoria della estrema crudeltà umana, una targa in una piccola via, intitolata ad un Eletto che il suo stesso popolo elettore odiò fino alla morte. Pochi, passando per quella strada, conoscono questa storia vera e non sanno cosa possa significare la denominazione “Eletto Starace”.

NEL REGNO DELLA MAFIA

Pietrò Calà Ulloa, nel 1838, all’epoca Procuratore del Re a Trapani, scrisse a proposito della mafia, già presente allora in Sicilia, al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli: “…Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti…”. Insomma, la mafia c’era già allora, ma come sottolinea Pietro Calà Ulloa era “senza colore o scopo politico”. Essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici”. La mafia come reazione a uno Stato che non garantiva giustizia ai cittadini, i quali la giustizia la cercavano in altri modi: o facendosi giustizia da sé, o rivolgendosi alle persone che in lingua siciliana si definiscono ‘ntise’, ovvero persone che godono del rispetto generale, in parte perché si sostituiscono alla giustizia in parte perché sono delinquenti che godono di grande fama, anche fama di imprendibili, sia perché sono abili, sia perché sono protetti dallo stesso Stato. Questo malinteso senso della giustizia viene illustrato in modo molto chiaro dallo storico Salvatore Francesco Romano nel volume Storia della mafia. “… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano – italiano del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3^ edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamos che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa”.

Tutto cambia con la cosiddetta unificazione italiana. “Se nel 1861 l’Italia non fosse stata unificata sotto i Savoia, la mafia non si sarebbe probabilmente sviluppata, almeno non per come la conosciamo noi. Il motivo? Non si sarebbe verificata quella graduale marginalizzazione del Sud Italia (trasformato in realtà periferica dalle politiche piemontesi), che lasciò ai mafiosi un’ampia libertà di azione. Prima dell’unificazione, infatti, la mafia era un’accozzaglia di criminali che agivano per conto di baroni e ricchi possidenti locali. Poi, con lo sbarco dei mille in Sicilia, molti mafiosi ingrossarono le file delle Camicie rosse facendo da scorta a quest’ultimo. Il passo successivo della mafia fu quello di penetrare nelle pieghe dello Stato, sfruttando il vuoto di potere seguito alla cacciata dei Borbone dalle terre del Sud. Già dal 1861 parecchi mafiosi si infiltrarono nei governi cittadini e non solo, finché il fenomeno assunse dimensioni tali da porsi quale alternativa alle stesse istituzioni nazionali”. Con il Borbone la mafia era contro lo Stato e fuori dallo Stato; con l’avvento della vera o presunta unificazione italiana la mafia entra nelle pieghe del nascente Stato, con sfumature che cambiano a seconda del momento storico.

Probabilmente di ciò si rese conto anche Napoleone Colajanni, ex garibaldino siciliano e deputato parlamentare tanto da scrivere il primo libro sulla Mafia: “Nel Regno della Mafia” del 1900. Il Colajanni aveva ben capito che lo stato “dialogava” con la mafia già prima dell’Unità d’Italia e denunciò le connivenze tra mafia, politica ed autorità statali in relazione al clamoroso omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo (1893). Il 1º febbraio 1893, durante il tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, fu ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, entrambi mafiosi di Villabate, e il suo cadavere gettato giù dalla carrozza all’altezza del ponte Curreri, in agro di Trabia. “Dal processo (Notarbartolo) contro due ferrovieri, che man mano si trasforma in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!”

Le prime indagini portarono a sospettare della complicità di due ferrovieri e di un boss della cosca mafiosa di Villabate, Giuseppe Fontana, ma al termine della prima istruttoria furono rinviati a giudizio solo i due ferrovieri presenti sulla carrozza al momento dell’uccisione e quindi ritenuti correi degli assassini.

Nel 1899 si aprì quindi il primo processo che, per legittima suspicione, si celebrò a Milano. Durante lo svolgimento delle prime udienze nella città lombarda, Leopoldo Notarbartolo, il figlio della vittima, accusò pubblicamente in aula l’onorevole Raffaele Palizzolo di aver ordinato l’omicidio del padre. Subito, la Camera dei deputati, su pressione del Presidente del Consiglio Luigi Pelloux, concesse all’unanimità l’autorizzazione a procedere contro Raffaele Palizzolo, che venne dunque arrestato dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi insieme a Giuseppe Fontana, che stava trascorrendo la latitanza presso le tenute agricole del principe Pietro Mirto Seggio, dove svolgeva la mansione di campiere. Nel 1900 il secondo processo si aprì presso la Corte d’Assise di Bologna e furono chiamati a deporre ben 503 testimoni e tra di essi figuravano ex ministri, deputati, senatori, prefetti, questori e funzionari di Pubblica sicurezza. Le udienze vennero seguite con attenzione dai corrispondenti delle principali testate nazionali e colpirono profondamente l’opinione pubblica: per la prima volta si parlava apertamente di delitto di mafia, delle sue implicazioni politiche e dei tentativi di depistare le indagini, circostanze che furono pubblicamente denunciate dai deputati Napoleone Colajanni e Giuseppe de Felice Giuffrida. Nel luglio 1902 Palazzolo e Fontana vennero giudicati colpevoli e condannati a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza di Bologna per vizi di forma. Lo scandalo assunse proporzioni tali che si costituì addirittura un “Comitato Pro-Sicilia”, cui aderirono intellettuali quali Giuseppe Pitrè e Federico De Roberto, il quale mirava a difendere l’isola offesa dalle accuse lanciate nel processo, negando addirittura l’esistenza della mafia, ritenuta un’invenzione dei settentrionali per diffamare la Sicilia. Nel nuovo processo che si tenne a Firenze venne convocato un solo importante testimone nuovo, Matteo Filippello, un sicario di mafia il quale si era deciso a confessare il delitto e ad accusare l’ex compagno Fontana e il mandante Palizzolo ma venne trovato impiccato prima di testimoniare, ufficialmente “suicida”. Perciò nel luglio 1904 Palizzolo e Fontana vennero assolti dalla Corte d’Assise di Firenze per insufficienza di prove.

“La Mafia, quindi rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borbone; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borbone. I più noti mafiosi furono i più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo. Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specie nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

“Sotto l’aspetto amministrativo la mezza libertà dei cittadini e la mezza autonomia degli enti locali sotto i Sabaudi segnarono un vero peggioramento sulle precedenti condizioni sotto i Borbone. Municipi e provincie servirono a gravare enormemente le imposte, a ripartirle per fini individuali, senza unità collettiva, a scopo di nepotismo e di favoritismo, per preparare candidature politiche”.

Colajanni scrive che Alongi, funzionario di P.S. nel 1893 afferma: “Il 90% dei Comuni in Sicilia era amministrato con criteri e forme tali che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno perché allora si aveva il diritto d’inchiodare sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto l’intervento violento, ma pure sempre riparatore, del governo centrale”. Il giudice Rocco Chinnici, che conosceva bene storia e mondo della mafia, partiva da un assunto: “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia… La mafia… nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. In realtà, pur avendo Chinnici un buona parte ragione, nel senso che la mafia presente nello Stato comincia proprio con la nascita dell’Italia, tra il 1860 e il 1861, ma come abbiamo ricordato c’è un aspetto della mafia, precedente alla vera o presunta unità d’Italia, che merita di essere approfondita.

Le ultime righe del libro di Napoleone Colajanni sono fulminanti: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia».

“PER COMBATTERE E DISTRURRE IL REGNO DELLA MAFIA È NECESSARIO, È INDISPENSABILE CHE IL GOVERNO ITALIANO CESSI DI ESSERE IL RE DELLA MAFIA” Napoleone ColaJanni

Uno dei primi saggi mai scritti sulla mafia. Uno sconvolgente documento per capire che nulla in centosessanta anni è cambiato!

Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, banchiere e politico. È considerato la prima vittima eccellente di cosa nostra in Italia. Nel febbraio 1876 è nominato dal governo Minghetti direttore generale del Banco di Sicilia, cerca con la sua autorità di riorganizzare il sistema bancario siciliano, scosso dopo l’Unità d’Italia. Il Banco di Sicilia è sull’orlo del fallimento, e l’operato di Notarbartolo è orientato a evitare il collasso dell’economia siciliana. Crea una rete capillare di agenzie e opera una stretta sulle erogazioni di credito, da sempre effettuate senza garanzie e sulla base di principi clientelari, inimicandosi pertanto molti speculatori.
Il consiglio d’amministrazione del Banco è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. È affiancato in particolare dal parlamentare Raffaele Palizzolo, con il quale ha già avuto non pochi screzi a causa delle speculazioni avventate da lui messe in atto. C’è addirittura il sospetto che sia il mandante del sequestro messo in atto ai danni del marchese nel 1882 mentre si trova nei suoi possedimenti a Caccamo, per il quale Notarbartolo è costretto a pagare un riscatto di 50000 lire. Nel 1889 Notarbartolo provò a denunciare questa situazione in due lettere inviate al ministro dell’Agricoltura e del Commercio Luigi Miceli che però vennero trafugate dal tavolo del ministro e ricomparvero misteriosamente nelle mani di Palizzolo, il quale le mostrò agli altri consiglieri d’amministrazione.

Raffaele Palizzolo, fu nominato nel consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia in contrasto con l’allora direttore generale, il marchese Emanuele Notarbartolo. Azionista della Navigazione Generale Italiana, fu implicato in speculazioni di borsa realizzate mediante denari del Banco.
Il giurista palermitano Gaetano Mosca così lo descrisse: «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse».
Aveva rapporti con diversi mafiosi, fu incriminato come mandante dell’uccisione di Notarbartolo avvenuta il 1º febbraio 1893. Nel 1902 venne giudicato a Bologna colpevole e condannato a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza e, nel nuovo processo che si tenne nel luglio 1904, fu assolto dalla Corte d’assise di Firenze per insufficienza di prove. Dopo l’assoluzione, al suo ritorno a Palermo, fu acclamato come un eroe, vittima di un complotto per diffamare la Sicilia. Scrisse addirittura un libro autobiografico intitolato Le mie prigioni e nel 1908 compì un viaggio a New York per raccogliere voti presso le comunità di emigranti siciliani ma non venne rieletto e terminò così la sua carriera politica.

QUANDO ERAVAMO ‘IGNORANTI’ MA AVEVAMO LE UNIVERSITA’

Nel Settecento, sotto l’impulso dei sovrani meridionali che ne incentivarono fattivamente lo sviluppo, si assistette alla rinascita culturale delle Due Sicilie; il rigoglioso fiorire di studi filosofici, giuridici e scientifici si fregiò di illustri personalità le cui opere furono tradotte in diverse lingue, solo per citarne alcuni ricordiamo: Giovanbattista Vico, considerato una delle più grandi menti di tutti i tempi, Gaetano Filangieri, la cui “Scienza della legislazione” era tenuta sulla sua scrivania da Napoleone Bonaparte che non esitò a dichiarare “Questo giovane è stato il maestro di tutti noi” ; Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Giacomo Della Porta, Pietro Giannone, Mario Pagano.

Napoli era il centro di pensiero più vivace d’Italia e in Europa era seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo; lo splendore della Corte e della società napoletana era proverbiale ed erano poli di attrazione per le più importanti menti dell’epoca che spesso vi rimanevano a lungo; geni assoluti come Goethe riconobbero nelle classi elevate meridionali una preparazione non comune.

Ebbe a dire Stendhal: “Napoli è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione rafforzate“; era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro d’Europa, fu definita come: «la città più allegra del mondo, scintillante di carrozze, quasi non riesco a distinguerla da Broadway, la vera libertà consiste nell’essere liberi dagli affanni ed il popolo pare veramente aver concluso un armistizio con l’ansia e suoi derivati”.

Le Università del Regno, in un primo momento, furono tre: Napoli fondata da Federico II nel 1224, Palermo e Catania; invece, Messina era sede della Reale Accademia Carolina e dell’Accademia Peloritana di Scienze; successivamente, col Real Decreto del 29 luglio 1838, la Reale Accademia Carolina venne elevata al rango di Università. A Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870; al tempo della nascita dello Stato italiano, il numero degli studenti meridionali era maggiore di quello di tutte le università italiane messe assieme (9 mila su complessivi 16 mila).
Ogni Regia Università, con a capo un Rettore, aveva sei facoltà (Belle Lettere, Giurisprudenza, Medicina, Matematica e Fisica, Filosofia e Teologia) e alcuni “stabilimenti dipendenti” (biblioteche, musei, gabinetti, cliniche, etc.).
Con il Real Decreto del 14 gennaio 1817, nei territori “di qua del faro” vennero istituiti 5 “Reali Licei” a Napoli, Catanzaro, L’Aquila, Bari e Salerno, che resteranno invariati per i prossimi 30 anni; in ciascuna delle altre province, invece, vennero istituiti dodici “Reali Collegi”. In Sicilia, tra il 1815 ed il 1848 vengono istituite 3 scuole superiori: la Scuola Militare di Monreale (1823), l’Istituto Nautico di Trapani (1831) e il Regio Liceo di Trapani (1833), che solo dopo 5 anni verrà dotato di una biblioteca. Nell’isola, inoltre, c’erano le Accademie Maggiori di Messina, Siracusa e Trapani; le Accademie Minori di Acireale, Caltagirone, Nicosia e Piazza; i Collegi di Augusta, Bivona, Castrogiovanni (Enna), Corleone, Licata, Mazzara, Mazzarino, Mineo, Monreale, Monte S. Giuliano (Erice), Naro, Polizzi, Regalbuto, Rometta, Sciacca, Scicli, Termini e Vizzini.
Esistevano, inoltre, ubicati nella capitale, alcuni istituti di carattere par­ticolare, come la “Scuola dei sordomuti”, la Scuola di Bell e Lancaster” e lo “Stabilimento Veterinario”, ed altre istituzioni culturali pubbliche, concentrate, soprattutto, a Napoli e a Palermo e che contribuivano alla formazione ed all’educazione dei giovani: le Accademie, i Reali Istituti di Incoraggiamento con le connesse Società economiche, le Biblioteche, i Reali Educandati, i Conservatori di Musica.
Ogni Liceo e Collegio, con annesso un Convitto, aveva un rettore e un vicerettore; l’amministrazione dei beni e delle rendite era affidata a una Commissione composta dall’In­tendente della Provincia che la presiedeva, dal rettore e da due proprietari, col nome di amministratori; nel Liceo di Napoli la Commissione era presieduta, invece, dal rettore, quando non vi interveniva il Presidente della Giunta di Pub­blica Istruzione.
I licei conferivano i “gradi” di “approvazione e licenza” nella letteratura, giurisprudenza, medicina, matematica e fisica, filosofia, a seconda del particolare “ramo di istruzione”; la “licenza” in teologia era conferita nei seminari, mentre la laurea nel­le Università. Dal 1748 per volontà di re Carlo di Borbone fino al 1811 la città di Altamura, in Puglia, ha avuto la sua Università in cui si insegnavano materie letterarie e scientifiche. Come dire che non si studiava solo a Napoli o a Palermo, ma anche ‘in provincia’ e non studiavano solo i ricchi.

Dal 1748 al 1811 fu attivo in Altamura un Regio studio o università, creato da Carlo III di Borbone nell’ambito della politica riformista avviata per rendere il nuovo stato napoletano autonomo dalla Chiesa, partendo proprio dal togliere a quest’ultima il monopolio dell’educazione dei giovani. Fu attiva per 63 anni fu stroncata dalla “rivoluzione”

La nascita di questa istituzione si inserisce nel clima della cultura giurisdizionalista ispirata da Pietro Giannone, e fu voluta fermamente dall’arciprete della chiesa altamurana, mons. Marcello Papiniano Cusani, che del Giannone fu grande amico. Cusani è anche il primo rettore e come tale si dà da fare per istituire le prime cattedre. Nel giro di tre anni partono i corsi di lettere umane, eloquenza greca, eloquenza latina, filosofia, geometria, medicina, sacra teologia e giurisprudenza ecclesiastica e civile. Con il suo successore, mons. Gioacchino De Gemmis, protagonista dei fatti del ’99 ad Altamura, la cultura giurisdizionalista, a cui si ispiravano tutti gli insegnamenti impartiti nel Regio studio, lasciò spazio al riformismo illuministico-genovesiano. De Gemmis, infatti, sostituì alle Istituzioni civili e canoniche il Diritto naturale e delle genti ed introdusse l’insegnamento della medicina, della chimica e della botanica. L’università di Altamura divenne punto di riferimento per la gioventù pugliese e lucana, aiutati anche dall’apertura di una biblioteca a disposizione degli iscritti. Le nuove disposizioni obbligano anche i docenti a tenere almeno cinque ore di lezione al giorno e a non allontanarsi dall’ateneo senza aver corretto i compiti svolti in aula dagli studenti. I cambiamenti in atto portano alla formazione di classi composte da giovani e valorose menti provenienti da Puglia e Basilicata. Non si sa quanti fossero di preciso: grazie al ritrovamento di alcuni foglietti risalenti al 1788 siamo a conoscenza che la maggior parte di loro è di Altamura, Bari e Giovinazzo. L'”età dell’oro” finisce però nel 1799, quando sulla scia della Rivoluzione francese gli altamurani insorgono proclamando la repubblica. Le truppe fedeli alla famiglia reale soffocano subito la sollevazione e costringono all’esilio diversi ribelli, tra cui figurano alcuni docenti dell’università e lo stesso De Gemmis, il quale in realtà torna al suo posto nel 1806 ma la decadenza è ormai inarrestabile: le cattedre rimaste operative sono solo sei e dal 1809 al 1810 gli studenti passano da 100 a 70 unità. Infine la mancanza di fondi fa sì che nel 1811 venga decretata la chiusura ufficiale dell’Università, stroncata di fatto dalla rivoluzione. La “Leonessa di Puglia”, soprannome che la città aveva conquistato durante l’insurrezione, dice così addio per sempre al suo prezioso gioiello culturale, del quale oggi rimane ben poco nella memoria storica del comune barese. A Napoli furono istituite la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi (1754), “Napoletana fu la prima clinica ortopedica d’Italia prima dell’unità, napoletani furono i migliori ospedali militari che potesse vantare l’Europa; napoletano fu quell’atto rivoluzionario nella storia della psichiatria, che vide, per la prima volta in Europa, togliere nell’ospedale psichiatrico di Aversa, i ceppi ai dementi”392; notevole era l’Orto botanico che forniva le erbe mediche alla Facoltà di Medicina; nella facoltà di Giurisprudenza nacquero l‘Istituto della Motivazione delle Sentenze (Gaetano Filangieri, 1774), il primo Codice Marittimo Italiano ed il primo Codice Militare.

Nei primi anni del 1800, nel Regno delle Due Sicilie, l’educazione dei ragazzi era quasi sempre affidata alla Chiesa, che da secoli svolgeva questo delicato ed importante compito.
Dopo l’istruzione primaria, della durata di tre anni, seguiva l’apprendimento di un mestiere. I giovani figli dei contadini, per necessità, venivano da subito impegnati nei lavori agricoli e quindi erano pochi quelli che frequentavano la scuola primaria. Pochissimi erano poi, e quasi tutti figli di famiglie nobili, quelli che continuavano gli studi, sia perché erano i soli che se lo potevano permettere, sia perché erano i soli che potevano accedere, con un’adeguata preparazione, a governare la cosa pubblica.
Pure gli studi superiori erano affidati, quasi sempre, alla Chiesa.
Anche se il sistema di educazione borbonico non era né popolare e né proprio brillante, bisogna però riconoscere che, in quei tempi, assicurò al Regno un livello culturale qualitativamente più elevato rispetto agli altri paesi europei. Infatti, nel censimento del 1751, Napoli era la prima nelle accademie di scienze e lettere: i meridionali Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Giambattista Vico, Francesco Lomonaco, Pietro Giannone e tanti altri, fecero scuola in Europa. Poi, si svolse a Napoli, dal 20 settembre al 5 ottobre 1845, il congresso degli scienziati e nel 1856, nell’Esposizione Internazionale di Parigi. Tutto questo grazie ai principali settori industriali dell’epoca che erano la cantieristica navale, quella tessile e quella estrattiva. Degli stati preunitari del Nord, neanche l’ombra. In precedenza, nel periodo dell’occupazione francese (1806 – 1815), Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat tentarono di introdurre l’istruzione pubblica di tipo laico.
Nel 1848, il ministro della P. I. del regno delle due Sicilie, Paolo Emilio Imbriani, dopo aver disposto che la nomina e la vigilanza degli insegnanti fosse assegnata ad una commissione provinciale, introdusse l’obbligatoria dell’istruzione primaria per ambo i sessi (decreto del 19 aprile 1848).
Nel breve periodo in cui ricoprì l’incarico, il ministro, consapevole della portata politica – sociale del problema dell’istruzione e dell’alto tasso di analfabetismo che impediva la partecipazione delle masse alla vita governativa e ostacolava l’esercizio dei diritti civili anche di alcuni strati borghesi, abolì il decreto del gennaio 1843, sottraendo così l’istruzione primaria al controllo dei vescovi, sottoponendola alle dipendenze del ministero. Nella circolare, annessa al decreto, sollecitava i sovraintendenti locali affinché si adoperassero a diffondere l’istruzione elementare, anche nelle classi più povere.
Con l’annessione forzata, del 1860, del Regno delle Due Sicilie a quello dei Savoia, il sistema scolastico meridionale cambiò totalmente in quanto venne applicata la legge Casati (ministro, dal 19 luglio 1859 al 21 gennaio 1960, della Pubblica Istruzione nel governo Lamarmora), già in vigore dal 13 novembre del 1859 nel Regno di Sardegna.
La Legge, studiata per la realtà scolastica piemontese e lombarda, venne estesa gradualmente all’intero Paese, dopo la proclamazione del Regno d’Italia. La riforma, tendente a configurare un sistema in cui lo Stato doveva gestisce l’istruzione con la presenza delle scuole private, affrontò anche la “questione analfabetismo”, più elevato nelle regioni meridionali per i motivi detti in precedenza.
Con la Legge Casati l’Istruzione elementare venne divisa in due gradi:
1) Grado inferiore di 2 anni, istituito in ogni Comune, con frequenza obbligatoria e gratuita per quanti non ricorrevano all’istruzione “paterna”. L’iscrizione avveniva a 6 anni compiuti con un numero di allievi per classe oscillante tra 70 e 100.
2) Grado superiore di 2 anni, istituito in tutte le città in cui già esistevano istituti di istruzione pubblica e in tutti i Comuni di oltre 4000 abitanti.
Inoltre:
– I maestri dovevano essere muniti di una patente di idoneità ottenuta per esame e di un attestato di moralità rilasciato dal Sindaco.
– La responsabilità per l’istruzione elementare era affidata ai comuni, ai quali veniva peraltro vietato di istituire una tassazione di scopo.
I Comuni del Sud, che avevano seri problemi di cassa, si ritrovarono quindi in difficoltà nel garantire lo svolgimento delle lezioni.
Inoltre, era fatta in modo da mantenere e perpetuare le differenze sociali, infatti essa prevedeva:
– Una scuola di “serie A” che dal ginnasio – liceo avviava all’università, a cui poteva accedere solo l’aristocrazia e la nuova borghesia liberale;
– Una scuola di “serie B” destinata alla piccola borghesia, con i rami tecnico e normale, da cui derivarono poi l’istituto tecnico e l’istituto magistrale;
– Una scuola di “serie C” destinata alle classi umili, che forniva un apprendistato di lavoro.
In conclusione, la Legge Casati che poteva essere teoricamente una buona base di partenza per creare un sistema scolastico di “tipo pubblico – laico”, come tutte le altre leggi, essendo stata semplicemente estesa ed imposta dai Savoia ai popoli annessi, senza la minima considerazione per il loro passato e le loro peculiarità culturali, fallì nel Regno delle Due Sicilie.
Si affidò l’istruzione primaria ai comuni che dovevano organizzarla a proprie spese. Nel periodo in cui un fiume di denaro saliva la penisola per sequestri bancari o salassi tributari (sempre nel pieno rispetto del duopesismo) praticamente solo i comuni del centro-nord furono in grado di aprire bastanti scuole. Altrove, cioè da noi, assai raramente ciò fu possibile. Le classi meridionali sempre meno abbienti dovettero tenere i figli senza studio fin quando le condizioni della finanza locale migliorarono progressivamente. Passò quasi una generazione! Nel frattempo lungi dall’accelerare le difficoltà di risorse a sud, lo stato si preoccupò di censirvi le famiglie rilevando il famoso tasso di analfabetismo altissimo per i giovani a cui avevano negato l’apprendimento. Con una comoda retrodatazione si battezzarono quei dati al tempo delle Due Sicilie creando una mentalità terribile e perenne di superiorità dei colonizzatori sui colonizzati. Mentre era esattamente il contrario prima del 1861 per le scuole civili e religiose gratuite esistenti in tutti i comuni borbonici.

La scuola aperta a tutti, completamente gratuita, alla quale potevano iscrivere i propri figli anche le famiglie indigenti. Stiamo parlando delle “Scuole Pie” dei Padri Scolopi, le più diffuse nel Regno borbonico, ma anche nel resto degli Stati italiani preunitari e in Europa. Dalle scuole degli Scolopi, fin dalla fondazione, nel 1597, ad opera di San Giuseppe Calasanzio, sono usciti alcuni dei migliori talenti nelle lettere, arti e scienze: Mendel, Pascoli, Carducci, Haydn, Schubert, Lehár, per citare solo alcuni nomi. Furono le prime vere scuole popolari, in un’epoca in cui l’istruzione era affidata prevalentemente agli ordini religiosi. Il Regno delle Due Sicilie non faceva eccezione: il regio governo non istituiva scuole, ma garantiva la libertà scolastica, la possibilità di aprirne, e la libertà di insegnamento, la libera scelta di programmi e contenuti, e favoriva le condizioni perché la popolazione potesse beneficiarne.

Con una semplice istanza al Re, una famiglia bisognosa poteva ottenere una o mezza “piazza”, cioè la retta annuale di un collegio a pagamento, come quelli dei Gesuiti. La richiesta era smistata agli innumerevoli istituti benefici che provvedevano. Le scuole degli Scolopi erano l’eccellenza di un insegnamento non centralizzato, ma diffuso in modo capillare, perché univano formazione umanistica e scientifica, come si vede nel “Quadro di insegnamento”, un raro documento che pubblichiamo. Tre anni di elementari,sette di ginnasio e liceo, un percorso di apprendimento graduato sullo sviluppo cognitivo degli allievi, basato sull’idea che le conoscenze sono strumenti per esprimere le peculiarità dell’uomo, in relazione a sé, agli altri, alla realtà, a Dio. A 17 anni lo studente era pronto per l’Università. Gli Scolopi e gli altri ordini religiosi furono costretti a chiudere le scuole quando il Regno delle Due Sicilie fu invaso. Quando, anni dopo, le scuole riaprirono, ebbero programmi, libri, materie e contenuti di studio determinati dal nuovo regno italiano. Era nata la scuola statale.

Tutto ciò che era pubblico doveva essere abolito e così le scuole!! Nel 1734 il Sud andò a Carlo III di Borbone che, avendo in dote 28 milioni di ducati, pensò bene ricomporre lo Stato attraverso la cultura. Nacque così il ’700 napoletano. La scuola fu l’ istituzione realizzata per imporsi e per rinnovare il sapere della gente. Ogni città, ogni villaggio doveva essere provvisto di scuole pubbliche. Ogni provincia doveva avere una scuola per uomini ed una per donne, ove potessero apprendere le scienze primarie e le belle arti e, per i nobili, esercizi di colta società. Le spese per l’istruzione pubblica ammontavano a circa un milione di ducati all’anno.

Il Villardi, che era stato mandato nella capitale a smantellare l′apparato scolastico napoletano, così ricorda: “ Pareva che si volesse levar tutto a Napoli. Oggi per esempio, noi abbiamo sciolto l’Accademia delle Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l’istruzione secondaria, in una città di cinquecentomila anime, non abbiamo che un liceo di sessanta alunni e questo con un ministro intelligente e pieno di volontà… “.

Ecco come, il Regno delle Due Sicilie era finito nelle mani degli eredi di Vittorio Emanuele I, della dinastia più reazionaria d’Europa; quella cioè che, abolendo il Codice Napoleonico, ristabilì l’antica legislazione complicata e senza unità, i privilegi fiscali e l’antica legislazione penale con la fustigazione e, cosa più terribile, proibì i culti ai cattolici perseguitando anche mortalmente ebrei e valdesi e, cosa ancora più abominevole, ridiede tutta l’istruzione nelle mani delle scuole religiose a pagamento, abolendo quelle pubbliche istituite da Napoleone.

LE ORIGINI RISORGIMENTALI della CORRUZIONE italiana

Quella dei Savoia fu una monarchia democratica fondata sulle tangenti e su una spregiudicata brutalità. Il nuovo stato fu travagliato da molti scandali, che ebbero come autori financo ministri e lo stesso Re, definito da Lord Clarendon: “ignorante, bugiardo, intrigante che nessuno poteva servire senza danno per la propria reputazione”. Di contro quella dei Borbone fu dignitosa e rispettabile (nonostante le calunnie interessate dei massoni e risorgimentali in genere), con leggi giudicate tra le migliori del tempo. Vittorio Emanuele II, rivolgendosi al plenipotenziario inglese August Paget dichiarò esplicitamente: “Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione”. Fece usare le une e l’altra con spregiudicata brutalità e così nacque l’Italia: una monarchia poco democratica fondata sulle tangenti. Il nuovo stato fu travagliato da molti scandali, dal crack della Banca Romana allo scandalo delle Regie Tabaccherie, dove alcuni innocenti pagarono per colpe mai commesse (mentre il re poco prima si era appropriato di 20 milioni dell’epoca come “residuo” di bilancio), sino alle grandi truffe delle ferrovie dove negli elenchi dei soci e nei bilanci c’erano ripetizioni e imprecisioni tali da meritare l’apertura di qualche fascicolo giudiziario. L’avvenimento più imbarazzante fu però l’affare dei lavori del canale Cavour in cui fu coinvolto Gustavo Cavour, fratello del presidente del consiglio Camillo, uno dei maggiori azionisti della Cassa di Sconto, che se n’era accaparrato l’appalto grazie a capitali inglesi. I Cavour erano affaristi abilissimi e spregiudicati. Per esempio durante una carestia, quando il prezzo del pane era altissimo, la famiglia Cavour rappresentava la maggioranza degli azionisti dei mulini di Collegno che facevano incetta di farina e grano. Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista abile e sarcastico, ne diede un lucido resoconto nel suo libro “I moribondi di Palazzo Carignano”. Il Petruccelli era all’opposizione e non tollerava gli inutili rituali della retorica parlamentare. Nel suo libro leggiamo che la camera, composta da 443 deputati, era in realtà un esercito di principi, duchi, conti, marchesi, generali, ammiragli, avvocati, cavalieri e commendatori. C’erano anche un bey dell’impero Ottomano, qualche legion d’onore ed infine Giuseppe Verdi. Mancava invece Carlo Cattaneo il quale, pur essendo stato eletto per tre volte, si rifiutò di giurare fedeltà ai Savoia. Il centro del parlamento era definito la “zattera della Medusa, dove tutti i naufraghi sono aggrappati, tutti i superstiti, tutti gli sbandati. Essa è un ospizio degli invalidi”. La sinistra sembrava un arcipelago di anime in pena: mazziniani, garibaldini, pseudofederalisti e oltremontani ed infine gli “uccelli da passeggio” cioè l’estrema sinistra, così definita perché sempre sul punto di passare sui banchi della destra. Intanto le tasse continuavano a crescere e i giornali del 1866 rilevarono che 22 milioni d’italiani avevano pagato il doppio delle tasse rispetto a 19 milioni di prussiani. A giudizio degli ambasciatori inglesi —in una nota diplomatica destinata a Londra— il più debole di tutti era il ministro degli esteri conte Campello: “La sua intelligenza è così limitata e appare così totalmente ignaro dei problemi del suo dicastero che tentare di avere una conversazione con lui equivale a perdere tempo”. Seguiamo lo scandalo della Banca Romana nel resoconto del giornalista Pietro Sbarbaro. Sin dai tempi della Repubblica Romana di Mazzini era a capo dell’oligarchia della Banca un certo Tanlongo, che fu incaricato dai vari capi di governo (da Cavour a Giolitti fino a Crispi) di offrire somme considerevoli ad alcuni prelati che avrebbero dovuto ammorbidire il Vaticano sulla questione Unità d’Italia e di assecondare i fratelli della massoneria. A questi furono concessi prestiti personali estesi anche ad amici degli amici con l’emissione in eccedenza di banconote. Giolitti tentò di nascondere lo scandalo, comprese sei buste voluminose che riguardavano Crispi, ma l’affare fu scoperto. Il Tanlongo fu arrestato il 18/1/1893 e la sua difesa sostenne che le irregolarità erano state sollecitate dallo stesso governo. Alla caduta del governo Giolitti fu nominato Crispi il quale, per coprire lo scandalo, d’accordo con il re governò per un anno intero a camera blindata, cioè convocandola solo undici giorni. Fu dimostrato che la Banca Romana aveva consegnato illegalmente a Crispi 718.000 lire dell’epoca (13 miliardi d’oggi). Nessuno tuttavia osò intralciare lo statista che stravinse le elezioni e governò con ampi poteri. La fine politica di Crispi fu segnata dalla cattiva avventura coloniale in Africa, ma non mancarono altri moribondi ad occupare le aule del palazzo. Roma divenuta la capitale del Regno, la Banca Romana, sviluppa il proprio pericoloso giro di affari e diviene, presto, un centro di corruzione politica.

Dal 1881, a questa attività dà particolare slancio Bernardo Tanlongo, un ex-fattore, un affarista divenuto governatore dell’istituto grazie a potenti amicizie. Accreditato per la sua “onestà laboriosa”, questo intrallazzatore di primo ordine, privo di scrupoli e di qualsiasi nozione di economia finanziaria, è deciso a difendere una posizione così avventurosamente conquistata. Nel 1881, è, pertanto, generoso di milioni a giornalisti, deputati, economisti, perché ritardino l’approvazione di una legge che, abolendo il regime di concessione valutaria, condannerebbe a morte la sua banca, che si regge solo in virtù delle proprie emissioni. E, anche quando la legge del 1883 viene approvata, Tanlongo non demorde. Per tenere in piedi una impresa così redditizia è pronto a mettersi fuori legge e a stampare biglietti bancari in grande segreto. Per maggiore sicurezza, li ordina in Inghilterra e in serie doppia, per meglio confondere eventuali investigatori. Poi, con tenacia tutta artigianale, li firma a casa, ad uno ad uno, con un torchietto, prima di rimpinguarne le casse della banca.

L’ingegnosa intraprendenza di Tanlongo non è, tuttavia, la sola ad animare, in quegli anni, la vita economica dell’Italietta. Speculazioni edilizie e audaci iniziative industriali trovano facile sostegno nel sistema bancario, in particolare nelle banche di emissione. Alla lunga, si dà luogo a una inchiesta amministrativa, che investe anche la Banca Romana. Rivalità politiche all’interno della maggioranza ministeriale la generano, Francesco Crispi [1818-1901], allora presidente del consiglio, l’approva, il ministro Luigi Miceli [1824-1906] la sovraintende, l’ignaro senatore Giuseppe Giacomo Alvisi [1825-1892] la dirige, e l’incorruttibile funzionario Gustavo Biagini la esegue. Ma, quando i risultati della indagine giungono sul tavolo del ministro dell’industria, sono tali da spaventarlo e indurlo a rappezzare la situazione. Biagini è trattato da pazzo visionario ed è ordinata una nuova ispezione, che verifica come il deficit di 10 milioni di biglietti falsi rilevato, sia, miracolosamente, svanito. Ve ne è abbastanza per lodare l’eccesso di zelo del funzionario inquirente, promuoverlo al altro incarico e seppellire la relazione che Biagini inoltra a chi di dovere.

A cercare di denunciare lo scandalo rimane solo il senatore Alvisi, ma inutilmente!

Appena un anno dopo la sua morte, il repubblicano Napoleone Colajanni [1847-1921] può dare lettura della relazione Biagini, che il senatore ha legato in punto di morte ad alcuni amici. Lo fa il giorno in cui la Camera è chiamata a discutere la proposta avanzata da Giovanni Giolitti [1842-1928] di prorogare di altri sei anni il regime delle concessioni monetarie alle banche “chiacchierate”.

La requisitoria dell’ex-garibaldino siciliano è anche diretta contro il neoeletto presidente del consiglio ed è tanto più vibrante di indignazione in quanto, poco più di un mese prima, l’uomo di Dronero, anche lui legato da vincoli di riconoscenza al disinvolto trasteverino, lo ha fatto nominare senatore.

Il rapporto suscita le violente ire della maggioranza, Colajanni è coperto di ingiurie e contro di lui volano anche alcuni sgabelli. Miceli lo accusa di falso e giura sull’onorabilità di Tanlongo. A sentire questi signori, non è vero che il banchiere distribuisse “omaggi” in lire; che a diversi notabili del Regno rinnovasse cambiali senza fine; che prestasse, generosamente e a tassi agevolati, a molti, tra i quali anche Crispi; che fosse, perfino, il canale attraverso cui Umberto I [1844-1900], da pioniere della fuga di capitali all’estero, mandava i propri risparmi alla Banca di Inghilterra. Infine, l’accusato sembra essere Colajanni. Pochi giorni dopo, tuttavia, Giolitti non può esimersi dal nominare una commissione di inchiesta amministrativa, anche se, lo stesso giorno, fa nominare Tanlongo, cittadino al di sopra di ogni sospetto, membro della commissione di vigilanza del debito pubblico!

Questo è troppo anche per i più pavidi, mentre per i più increduli giunge la denuncia della commissione di inchiesta, che, nella Banca Romana, ha rilevato 70 milioni clandestini, 40 a serie doppia, 20 di deficit, come risultato di una serie di falsi che durano da oltre venti anni. Tanlongo è arrestato, e non finisca su un freddo tavolaccio di un carcere di Fenestrelle ma in una accogliente cella a pagamento, riscaldata e arredata con i mobili fatti venire da casa.

Fuori, intanto, continua la battaglia politica e parlamentare; mentre, foglio a foglio, i documenti più compromettenti nell’istruttoria si perdono per strada.

Quelli che rimangono a disposizione della seconda commissione di inchiesta, quella parlamentare “dei sette”, sono sufficienti per determinare la caduta del Governo Giolitti, ma non hanno la forza di mandare in prigione altri onorevoli o ministri.

Troppi sono i politici coinvolti e molti di loro i potenti. In ultimo, lo stesso Tanlongo “se la cava”. E non può essere altrimenti! È depositario di troppi segreti perché possa marcire in galera. Al processo viene assolto. Per i giudici togati è difficile condannare un banchiere di regime e un falsario di Stato!

“I veri colpevoli passeggiano impunemente per le città d’Italia e le loro vittime sono nel reclusorio di Regina Coeli”

«È tanto più deplorevole che non si siano pubblicate le inchieste fatte finora, perché non si può dire che il Parlamento non le abbia domandate. Il paese ne ha domandata la pubblicazione, e in questa Camera e da questi banchi soprattutto, ripetutamente è stata domandata la pubblicazione delle inchieste fatte pel passato […] E guardate, una di queste inchieste, quella i cui risultati credo di conoscere, e credo di non essere il solo possessore della verità, è passata attraverso tre Ministeri.»
(Discorso di Colajanni alla Camera, seduta del 20 dicembre 1892)

Il processo si concluse con l’assoluzione totale degli imputati dato che nel frattempo sparirono numerose prove, ma le banche d’emissione vennero liquidate dalla nascente Banca d’Italia, affiancata dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia che poi vennero a loro volta inglobate da Banca d’Italia nel 1926.

“Quanto al merito delle imputazioni dico innanzi tutto che io non mi sono approfittato di un centesimo durante la mia gestione della Banca Romana; anzi, posso dire di averci rimesso del mio; può ciò facilmente desumersi dalle condizioni del mio stato patrimoniale che non è migliorato da che io andai a dirigere la banca, anzi mi ha peggiorato.”
Bernardo Tanlongo

CARCERI BORBONICHE…. LA NEGAZIONE DI DIO?

Nel 1851, per screditare e distruggere l’immagine di Ferdinando II di Borbone, un rappresentante dell’Università inglese di Oxford, Lord Gladstone, aveva diffuso in Europa, sotto forma di due lettere, false e calunniose notizie sulla completa assenza di legalità e sulle sofferenze di tanti infelici, rinchiusi nelle carceri del Regno delle Due Sicilie. Fin dalla sua salita al trono, avvenuta nel 1830, già prima che negli altri regni italiani, Ferdinando II aveva provveduto a riformare le prigioni. Le modifiche iniziarono nel 1832, quando furono colmate orribili e crudeli segrete e dettate norme affinché man mano le prigioni fossero condotte ad uno stato migliore sotto il rapporto igienico, religioso, morale, ed economico.

Lord Gladsone non sapeva che nel 1839 al termine del suo viaggio in Italia, Alphonse Cerfeberr scrisse: «A Napoli vi hanno prigioni speciali per le diverse categorie de’ condannati. Una ve ne ha per le donne, una pei giovani detenuti, quella di S. Francesco e quelle della Vicarìa. La prigione delle donne, detta di S. Maria d’Agnone, è stimata un modello nel suo genere […]. Le detenute vi dividono il tempo tra il lavoro, la preghiera, e gli esercizi religiosi […]. Nella prigione de’ giovani detenuti, non si vede che ordine, pulitezza e disciplina, e i prigionieri, eccetto la libertà che non hanno, vi stanno assai meglio che fuori. […]. La Vicarìa, che sir Gladstone ha appellata un Carnaio, il colmo dell’orrore e del sucidume, è invece una prigione pulitissima, secondo il sig. Gondon che l’ha visitata. Il cibo vi è variato, sufficiente e di ottima qualità».

Ulteriori modifiche strutturali furono apportate alle prigioni negli anni successivi. L’anno prima dell’invasione garibaldina e piemontese, Francesco Durelli scriveva: «Le famose luride prigioni di Castel Capuano sono state tramutate in sale spaziose, piene di abbondevole luce e di libera, aperta atmosfera, ammirande per ogni maniera di nettezza, e fornite di quanto è d’uopo per la conservazione sanitaria de’ detenuti… Il carcere per donne di S. Maria ad Agnone, è stimata un modello nel suo genere […]. e quello che, non più carcere, ma sala d’istruzione e di lavoro, va oggi distinto col nome d’Instituto Artistico per gli imberbi [adolescenti] e pe’ giovanetti di S. Aniello: e farne la descrizione rileverebbe tale lavoro da compiere un volume».

Significativo sul carcere di San Francesco è il giudizio di Luigi Settembrini, che nelle Ricordanze scrisse: «Usciti dalla Vicarìa, [il carcere] S. Francesco ci parve piuttosto una casa che un carcere: si passeggiava pei corridoi, si usciva fuori una loggia. scoperta, si vedevano persone umane e civili, si aveva visite di parenti e di amici, io vedevo mia moglie e i miei cari bambini e Raffaele che mi portava i suoi esemplari di scuola, e la piccola Giulietta che allora moveva i primi passi».

Ma se anche le calunnie mosse da Gladstone e dai liberali a Ferdinando II in merito alle carceri e ai prigionieri politici fossero state vere in parte, che cosa fecero i rigeneratori dopo l’annessione al Piemonte e l’unità d’Italia? Liberarono tutti i detenuti politici regolarmente processati e per lo stesso principio di giustizia e libertà buttarono nelle prigioni, senza processo, migliaia di persone sospettate. Rivelatore e significativo è l’articolo Visitare i carcerati pubblicato il 30 aprile 1861 dal giornale liberale di Napoli “Che Tuoni”, che con sarcasmo scriveva: «Ora il paternissimo governo attuale, come liberalissimo e giusto, non può in alcun modo imitare quello che faceva il governo passato, ingiusto e nemico dei liberali. Quello, per non venir meno all’alta sua riputazione di misericordia, tollerava che si facessero delle opere di misericordia. Questo non ha misericordia per chi pratica le opere di misericordia». Ma facciamo un salto in avanti e vediamo che cosa scriveva un giornale di Napoli nel marzo 1868. «Fortunatamente, tu non saprai mai come si sono ridotte le carceri in quest’epoca di libertà, e beato te se per misericordia del cielo non ci sei ancora entrato. Ma c’è bisogno di mettere in chiaro lo strazio tremendo al quale sono soggetti quegli sventurati che vanno a popolare le prigioni del nostro paese, possono così avere un’idea di quanto di buono si è fatto di sollievo da otto anni in qua per queste nostre povere carni battute, che dopo essere state portate allo stato di marcire per mancanza d’alimenti vanno a morire. Si dice che il fuoco della terra, ossia quello che serve per tutti i nostri bisogni, non è altro che un semplice dipinto a paragone di quello che si trova nell’inferno. E alla stessa maniera tutto quello che si può dire in merito alle torture che ti regalano le carceri moderne, è davvero una pittura che non potrà mai descrivere la verità. Preparati a fremere, o napoletano che mi leggi: sono cose che fanno arricciare i capelli in testa, quelle che vado a raccontare, sono tormenti che faranno vergognare tutti i Neroni, e i più barbari tiranni della terra, se tornassero a nascere. Oggi il carcere è la sepoltura dell’uomo, non più una casa di correzione dove si va a scontare un reato o una pena. Chi ci entra, deve avere proprio un miracolo particolare per uscirne vivo, tanto sono le sevizie e i maltrattamenti che gli vengono fatti dai moderni civilizzatori. Cominciamo dall’esterno: il carcerato non deve più vedere la bella luce del sole. Ai tempi di Ferdinando II la luce era libera, l’aria poteva entrare e uscire dal carcere a suo piacere, ma oggi no. Oggi il carcerato non deve avere più aria. Un tavolato, che impedisce pure la vista del cielo, è stato messo in faccia alle cancellate. Appena un filo di luce, che dall’alto scende come un’elemosina, permette al carcerato di distinguere la notte dal giorno, la luce dalle tenebre. Del resto non c’è altro inferno aperto, che il carcere d’oggi, dove sono di permanenza tutte le sofferenze del mondo, tutte le sevizie più atroci. Dentro al carcere d’oggi non c’è alcuna distinzione come una volta. Qua, ai perduti malfattori, ai ladri più schifosi, agli assassini più feroci, ai falsari più ributtanti si uniscono i giovani virtuosissimi, gli onesti padri di famiglia, i veri patrioti, i galantuomini più distinti. Si fa d’ogni erba un fascio e non si ha nessun riguardo di mischiare la lana con la seta, l’onestà con la svergognatezza, il delitto con l’innocenza. Tanti poveri signori, per un semplice sospetto, sono presi per un braccio e uniti ai malfattori! Se non altro l’uguaglianza si fa consistere solo in questo!

Lo sbirro deve stare a cassetta con un vescovo o un parroco, il ladruncolo con un onesto negoziante conosciuto, la prostituta attaccata alla gonna di una donzella. La moderna Babilonia per moltiplicare i vizi, tenta tutti i mezzi che possono corrompere la gente buona.

Non credete alle parole di fraternità, civiltà, progresso e via dicendo: le carceri ne sono una prova. Se la civiltà esistesse davvero, non vedremmo mischiare la gente onesta con la feccia del popolo, assoggettata quest’ultima agli stessi riguardi della prima.

Se il progresso non fosse addirittura una parola scema, non vedremmo lo strazio della carne umana, i sacrifici che si fanno soffrire alla gente, i flagelli a sangue che si adoperano a danno dei poveri carcerati. Sentite quando c’è di terribile in una prigione in questo momento in cui scrivo. Mettetevi una mano sul cuore, per non sentirlo scoppiare, a leggere tante barbarie, e dopo armatevi d’attenzione e rassegnazione, e seguitemi.

Correva il mese di agosto, narra il Popolo (al quale ringraziamo di averci dato queste notizie che noi riportiamo parola per parola) era il secondo anno della rigenerazione, di Cristo 1862.

“ ….Correva il mese di agosto dell’anno 1862; Napoli era comandata a bacchetta allora da quello abbietto che oggi, più abbietto ancora, perché messo in disparte dalla consorteria, puttaneggia coi repubblicani, Filippo de Blasio (nominato dal Gen. Cialdini, Prefetto di Polizia di Napoli il 2 Luglio 1862).

Erano le 2 p.m., i detenuti quale leggendo, quale sonnecchiando, quale tirando moccoli, stavano tutti facendo il chilo sui rispettivi letti. Ecco tutto ad un tratto un batter di cancelli, un correre un gridare, un minacciare, un diavolo da non vedersi. Che è, che non è: era un povero detenuto che faceva di riparare nella prima stanza che trovava aperta e quattro manigoldi, due dei quali armati di staffili, uno di un mazzo di chiavi e l’ultimo della daga sguainata, che lo inseguivano furibondi, minacciosi, terribili. L’infelice correva, si voltava, piangeva, si contorceva di spavento e quando non ebbe più dove fuggire, cadendo sulle ginocchia: “Per pietà, in nome di Maria Santissima” si dette a gemere “non m’uccidete, ho due figli, poveri figli miei!”. Le grida strazianti di questo sfortunato erano soffocate non più dalle minacce né dalle bestemmie de’ carcerieri, ma dai loro colpi. Gli staffili, rompendo l’aria fischiando, andavano a lacerare le pelle del collo e della faccia di quell’infelice prostrato; il sangue schizzava sul muro e vi gocciolava, e quelli a dare senza misericordia in testa, in faccia, in petto, sulle spalle, da per tutto. Era orribile; quel misero non piangeva più, non pregava più, cadeva, pareva che spirasse. E tuttavia a dargliene ancora, a dargliene sempre, aggiungendo a’ colpi, i calci co’ loro tacchi di ferrati. E con tutto ciò lo battevano ancora, a dargliene sempre, aggiungendo alle mazzate i calci con i loro tacchi ferrati.

Non era un uomo aggredito da quattro assassini: era un agnello che cacciava sangue tra le grinfie di quattro lupi. Non era un uomo aggredito da quattro assassini: era un agnello che sanguinava fra le zampe di quattro lupi. I detenuti spettatori di questa scena di sangue, atterriti, indignati, tremanti, non osavano fiatare…”

(G.Gervasi Sulle prigioni di Napoli – Rocco-Napoli-1869)

Chi scrive questo fatto, ricorda molti nomi di quelli che erano compagni suoi di carcere; e all’occorrenza potrei fare i loro nomi.

Ma il governo non è Argo, si dirà; queste cose non le sa, che diavolo! Vi pare che se qualcuno gliele avesse rivelate, quei bricconi non sarebbero stati castigati? La colpa è dei carcerati che sono vili tanto da temere di denunciare i torti che si fanno loro.

E va bene: il governo non è Argo: voi avete ragione. Ma dite un poco, se loro, i signori governanti, ispirassero fiducia, quale sarebbe il vile, vile tanto da lasciarsi battere e non dire niente?

E se egli si sta zitto, non significa che i sudditi governanti, più che fiducia mettono paura ai carcerati? E in questo caso di chi è la colpa? Quante volte essi non mettono nelle le prigioni appositamente spie per i detenuti? Ebbene perché non ne tengono qualcuna pure per i carcerieri?

Ammettiamo pure che i governanti non siano complici dei carcerieri, ammettiamo invece che siano addirittura angeli in fatto di moralità; ma allora non sarebbero sempre degli stupidi abbandonando all’arbitrio feroce della feccia degli uomini, dalla quale escono i custodi delle prigioni, quei poveri sfortunati, molti dei quali sono innocenti, parecchi dei quali potrebbero ritornare onorati, liberi e affrancati alle loro case?

Ma andiamo avanti. Questo che abbiamo detto è quello che non dovevamo dire. Prendetela come una parentesi, e cambiamo dolore.

Dì un poco, governo rigeneratore, il cascione, la palla e la camicia di forza anche questi sono arbitrii dei carcerieri? Sono loro, i carcerieri che a spese proprie e per far dispetto a Beccaria, hanno arricchito le carceri di questo strumento di tortura?

Sono loro, i custodi, che hanno fatto cucire quelle camicie, fondere quelle palle e piallare quei cassoni?

Ma i lettori vorranno sapere che diavolo sono questi oggetti. Ed eccoci a servirvi.

La camicia così detta di forza è una specie di giacchetta come una maglia, di tela grossolana, che abbraccia il petto, dalla parte inferiore del collo fino alle ultime costole. Questa giacchetta ha le maniche molto lunghe, di modo che tirate con forza dalla parte di sopra, non solo incrociano molto strette le braccia della vittima attorno al collo, ma le stringono tanto il petto da fargli mancare il respiro. Lo stringere di più o di meno non dipende dalla più o meno carità che i guardiani hanno nel cuore, ma dalla più o meno forza che hanno dentro ai polsi. E questo è il più leggero dei supplizi, è il supplizio cortese, roba da signorine.

C’è di peggio ancora. C’è la palla. Questo castigo consiste nell’avvicinare il carcerato in faccia al muro, dove all’altezza di 8 palmi ci sono due forti anelli di ferro. Si incrociano le braccia dell’individuo con una cinghia di cuoio, la quale passando sopra i gomiti va ad essere legata dietro ai reni. Una volta posizionato il detenuto in questa maniera, gli si attaccano ai polsi due piccole catene, le quali passando dentro agli anelli di ferro, che abbiamo detto incastrati sulla parete del muro, cadono a piombo per il peso delle due palle di circa dieci chili, che sono legate alla punta delle medesime catene. Il condannato a questa tortura non ci resta meno di 12 ore, e lo dicesse Dio per noi in mezzo a quale martirio. Resta il cascione. Questo poi è un ritrovato sublime. Noi non sappiamo veramente chi ne sia stato l’inventore, ma crediamo Spaventa. Spaventa di fatto fu uno dei più attivi riformatori del sistema carcerario. A ogni modo se egli per modestia non ha cercato un brevetto di invenzione, questa non è una buona ragione perché noi non avessimo a chiederlo per lui.

Si legge nelle storie che a Fàlaride, tiranno d’Agrigento, si presentò un giorno un Silvio Spaventa di quell’epoca, il quale sperando d’ottenere una grossa ricompensa dal tiranno (il nostro Spaventa più magnanimo l’aspetta dalla patria) gli mostrò un toro di bronzo, dentro il cui ventre si poteva rinchiudere una vittima e bruciarla a fuoco lento. Falaride da uomo di talento che era, ammirò il bel lavoro, ma ordinò che si facesse il primo esperimento sul suo inventore.

La patria dalla quale l’onorevole Spaventa spetta la ricompensa, l’ingegnoso filantropo, non ha avuto il talento di Falaride. A ogni modo un uomo che ha saputo inventare il Cassone ha provato che aveva ragione d’inventarlo. Lasciamo dunque fare a Dio, che dice il proverbio è un santo vecchio.

Noi passiamo a descriverlo.

Il cascione è né più né meno che una cassa da morto, una semplice bara, della lunghezza di un uomo di statura regolare, e larga quanto basta perché quello che si impizza dentro tocchi con le due spalle l’una e l’altra tavola laterale.

A la parte di sotto vi è stato fatto un buco affinché il paziente potesse adempire, senza incomodare nessuno, a tutti i suoi bisogni.

Altre piccole aperture sono praticate a tutte e due le parti laterali, da dove passano forti cinghie di cuoi, che servono a dare all’uomo che ci sta rinchiuso l’immobilità del cadavere.

Queste cinghie stanno a una certa distanza l’una dall’altra, di modo che le prime due vengono a stringere i piedi sopra il Malleolo, le altre due le gambe sopra le ginocchia, le terze stringono il petto, e le ultime lo cannarone (la gola). Delle braccia non ne parliamo, perché nessuno viene posto dentro al cassone, se prima le braccia non sono state chiuse dentro la camicia di forza. L’immobilità è dunque di assoluta necessità, una cosa terribile; è l’immobilità del cadavere; non si può fare nessun movimento possibile, neppure quello della testa, poiché non appena cercaste di muoverla in un modo qualunque, le cinghie che avete tutto intorno al collo vi strangolerebbero — il che in certi casi potrebbe anche sembrare, e essere pure una risorsa — ma vi provocherebbe terribili spasimi, più insopportabili degli altri. Il trattamento ordinario di chi sta dentro al cassone è il pane ed acqua, e l’uno e l’altra gli sono dati con la carità di cui è capace il carceriere, dal guardiano, il quale lo spezza e glielo infila nella bocca come si metterebbe un carbone dentro una fornacella; del modo come gli danno l’acqua non e parliamo, se lo raffigurerà chiunque si volesse dare la pena di riflettere alla difficoltà che, stando in quella posizione, l’uomo ha, se vuol bere.

Abbiamo parlato delle tre torture, la Camicia di forza, la Palla e il Cascione: ce ne sono delle altre. Tenteremo di descrivere anche queste.

C’è il Puntale. È un collare di ferro che si chiude alla gola dell’individuo con un apposito catenaccio. Questo collare, mediante una corta catena, è attaccato a un anello che sta ficcato dentro il muro.

Il minimo della durata di questa tortura è di due giorni e due notti. Bisogna perciò mangiare in piedi, dormire in piedi, completare stando così tutti gli atti necessari… morire in piedi, caso mai il cuore di chi vi è condannato fosse sorpreso da una sincope, caso mai il suo cervello fosse colto da un tocco apoplettico.

Ma questo non basta: per i nostri rigeneratori è poca cosa la forca; vili come i conigli, stupidi come oche, non possono è vero, come pure vorrebbero, essere feroci come le tigri, ma s’industriano, le buone creature, fanno tutto il possibile per sembrarlo. Una volta che si sentono tanti contro uno, che si sentono al sicuro della vendetta delle loro vittime, che sono certi che non subiranno nulla, diventano, per fare del male ai loro simili, industriosi di tal maniera, come, per giovare al proprio figlio, diventa industriosa la mamma.

Ci sta una quinta tortura, e diciamo quinta e non sesta e non settima e non decima, perché non ci sembra che ne valesse la pena in tanto lusso di crudeltà, in tanta quantità di ferocia, tener conto delle manette, polsini, del pane ed acqua, dei sotterranei, e d’altre cose più o meno civili, ingegnose e degne di questi schifosissimi che hanno schiacciato i pidocchi che avevano dentro le camice loro con le monete d’oro che stavano dentro le tasche nostre.

Questa quinta tortura è chiamata dei Ferri corti. Consiste nel legare l’individuo mani e piedi e tenerlo così accovacciato, accartocciato e arravogliato a terra come un gomitolo sulla nuda terra.

Le diverse torture non sono nate tutte da un pensiero: una ne ha scoperta un’altra.

Un uomo accovacciato così, ha mostrato che la testa si poteva mantenere diritta; ebbene bisognava fargliela abbassare; è un dolore di più? E perché non approfittarne?

E ne hanno approfittato.

Serrano il collo del paziente dentro un collare di ferro. Nella parte superiore di questo collare ci legano una forte cinghia di cuoio; ve la passano sopra la testa e quando la barba tocca il petto, legano l’altra estremità della cinghia al ceppo dove sono legati le mani e i piedi vostri.

Questo ingegnoso meccanismo si sperimenta ordinariamente dentro la camera contrassegnata, se la memoria non ci fa sbagliare, col numero 44. Questa camera sta vicino a la fontana al secondo piano del carcere della Vicarìa.

Il cassone del quale abbiamo parlato nell’articolo precedente, se lord Gladstone volesse avere la bontà di venire a vederlo, — affinché potesse poi dichiarare per quello che è quest’altro governo — lo troverebbe dentro una piccola camera situata vicino alle cosiddette Scuole Vecchie.

A chi si è obbligati per l’invenzione di queste torture, lo ripetiamo, nessuno lo sa, ma noi insistiamo sempre col crederle opera di Spaventa. Quando Dio dà a un soggetto una faccia come quella che ha dato a Spaventa, non può, certo, non avergli posto dentro al cuore qualche cosa che spiegasse il perché di quella faccia.

E di fatto, guardate con un poco d’attenzione quest’uomo e poi venitemi a dire — ancorché non foste Levater — se non vi sembra nato per impiccare o essere impiccato.

Sia come si voglia, certo si è, che, dicemmo nell’articolo precedente, egli ebbe una parte per nulla indifferente, dentro alla cosiddetta riforma del sistema carcerario.

Ma voi esagerate — si dirà — queste cose non sono possibili nel 1868. Che si cammini come i gamberi dentro l’Italia? Con un governo galantuomo? Con un governo civilizzatore, riparatore, moralizzatore, e per giunta redentore?

Ma va! Questa è una calunnia troppo materiale; è una pazzia di cattivo genere.

Sì, è vero, noi calunniamo, noi lo diciamo per pazzia.

E affinché le calunnie nostre avessero più aria di verità, perché le pazzie nostre sembrassero le cose più serie di questo mondo, daremo forza alle une e alle altre, se piace a Dio, citando date, e nominando soggetti. Chi lo può ci smentisse.

Verso la fine del 1865, nelle vicinanze di Monteforte fu arrestato un individuo. Era di bassa statura poteva avere una trentina d’anni, aveva una barba nera e un aspetto da burlone.

Interrogato da quelli che l’arrestarono non rispose: interrogatolo di nuovo, accompagnarono le domande con le minacce, s’ebbe lo stesso silenzio e un muovere d’occhi disordinato, incerto, stupido, pauroso.

Chi lo conosceva disse ch’era sordomuto. Ma questa giustificazione non piacque; e lo inviarono per l’accertamento al carcere della Vicarìa.

E di prova in prova, vale a dire da tortura a tortura, s’arrivò al marzo 1866.

Lo tennero così per dieci giorni dentro al cassone, poi ai ferri corti, poi di nuovo al cassone, poi con la testa in giù — e sempre a pane e acqua.

E poiché tutto questo non era sufficiente a completare tutti gli esperimenti; – i carcerieri che sono uomini di coscienza — gli buttavano di tratto in tratto una quantità d’acqua addosso servendosi di un secchio!

Non sappiamo come finì: forse fu liberato, forse soccombette ai dolori; sappiamo solo come fino a quell’epoca non si parlasse di giudizio e ancora meno, per conseguenza, di difesa.

Andiamo avanti.

Un certo Vito Monte, del quartiere Mercato, arrestato per reato comune — crediamo per furto qualificato, addirittura — nell’aprile del 1866, il mattino del 3 giugno, mentre con gli altri passeggiava dentro il cortile del carcere fu preso e posto sottochiave.

A chi chiese sue notizie dopo qualche giorno, fu detto trovarsi in punizione per essersi lamentato del trattamento dei carcerati.

Da lì a poco tempo, fu tolto da quel porcile, dove sembra che protestasse ancora, e fu posto nel Cascione.

L’infelice piangeva, pregava, scongiurava per tutti i santi del paradiso, imprecava per tutti i diavoli dell’inferno che lo togliessero da quel supplizio.

Le lacrime che si piangono restano in prigione, sono come quelle che si gettano per i morti, sono lacrime perse. Il carceriere non si commuove per virtù del pianto: le preghiere non arrivano mai alle orecchie sue. Il carceriere è come il poeta, nasce per il mestiere; se avesse orecchie sarebbe carcerato, se avesse cuore diventerebbe pazzo.

Il 10 giugno, Vito Monte, aveva una febbre da cavallo che bruciava. Tolto dal cascione fu portato all’ospedale. Disgraziatamente per lui stette bene, e diciamo disgraziatamente, perché dopo l’ospedale lo rimisero nel cassone.

Le grida di questo disgraziato straziavano; le bestemmie sue atterrivano, le minacce che faceva mettevano orrore:

«Infami, strillava il poverello, è questa la ricompensa che mi date per i servizi resi alla rivoluzione! Non mi mettevate allora nel cassone, quando mi pagavate per abbattere gli stemmi dei Borboni, eh? Non mi mettevate, briganti, dentro al cassone, quando mi pagavate per andare a saccheggiare i posti di polizia? … Cani! Assassini! Figli di scrofa! Avanzi di forca! eccetera eccetera». Sembrava che stesse per diventare pazzo.

Un giorno dai suoi custodi fu – certo per inavvertenza – lasciata aperta la porta della camera del supplizio.

Alcuni detenuti politici, vuoi per pietà, vuoi per altro, entrati di nascosto, dopo avergli detto di non dire nulla, lo sciolsero.

«Un’arma, cominciò a strillare allora quel pazzo, datemi un’arma per carità; per le anime dei vostri morti, un’arma! Un pezzo di legno, una pietra, un pezzo di vetro, un chiodo…. Ah, che possa aprire il cuore di questi infami; bere un sorso dei loro cervelli, che possa ficcare la testa nel loro ventre e dare un morso, un morso solo al loro intestino! E si alzò.

In un angolo della cameretta c’era una grossa scopa di saggina; la vide. Il suo aspetto era triste, terribile; le narici del naso s’erano allargate tanto che sembravano di sentire l’odore del sangue; sbatté i denti gli contro gli altri, farfugliò non so che bestemmia, e come una belva che si butta sui figli per salvarli dall’insidia del cacciatore, si lanciò sulla scopa e con un movimento compulsivo la prese come se volesse colpire quegli stessi che l’avevano salvato. Le membra sue s’erano gelate, le articolazioni senza moto, le forze gli vennero meno; la commozione della gioia gli avevano risvegliato addosso la commozione del dolore, le ginocchia si piegarono sotto il peso del suo corpo, tremò per un momento, traballò e cadde. I suoi salvatori pensarono di ritirarsi per non essere scoperti. I custodi quando tornarono nella camera trovarono la loro vittima sciolta e fuori del cassone, ma non più minacciosa né in atto di chi vuol vendicarsi, ma distesa lunga a terra, tremante, supplichevole, affannosa, con la bocca sporca di schiuma sanguigna, la fronte bagnata di sudore gelato. Il povero Monte, il povero torturato non aveva più la minaccia sulla bocca; L’infelice aveva solamente la morte al cuore. Debitamente battuto, debitamente interrogato e schiaffeggiato e preso a calci per giunta, fu nuovamente posto dentro la cassa.

È finita per me, esclamò il Monte, chiuse gli occhi e lasciò fare.

La fronte gli si distese: era il riflesso di un’idea che gli era venuta in testa.

Aveva deciso di lasciarsi morire di fame.

Al carceriere che più tardi gli portò il pane e l’acqua disse di non volerne.

Per trentasei ore non toccò cibo.

Il carceriere sospettò il suo pensiero.

— Tu vuoi morire, gli disse, non è così?

— Si, rispose il Monte, è la mia volontà.

— Aspetta però (disse il carceriere) che ora io ti faccia sperimentare prima la mia volontà.

E così dicendo, si dette a picchiarlo sulla bocca con quanta forza avesse nel braccio, con lo stesso pane duro che teneva tra le mani.

— Apri la bocca, marmotta; apri la bocca, briccone, diceva ad ogni colpo e batteva sempre.

Le labbra rotte, rotte le gengive, i denti rotti, dalla bocca di quel poverello usciva una schiuma di sangue.

— Magna carogna, ripeteva sempre con rabbia crescente il carceriere, mangia carogna!

E la carogna mangiò. Mangiò più per il dolore che per volontà, mangiò pane e sangue e denti rotti.

Caduto malato un’altra volta, fu di nuovo mandato in ospedale: guarito di nuovo, fu un’altra volta posto nella cassa…

Era il mattino dell’8 agosto. Dentro la camera del Monte regnava un silenzio profondo.

I carcerieri, sorpresi di non sentire i soliti strilli, entrarono.

Un rantolo sordo, cupo, sinistro era l’unico suono che rompeva il silenzio del carcere. L’infelice agonizzava.

Tolto in fretta dalla cassa fu portato dentro la camera numero 42.

Dopo un’ora, la vittima aveva cessato di soffrire, perché il suo cuore aveva smesso di battere. Era morto.

Nel 1868 si scomodò persino il Times scrivendo: «Nelle prigioni di Napoli si pratica qualcosa di turpe, di feroce, d’immondo, di barbaro e d’infame», e si riferivano alle torture, ripristinate dai generali piemontesi per “educare i terroni”.

In un clima politico e culturale, di modernità, nel 1845, subito dopo l’inaugurazione del nuovo carcere di Palermo, l’Ucciardone, ritenuto dal punto di vista architettonico il più moderno d’Europa, veniva promulgato dai Borboni un decreto sulla legislazione carceraria che rendeva il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva: la classificazione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell’età e del delitto commesso e la loro separazione in strutture diverse, per evitare contaminazioni. La destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all’interno degli stessi penitenziari; l’istruzione religiosa e morale ai carcerati. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.
Fra le carceri palermitane, prima dell’inaugurazione dell’Ucciardone, il principale e più affollato era la Vicaria, nome, peraltro, con cui venivano chiamati i carceri delle principali città del regno. Il carcere sito al di là della Porta Felice e affacciantesi sull’odierna via Vittorio Emanuele, occupava i locali oggi adibiti ad uffici dell’amministrazione delle Finanze, ospitava, nei primi anni dell’Ottocento, tra i 1000 e i 1500 detenuti, la maggior parte dei quali in attesa di processo. Gli altri carceri cittadini erano Castellammare, fin quando non fu distrutto e la Quinta casa, già convento dei gesuiti, sito nell’odierna via dei Cantieri.
Nel regno di Sicilia l’amministrazione della giustizia era influenzata dalle leggi del periodo normanno e svevo e poteva considerarsi apprezzabilmente funzionante. Pur essendo la vendetta privata ancora praticata, gradualmente veniva sostituita col risarcimento in denaro, mentre si cominciava a diffondere la pena detentiva come alternativa alle sanzioni corporali particolarmente cruente. Sul finire del XVI secolo, pur restando la pena di morte la sanzione applicata per i delitti più gravi, le altre pene come i castighi fisici, le mutilazioni e la gogna cominciarono ad essere sostituiti con altri tipi di sanzioni capaci di assicurare allo stato un ritorno economico, pur mantenendo la loro funzione di terribile castigo per il reo. Si cominciò, allora, a ritornare a tre tipi di pene già note nell’antichità classica: l’utilizzo dei rei nelle galere, la deportazione e i lavori forzati.
Fu, l’Inghilterra a farsi promotrice di tali riforme; si comprese, infatti, che invece di relegare i rei in putride carceri a marcire per la sporcizia, la mancanza di cibo o le epidemie che in quei luoghi, fin troppo spesso, scoppiavano, sarebbe stato ben più utile impiegarli ai remi, servendosi della loro forza per il trasporto di merci e persone o, meglio, utilizzarli nei lavori più duri, ai quali soltanto i disperati avrebbero potuto sottomettersi. Così nella “civilissima” Inghilterra furono fatti i primi esperimenti di prigioni galleggianti; si trattava di vecchie navi, quasi sempre in disarmo, che venivano ancorate in determinati punti del Tamigi e che arrivavano ad ospitare fino a trecento prigionieri, i quali ogni mattina venivano trasportati su chiatte dove, per lo più venivano impiegati nel terribile lavoro del dragaggio del fiume. Malgrado si trattasse di fatiche durissime sostenute in condizioni ambientali terribili, i rei preferivano tale tipo di castigo, nonostante fossero costretti a lavorare tutto l’anno all’aperto con qualsiasi tipo di clima, senza riparo alcuno, alla prigionia nell’ozio, senza mai poter vedere il cielo e respirare un’aria che non fosse quella puzzolente e malsana degli ambienti chiusi sporchi e superaffollati dove erano stati costretti a vivere. Sempre gli inglesi sperimentarono la pena della deportazione che consisteva nel condannare i rei ai lavori forzati nelle colonie inglesi d’oltremare. Alla fine del settecento questo tipo di sanzione permise alla Corona inglese di colonizzare con pochissima spesa un intero continente come l’Australia.
Tuttavia, in tutta l’Europa, agli albori del Seicento, i rei cominciarono ad essere adibiti ai lavori forzati, non solo nelle colonie o all’esterno delle prigioni, ma anche al loro interno dove vennero costruiti vari tipi di manifatture. Il prigioniero così veniva tolto dall’ozio, imparava un mestiere e nello stesso tempo diventava economicamente produttivo.
Nel Settecento cominciavano a diffondersi le teorie dei Lumi che, non solo predicavano l’eguaglianza davanti alla legge, ma miravano anche al raggiungimento di legislazioni più giuste e che prevedessero trattamenti più umanitari anche per il reo che, nonostante la colpa commessa, non meritava né la morte, né tantomeno di veder calpestata la sua dignità d’uomo. Fu il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana a rendere applicabili nella realtà i più moderni principi illuministici senza limitarsi soltanto ad approvarli come fecero gli altri sovrani europei. Il Codice Leopoldino del 1786 prevedeva addirittura, l’abolizione della pena di morte.
Con lo scoppio della rivoluzione francese i dibattiti sul rispetto dei diritti umani e sulla riforma anche del sistema carcerario, si fecero sempre più accesi e frequenti. Fu l’economista inglese Bentham, noto come caposcuola della corrente di pensiero detta utilitarismo, ad essere attratto dai problemi connessi al sistema carcerario, problemi che divenivano sempre più pressanti, non solo per l’imperversare dei dibattiti e degli scritti in materia, ma anche per il sovraffollamento delle carceri, da cui, peraltro, si diffondevano anche all’esterno spaventose epidemie. Dopo anni di riflessione l’economista inglese pensò di aver risolto ogni problema presentando il progetto del suo Panopticon, carcere di forma circolare dotato di celle individuali, disposte lungo la circonferenza ” le cui finestre e la cui illuminazione fossero gestite in maniera tale che gli occupanti fossero chiaramente visibili da una torre centrale di controllo […] Un simile sistema di vigilanza incessante avrebbe impedito i nocivi contatti tra i detenuti, e avrebbe reso superflue le catene e altre similari anacronistiche strutture. Sorvegliati di continuo, i carcerati avrebbero potuto (e dovuto) lavorare fino a sedici ore al giorno nelle proprie celle, con grande profitto dell’imprenditore privato cui sarebbe toccato promuovere e dirigere l’istituzione in condizioni di grande vantaggio rispetto ai concorrenti costretti a far ricorso alla manodopera libera.[…] Il meccanismo del libero mercato doveva quindi essere messo in condizione di regolare senza intralci un’alternanza di terrore e di umanità all’interno del Panopticon, che andava gestito alla stregua di un’impresa capitalistica.”
Alle obiezioni che gli vennero rivolte in relazione allo sfruttamento che i rei avrebbero subito da parte degli imprenditori, Bentham rispose proponendo, non solo che la prigione fosse aperta alla visita e all’ispezione di chiunque nutrisse dubbi sul trattamento dei prigionieri, ma suggerì, che si imponesse agli imprenditori il pagamento di cinque sterline per ogni detenuto deceduto, quando i decessi superassero il tasso medio di mortalità a Londra. Anche se da tutto ciò si evince che il sistema prospettato da Bentham non partiva certo da ideali umanitari, il suo progetto di prigione circolare affascinò la maggior parte degli architetti del tempo e i governanti più illuminati.
Un ulteriore apporto delle idee illuministe fu quello di rendere l’esecuzione della pena capitale meno disumana, adottando metodi più indolori come, per esempio, la ghigliottina.
Fra i sovrani europei che accolsero positivamente le proposte di riforma carceraria si distinsero fra tutti proprio i Borbone che diedero prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della transazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840.
Due anni prima, sulla scia di una serie di studi e ricerche in materia, inaugurate dai francesi Tocqueville e Beaumont che si erano recati negli Stati Uniti d’America per analizzare il locale sistema carcerario, Filippo Valpolicella pubblicava, su incarico dei sovrani di Napoli, un suo ponderoso lavoro dal titolo Delle prigioni e del loro migliore ordinamento. In tale opera sembra superato l’uso della pena di morte e delle pene corporali, mentre l’esilio e la prigionia vengono ritenute le uniche pene da applicarsi contro i rei, mentre il lavoro, l’igiene, il silenzio, la divisione dei detenuti, la loro educazione religiosa, diventano i cardini del progetto di riforma. E, invero, con la costruzione dei carceri di Avellino e Palermo, ambedue a pianta circolare, alla stregua delle più moderne teorie, si dimostra che il Regno delle Due Sicilie mira alla concreta applicazione dei progetti di riforme e non alla sterile disquisizione sugli stessi. Già nel 1812 Ferdinando I di Borbone aveva sentito la necessità di sostituire il vecchio carcere di Palermo, la Vicaria, con una nuova struttura più salubre e più sicura dove i prigionieri potessero essere sottratti all’ozio ed avviati ad un mestiere. La Vicaria, infatti, presentava una pluralità d’inconvenienti: il suo sovraffollamento rendeva la vita dei carcerati simile a quella dei dannati nei gironi dell’inferno dantesco, favorendo, oltre ai vizi derivanti dalla promiscuità, il sorgere di frequenti epidemie che, per la posizione del carcere, al centro della città, facilmente uscivano dalla prigione diffondendosi fra i rioni cittadini. Inoltre la sua collocazione in centro, rendeva poco sicuro il carcere, essendo molto facilitate le comunicazioni tra l’interno e l’esterno: così com’era più semplice evadere, era altrettanto facile che, soprattutto in periodo d’insurrezioni e rivolte, il seme della ribellione penetrasse all’interno del luogo di pena.
Tutto ciò aveva distolto i governanti dal trasformare una vecchia struttura conventuale come lo Spasimo, anch’esso al centro della città, in nuovo carcere, o dal trasferire i detenuti nell’altra prigione, detta Quinta Casa. Si reputava necessario costruire il nuovo carcere fuori del centro cittadino, in luogo salubre e soprattutto su una pianta a raggiera che rispondesse ai criteri enunciati dal Bentham. Anzi il decreto del 1845, sulla divisione dei carcerati per categorie in relazione ai reati commessi e all’età, sulla fornitura di vitto accettabile, sull’adozione di celle individuali, sull’impiego dei reclusi in attività lavorative da esercitarsi all’interno della stessa prigione, sull’accettazione dell’introduzione del metodo correttivo nella pena, andava al di là dei progetti di riforma circolanti nel resto dell’Europa.
Il progetto borbonico, tuttavia, rimase un’utopia, infatti “non si era prevista la mancanza di una burocrazia fedele, onesta e zelante del pubblico bene, attenta alle nuove riforme, conseguentemente le modifiche apportate al sistema carcerario, pur tendenti a un utilizzo più produttivo e moderno della forza-lavoro detenuta, vengono in realtà inapplicate da amministratori locali, nonostante il cambiamento di gestione riluttanti verso qualsiasi novità proveniente da Napoli e tendente ad un accentramento statale”.
L’apertura del regime borbonico nel campo della politica carceraria contrasta con la fama che esso acquistò in Europa per merito del liberale Gladstone che, nel 1851, recatosi a Napoli per motivi di salute, essendo andato a visitare le carceri di Nisida, definì il regime borbonico ” la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Si seppe ahimè! troppo tardi che Gladstone non era mai andato a visitare le carceri borboniche e che quelle sue famose lettere pubblicate da tutti i giornali inglesi e discusse nel parlamento britannico, non erano state altro che il frutto di un accordo tra il politico liberale e il governo di Sua Maestà, per mettere in cattiva luce davanti all’Europa intera, la dinastia borbonica, colpevole di aver favorito una penetrazione russa nel mediterraneo a discapito degli interessi commerciali inglesi. In compenso agli occhi degli osservatori stranieri le carceri inglesi si rivelarono ben peggiori di quelle napoletane!
Nemmeno con l’unità nazionale cambiarono i sistemi nelle carceri della penisola, “[…]lo stato liberale continuò ancora a comportarsi come uno stato di polizia, al cui confronto quello borbonico appariva addirittura più rispettoso dei diritti umani”

In ogni città, del Regno delle due Sicilie, non manca , sopravvissuto ai tempi ed alle guerre, un edificio che dappertutto viene definito “carcere borbonico”. Nessun altro edificio, seppur costruito nello stesso periodo, ed adibito a fini istituzionali, gode di tale aggettivo. Non un museo, una villa, un teatro, un’accademia, un ospedale, una scuola; solo le carceri.
Triste eredità degli effetti della lettera di William Gladstone, dove il leader dei liberali inglesi, reduce nel 1851 di una supposta visita al carcere di Nisida, definisce il sistema carcerario ed in genere giudiziario del Regno, “la negazione di Dio eretta a sistema”, subito ripresa e diffusa da quanti tramavano ai danni del governo borbonico. Viene ignorato il fatto che nel 1852 lo stesso Gladstone si rimangiò molto di quanto aveva scritto e confessò di essere stato anch’egli raggirato. A supporto riportiamo quanto Domenico Razzano scrisse: “Gladstone tornato a Napoli nel 1888 1889 fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto Gladstone versò una secchia d’acqua gelata addosso ai suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli; che egli non era stato in alcun carcere, in nessun ergastolo; che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Questa ritrattazione non ebbe, però, alcun effetto di recupero. La lettera e la frase in essa contenuta continua ad essere il leit motiv che descrive la giustizia borbonica fino ai giorni nostri. E così nonostante i sui suoi primati civili e culturali, sulla sua supremazia sui mari, al sistema giustizia non si riesce a superare i luoghi comuni che per più di un secolo e mezzo hanno contribuito a trasmettere l’idea di un regno e di un governo occhiuto, poliziesco e oppressivo, dove non aveva luogo il minimo rispetto delle libertà individuali e dove al sistema carcerario era quasi preferibile una condanna all’inferno. L’aggettivo più diffuso che affianca i nomi è “famigerato”. Ferdinando II venne definito Re Bomba per aver consentito il bombardamento di alcune baracche a Messina, dove si erano rifugiati delinquenti comuni durante i moti de ’48, mentre Vittorio Emanuele II, dopo aver fatto bombardare fino alla distruzione Sestri Levante e parte di Genova, venne gratificato dell’epiteto di Re Galantuomo.
La più trita retorica risorgimentale, ignora che sotto i Borbone fu compiuta la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, considerando che i luoghi di detenzione dovevano essere anche luoghi di redenzione, e che comunque si doveva passare dagli incivili e inumani luoghi dove i condannati soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove convivevano molte volte donne, bambini e uomini. Si rese evidente la necessità di assicurare locali adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati separati per sesso e per tipologia di reato avessero anche assistenza sanitaria, religiosa, e un’attività lavorativa.
I “famigerati Borboni” realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa, e progettarono, prima d’ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che vengono considerate utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all’ostruzionismo della burocrazia ed alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860.
Essi furono fra i sovrani europei che per primi avviarono una riforma carceraria e si distinsero fra tutti dando prova di maggiore sensibilità rispetto per esempio agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della tran-sazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840. 

Nel 1850 Antonio Panizzi, un esule che sin dal 1831 ricopriva un posto di riguardo nella Biblioteca del British Museum di Londra, convinse lo statista inglese William Gladstone a visitare Napoli.
L’intento del Panizzi era duplice: da un lato, infatti, il suo invito era dettato dall’amichevole sollecitudine per la salute della figlia dell’uomo politico britannico, affetta da una malattia agli occhi che si sperava potesse essere combattuta grazie al clima mite del suolo partenopeo. Ma il viaggio di Gladstone, nelle intenzioni del bibliotecario italiano, avrebbe avuto anche uno scopo politico preciso. Spesso, infatti, Panizzi aveva parlato all’amico inglese delle critiche condizioni dei prigionieri incarcerati nelle galere del Regno delle Due Sicilie dopo i fatti del 1848: il soggiorno napoletano avrebbe dato pertanto a Gladstone la possibilità di constatare personalmente cosa stava accadendo nel regno di Ferdinando II di Borbone.
Nell’ottobre del 1850, prima di partire per Napoli, sir William fece visita a Londra all’ambasciatore borbonico Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, per informarlo del suo imminente viaggio. Dopo questo incontro, il principe di Castelcicala indirizzò una lettera al ministro degli Esteri Giustino Fortunato, raccomandandogli di accogliere Gladstone con la sua solita cortesia e bontà. Alla fine di quello stesso ottobre, lo statista inglese giunse a Napoli, prendendo alloggio alla casa Dupont, al numero 5 di via Chiatamone. Nei quattro mesi del suo soggiorno colse fra l’altro l’occasione di visitare i luoghi più rinomati della città, fra cui la tomba di Giacomo Leopardi, del quale era profondo ammiratore e studioso.
Il 16 novembre Lord Leven offrì un pranzo all’Albergo delle Crocelle. Qui Gladstone conobbe Giacomo Lacaita da Manduria, patrocinatore in Corte civile e consigliere presso la Legazione britannica a Napoli. Nel corso delle loro conversazioni, Lacaita, intimo amico ed estimatore di Carlo Poerio, raccontò che questi, per aver sostenuto l’applicazione nel Regno delle istituzioni costituzionali moderate di tipo inglese, era rinchiuso in carcere e sottoposto al processo che si discuteva presso la Gran Corte della Vicaria. Gladstone, vivamente interessato, volle assistere assiduamente alle udienze: udì la requisitoria del procuratore generale Angelillo il 4, 6 e 7 dicembre e, successivamente, ascoltò sia le arringhe degli avvocati difensori sia le autodifese di Agresti, Nisco, Pironti, Settembrini e Poerio. Al termine del processo, quando ormai ai prigionieri era stata comminata la pena, Gladstone fu anche testimone del trattamento da loro subito in galera. Egli, infatti, ebbe modo di far visita clandestinamente a Carlo Poerio all’interno del carcere di Nisida nel mese di febbraio del 1851.
Tornato in Inghilterra, il 7 aprile indirizzò al Primo Ministro Lord Aberdeen una lettera in cui descriveva con accenti di accorata indignazione la condizione deplorevole dei condannati e delle prigioni del Regno borbonico, sperando che ciò avrebbe potuto indurre il governo napoletano a migliorare la situazione dei reclusi. Dal canto suo Lord Aberdeen, dopo aver ricevuto la lettera, ritenne opportuno informare immediatamente l’ambasciatore del Regno delle Due Sicilie a Londra, prospettando la possibilità di impedirne la stampa se Ferdinando II si fosse impegnato a mitigare la condizione carceraria dei patrioti: in tal senso, il 22 maggio, inviò una missiva al principe di Castelcicala accludendo una copia della lettera scrittagli da Gladstone. Castelcicala, a sua volta, scrive subito a Napoli al ministro degli Esteri Giustino Fortunato e al segretario particolare del re, Leopoldo Corsi. Fortunato, subito dopo aver ricevuto la lettera di Castelcicala, si accinse a preparare una smentita alle affermazioni di Gladstone; ritenne inoltre opportuno informare di quanto avvenuto i rappresentanti dei vari governi europei.
Verso la fine di giugno Lord Aberdeen chiese di incontrare il principe di Castelcicala per discutere del problema evidenziato da Gladstone. Il 24 giugno Castelcicala indirizzò una lettera a Giustino Fortunato accludendo il biglietto di Aberdeen con la richiesta di un colloquio e riferendogli quanto sir William aveva recentemente dichiarato allo stesso Lord Aberdeen: lo statista britannico continuava a sostenere di aver visto personalmente ciò che aveva descritto. Quindi, se entro la prima settimana di luglio non avesse ricevuto alcun riscontro, egli non avrebbe più aspettato a rendere nota la questione al pubblico e alle Camere. Se invece il governo napoletano avesse liberato Carlo Poerio, Gladstone si sarebbe sentito soddisfatto e avrebbe taciuto. Dopo aver a lungo atteso, visto che la sua lettera a Lord Aberdeen non aveva conseguito il risultato sperato, Gladstone si rese conto che era arrivato il momento di renderla pubblica e scrisse al Panizzi: «Devo assolutamente stampare la prossima settimana, a meno che non venga a sapere che qualcosa di buono sia stato fatto». La pubblicazione, come è noto, avvenne; anzi: l’autore diede alle stampe, insieme con la prima, una seconda lettera indirizzata al medesimo destinatario. Lo scandalo internazionale che ne derivò fu enorme: il danno inflitto all’immagine del governo di Ferdinando II nelle cancellerie e nell’opinione pubblica europea, e perfino americana, si rivelò ben presto irreparabile. Da allora ebbe larga fortuna lo stereotipo del regime vigente in Napoli come «negazione di Dio».

DIAVOLI e/o SANTI?

Ci sono vicende che hanno fortemente influenzato la condizione, tutt’ora persistente, di un Paese “a due marce” come il nostro. Prima fra queste proprio l’Unità d’Italia, che ha esacerbato nelle popolazioni del sud l’ostilità nei confronti di un nord che fu a tutti gli effetti invasore. La storia, quando non è narrata dai vincitori, cambia però direzione, restituendoci un racconto diverso, che tiene conto anche del punto di vista di quelli che hanno lottato, seppur invano, contro l’annessione a uno stato percepito allora come tiranno. Intorno al 1860 in Italia c’era una guerra, non regolamentata da leggi internazionali, senza regole né trincee, combattuta da militari e da civili, gente del popolo, sud contro nord. La guerra dei briganti, battezzata da alcuni “la guerra dei cafoni”, forse la prima guerra civile italiana.

Sono passati trent’anni da quando Claudio Pavone usò l’espressione “guerra civile” per la resistenza del ‘43-‘45, e ancora oggi gli storici su questa definizione scrivono libri, organizzano convegni, discutono. Figuriamoci quanti possono accettare di chiamare guerra civile quello che accadde nel Sud in rivolta contro coloro che venivano considerati stranieri invasori – detti “i Piemontisi,” ma in realtà nelle fila di soldati e ufficiali c’erano moltissimi italiani provenienti da altri parti della penisola, e anche non pochi stranieri. Effettivamente fu davvero una guerra civile, anche se la si volle occultare, mistificare. Le cifre ufficiali dei morti completamente sbagliate, il fenomeno del brigantaggio spacciato per semplice criminalità finanziata dalla Chiesa e dai Borbone per i propri fini, l’ostilità del popolo visto come ribellione di bifolchi ottusi davanti a ogni prospettiva di cambiamento, ufficialmente veniva raccontato questo. Tanto si volle negare che si stesse combattendo una guerra, che addirittura all’inizio del 1861 i soldati mandati al Sud si videro togliere l’indennità per la cosiddetta “entrata in campagna”. Malcontento e delusione alle soglie dell’Unità d’Italia. Leva obbligatoria per i contadini, esercito borbonico allo sfascio, tra i motivi che incitarono alla rivolta e al brigantaggio, secondo gli storici. Ma quale fu il peso dell’ignoranza della classe dirigente settentrionale sulle reali condizioni del meridione in questa vicenda? L’ignoranza della classe dirigente politica e di alcuni intellettuali del nord nasceva dal pregiudizio. Antonio Scialoja già nel ’55 aveva parlato degli abitanti della Sicilia come di «otto milioni e mezzo di pecore», il deputato della Sinistra Aurelio Saffi diceva dell’intero Sud che era un lascito della barbarie, e i meridionali in genere venivano considerati, da tutti, razza inferiore e infetta. Voci autorevoli dissertavano sul “sangue africano” della razza meridionale contrapposto a quello “ariano” dei settentrionali. Menabrea, prima di diventare capo del governo, aveva stilato un progetto per deportare in Argentina vagabondi, scontenti e miserabili del Sud. Le condizioni in cui vivevano i contadini, i minatori, i pescatori – ovvero la stragrande maggioranza della popolazione del Meridione – erano del tutto ignorate o liquidate come una conseguenza ovvia della loro inferiorità. Vivevano nei tuguri, non si lavavano, avevano stili di vita bestiali perché era nella loro natura.

La storia contemporanea si è sempre più allontanata dal concetto di brigantaggio come mero fenomeno criminale, e dall’altra parte, personaggi considerati eroi dalla storia ufficiale oggi potrebbero essere considerati criminali di guerra, come Nino Bixio. Garibaldi era all’oscuro sulle feroci rappresaglie e violenze dell’esercito sabaudo a danno anche dei civili? Certo che non ne era all’oscuro. La spedizione dei Mille non fa affatto accolta con quel tripudio che ci hanno fatto credere. All’inizio sicuramente c’era stato dell’entusiasmo dettato dalla speranza, perché i contadini si aspettavano quelle terre che erano state loro promesse, ma che la realtà fosse un’altra divenne presto chiaro. Bixio era il braccio destro di Garibaldi, e del massacro di Bronte, con la strage di civili che nulla avevano da spartire con i ribelli briganti, si gloriò. Ci furono eccidi ovunque, la storia riporta solo casi eclatanti come quello Bronte. Garibaldi era all’oscuro di altro: di tutte le manovre politiche che si ordivano e nelle quali lui rappresentava soltanto una figura di volta in volta giudicata scomoda o manovrabile. Su Nino Bixio c’è una cosa che pochi sanno. Si era formato nella marina militare, e dopo la presa di Roma ricominciò a navigare. Morì – non si sa bene di cosa: forse colera, forse febbre gialla, in Malesia, nell’isola di Sumatra, tre anni dopo che era partito sulla nave che lui stesso aveva costruito. Chissà se ebbe qualche rimorso. Farebbe piacere pensarlo.

Poi venne istituita la Commissione Massari, e la legge Pica.

La Commissione venne istituita alla fine del 1862 per studiare il fenomeno del brigantaggio, quindi anche indagarne le cause, e la relazione venne consegnata nel maggio del 1863. Rilievo massimo venne dato alla convinzione di Massari che Borboni e agenti clericali fossero i principali responsabili che, oltre a sobillare la popolazione, fecero arrivare ai briganti aiuti in denaro e informazioni. Per suffragare la tesi, Massari citò persino omelie di sacerdoti in appoggio ai briganti e contro gli usurpatori. Molta parte ebbero le testimonianze delle abitudini dei briganti, della loro estrema devozione di tipo superstizioso. Massari non accennò mai, neppure vagamente, a responsabilità governative, e spinse perché venisse immediatamente approvata una legge speciale fortemente repressiva: quella che sarà di lì a breve la legge Pica. Da notare questo passaggio dell’inchiesta: «Tra nemici di indole sì diametralmente opposta non sono praticabili le regole dell’arte della guerra. A combattere con efficacia il brigante è d’uopo adoperare le sue arti». Questo dava via libera a ogni sorta di crudeltà, con i soldati trasformati a loro volta in quei briganti che venivano definiti bruti. Ma a questo punto bisogna dire un’altra cosa fondamentale sull’inchiesta. Nonostante non venisse lambito l’onore del governo, ricordiamoci che Massari era un filocavouriano di ferro, nonostante vi fosse detto chiaramente che si trattava di una lotta tra civiltà e barbarie, e i briganti venissero descritti come bestie assetate di sangue, la relazione preoccupò chi la fece, sicuramente perché vi erano descritte le condizioni miserrime della popolazione, che dovevano essere ben terribili per far preferire a qualcuno la rischiosa vita del brigantaggio. La lettura della relazione avvenne, come si direbbe oggi, a porte chiuse. La lettura dei documenti fu impedita agli stessi deputati. Buona parte dell’enorme materiale dell’inchiesta sparì. Può sembrare pazzesco, ma non abbiamo ancora oggi la relazione integrale.

La legge Pica arriva, come richiesto da Massari, in tempi brevissimi. È operativa già dal 15 agosto del 1863, votata anche da non pochi deputati di Sinistra. Essendo ormai acclarato che il brigantaggio fosse una malattia da combattere con ogni mezzo e tutti coloro che lo appoggiavano non meritassero alcuna pietà: bastava un sospetto, una parola, per finire in galera o fucilati, vennero dichiarate in stato di brigantaggio molte province ad esclusione di alcune grandi città, in buona parte del Sud, con provvedimenti inumani: le condanne erano inappellabili, i fiancheggiatori condannati ai lavori forzati ma più spesso fucilati. Nasce qui il fenomeno del pentitismo: molti si consegnarono “spontaneamente” per avere salva la vita propria e dei congiunti, denunciando spesso persone che nulla di male avevano compiuto, ma erano semplicemente nemici personali. Così si consumarono legalmente, vendette, ritorsioni, usurpazioni. Solo nei primi mesi ci sarebbero state oltre 5 mila fucilazioni, e interi paesi distrutti, dati alle fiamme. La legge Pica, che avrebbe dovuto avere validità limitata, resterà invece in vigore fino alla fine del 1865.

L’unità d’Italia peggiorò la situazione del sud, in termini economici, determinando paradossalmente un divario sfociato nella questione meridionale, tutt’altro che risolta!

Dal punto di vista economico, sì. Le cifre sono molto chiare. Le riserve auree del Regno delle Due Sicilie costituivano, prima dell’annessione, quasi i due terzi dell’oro posseduto da tutti gli altri Stati, e furono letteralmente depredate dal Nord, senza che ne fosse restituito al Sud l’equivalente sotto forma di opere pubbliche o aiuti all’agricoltura. Le terre non vennero distribuite, ma finirono in mano ai soliti latifondisti o a una nuova borghesia che già si era o si stava arricchendo, come sempre accade nelle guerre. Cominciò presto l’esodo verso il Nord di chi non poteva più nemmeno mangiare, e le campagne si impoverirono ulteriormente mancando di cure, di nuove tecnologie. Poco più tardi ci furono terribili carestie e l’aggravarsi della situazione degli agricoltori a causa del protezionismo, che comportò l’impossibilità di esportare. Ferdinando II e Francesco II di Borbone diventarono quasi dei santi, nel ricordo. Perché distribuivano il pane quando andava male il raccolto, perché la leva militare non era così rigida da portare le famiglie alla fame. L’inchiesta di Stefano Jacini (1877-1886) mette perfettamente in luce lo stato di miseria, di denutrizione in cui versavano le popolazioni del Sud, le malattie. Ma nel ’69 non si era trovato di meglio che imporre la famigerata “tassa sul macinato” per raggiungere l’agognato pareggio di bilancio. A soffrirne, come di tutte le altre tasse che erano soprattutto indirette (mai inimicarsi i ricchi!), erano stati i poveri, quelli che vivevano di solo pane.

Molte le figure di briganti del centro e sud Italia divenute miti per le popolazioni locali. Tra queste Carmine Crocco. Può essere considerato prototipo dell’uomo che si ribella all’ingiustizia sociale e alle violenze dei potenti contro i poveri.

Non c’era in realtà solo questo afflato ideale, nei briganti, e ciascuno fa caso a sé. Crocco è stato il più famoso, “il Generalissimo”, anche perché ha avuto una vita avventurosissima, per le memorie che scrisse in carcere, e anche perché riuscì a vivere a lungo: in genere i briganti morivano presto, solo un po’ prima dei contadini e degli operai… Emblematica la sua storia personale. Un ricco prepotente aveva preso furiosamente a calci la madre di Crocco incinta, lei aveva abortito e non si era ripresa più, finendo in manicomio. In seguito il padre era stato accusato, senza alcuna prova, di aver sparato a don Vincenzo, il prepotente scalciatore. Da quel momento, la famiglia visse nella miseria. Le vicende di Crocco sono veramente incredibili, sembrerebbero eccessive persino per la trama di un film. Tradimenti, pentimenti, misteri svelati, riconciliazioni, intrighi, vendette, fughe. E gesti d’onore e d’amore: salvò la vita a un nobile che stava annegando, con la ricompensa fece uscire di galera il padre. Inoltre, non accettò il denaro che avrebbe voluto dargli il figlio del nobile responsabile dell’aborto e della follia della madre, che avrebbe voluto riparare al torto fatto. Crocco è famoso anche perché conobbe tutti i protagonisti di quell’epopea: a un certo punto si unì persino a Garibaldi, poi pensò di poter contare su Francesco II e sul papa. Gli avrebbero addebitato 67 omicidi. Nel 1870 fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo.

Anche le donne ebbero il loro ruolo nel brigantaggio, con la differenza tra “donna del brigante”, e “brigantessa”.

Le donne dei briganti aspettavano a casa i loro uomini, li nascondevano, cercavano per loro cibi e informazioni. Se poi anche loro finivano alla macchia era per necessità, non avendo altra via d’uscita dato che erano sorvegliate, ridotte alla fame, isolate. Le brigantesse erano proprio come i briganti, perché i loro compagni erano briganti, ma sono anche state protagoniste di furti, rapine, saccheggi e omicidi al pari degli uomini.

Michelina De Cesare, è stata probabilmente la più bella e la più oltraggiata. Ribelle fin da bambina, presto vedova, si unisce al brigante Francesco Guerra e si dimostra abilissima nel progettare piani di rivolta. Venne tradita e uccisa insieme al suo uomo, di sera, mentre cercava riparo sotto una quercia. Le spararono alle spalle e, nuda, la esposero insieme a Guerra sulla piazza centrale di Mignano. Uno spettacolo vile e osceno che suscitò grida di ammirazione e che eccitò la morbosità della gente.

Francesca La Gamba si unì ai briganti per vendicarsi di un uomo che aveva respinto: un ufficiale francese. Lei lavorava in una filanda e aveva tre figli, per punirla del suo rifiuto, l’ufficiale fece affiggere per il paese (Palmi) manifesti che incitavano alla ribellione, e denunciò come loro autori i figli di Francesca, che vennero fucilati. La povera donna perse in maniera orribile anche un altro figlio, ancora lattante. Il brigante Francesco Moscato con cui si accompagnava e che ne era il padre, quando un giorno si accorse di un militare vicino al loro nascondiglio e il bambino cominciò a piangere, non ebbe remore a sfracellare il piccolo contro la roccia per non farsi scoprire. Francesca allora aspettò che si addormentasse, gli sparò, lo decapitò, e ne portò la testa fino a Catanzaro, dove chiese al Governatore la taglia su Moscato. Si racconta che il Governatore fosse a pranzo, e la donna rovesciasse la testa sulla tavola imbandita.

Nelle biografie delle brigantesse cambiano i nomi e i luoghi, i particolari e i volti, ma ci sono sempre disgrazie, soprusi, terribili ingiustizie che nessuno si preoccuperà mai di riparare se non la persona colpita, la quale, considerata la mentalità, l’ambiente, le condizioni in cui opera, crede che l’unico modo per reagire alle offese sia quello di lavarle nel sangue.

Ce ne furono molte, di brigantesse. Su di loro e su quello che di mostruoso erano capaci di compiere si favoleggiava. Venivano considerate spesso adoratrici di Satana, streghe, oltre che crudeli sanguinarie. E particolarmente si ricamava sulle loro sfrenatezze sessuali, sulla loro lussuria. Nessuno scrupolo, quindi, a esporre il cadavere nudo di Michelina al ludibrio: le brigantesse non erano considerate veramente “umane”.

Dall’epoca della capitolazione nel 1861 di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, non si è mai spento il risentimento delle popolazioni locali verso tante repressioni e violenze. Sarà mai possibile arginare il divario tra nord e sud, in termini economici e… mentali?

Ma il divario rischia di colmarsi perché la crisi economica potrebbe mettere in ginocchio anche il Nord. Ma è ovvio che niente potrà migliorare finché si continuerà a considerare il Sud come un “problema”, un’appendice malata di questo Paese – in modo quindi non diverso da come lo consideravano i Piemontesi – da curare con elemosine a pioggia, investimenti destinati ad arricchire i soliti invece che ad apportare reali benefici a tutti, grandi opere che poi si rivelano inutili. I più intraprendenti lasciano la loro terra e risalgono la penisola, oppure vanno all’estero. È intollerabile che ancora debba continuare questo esodo. Ci vogliono tante cose: un’amministrazione efficiente, infrastrutture, soprattutto trasporti! Un serio piano per risollevare l’agricoltura e il turismo è fondamentale. Mancano gli ospedali, le università. Ci sarebbe anche l’opzione del federalismo: non si vuole sentire questa parola, ma non esiste alcun ragionevole motivo per non consentire al Sud di fare da solo, di spendere le proprie risorse come vuole, di darsi ciò di cui ha bisogno. Con l’aiuto del governo centrale? Aiuto si ma non la carità penosa. Non elargizioni per conquistarsi consenso elettorale.

“Molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni, le loro rivoluzioni, ma la libertà non è cambiare padrone” (dalle memorie di Carmine Crocco)

LA FACCIA NASCOSTA DEL RISORGIMENTO

di Loreto Giovannone by altaterradilavoro

Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. (Centro internazionale di studi Primo Levi)

Negli anni 2011/2012 la ricerca storica portò alla scoperta dei documenti governativi inediti, dell’Unità italiana, sulla deportazione di civili meridionali internati in campi di concentramento ai lavori forzati. Il libro che ne seguì, “Deportati”, del 2014 trovò posto nelle Università di Harvard, Princeton, Yale, Indiana, Library of Congres, Brithish Library nella sezione Political and Economic Science, ecc… In Inghilterra, in Francia, in Germania, in Italia all’Università Cattolica di Milano, polo bibliotecario di Camera e Senato. Seguirono tra il 2017 e 2018 la seconda edizione del libro Deportati e l’uscita della poderosa opera in tre libri della ricostruzione dell’intera vicenda del decennio di repressione del Brigantaggio con la misura di polizia del domicilio coatto.

A fine giugno 2020 la pubblicazione di “La faccia nascosta del Risorgimento” che riassume sinteticamente fatti personaggi ma soprattutto una serie di documenti e prove inoppugnabili compreso la lettera di Spaventa a Peruzzi che esplicitamente ammette la deportazione di 12.000 civili nei primi 10 mesi dopo l’agosto 1863. La mole di documenti rinvenuta dimostra che a partire dal 1863 i governi liberali del monarca Vittorio Emanuele II organizzarono la deportazione di migliaia di civili dall’ex Regno Due Sicilie. Il 15 agosto 1863 il Parlamento approvò la legge 1409, nota come “Legge Pica”, il 25 agosto 1863 entrò in vigore il Regolamento di attuazione della Legge 1409, secondo atto governativo della “deportazione” interna di civili meridionali. Alla fine del 2020 viene pubblicato “Deportazione e domicilio coatto in Italia” con il conteggio definitivo dei 160.000 sottoposti alla repressione di polizia.

La guerra civile Italiana per l’annessione del sud e la creazione della colonia interna del meridione.

L’impianto ideologico che giustificava queste misure coercitive fu fornito dei teorici della colonizzazione e darwinismo sociale di scuola ligure (Lessona, Garelli, Cerruti) e da Marco Ezechia Lombroso, con i suoi discepoli, con le loro teorie frenologiche. Questi furono poi affiancati da Alfredo Niceforo con le teorie della “razza Aria” e “razza Mediterranea“, (Alfredo Niceforo. Italiani del nord Italiani del sud, 1902). Perché storici ed accademici italici non si sono interessati alla deportazione di civili messa in atto 70 anni prima della deportazione tedesca del ‘900? Perché dopo 160 anni non si ammette l’operato della Divisione 1 Sezione 1 del ministero Interni del regno d’Italia? La deportazione coatta di popolazioni civili, intere famiglie, uomini, donne, bambini, non fu un crimine contro intere popolazioni del meridione d’Italia? Dal 1863 fu attuata la deportazione politica di massa nei “luoghi di relegazione“, il confine per i manutengoli degli insorgenti oppositori al nuovo regime risorgimentale. L’azione esecutiva dei governi post unitari, dopo la prima fase di demolizione dello stato sociale dell’ex Regno Due Sicilie, passò ad una seconda fase con il domicilio coatto di neo italiani del sud. Obiettivo della repressione politica sui civili era fiaccare l’enorme diffusa insorgenza popolare di vasta parte della popolazione a difesa dei propri territori, dei propri paesi con la guerriglia partigiana. Al ministero dell’Interno dell’Italia unita fu creato un intero reparto (Divisione 1° Sezione 1°) per spostare parte delle popolazioni meridionali e snaturarne l’assetto sociale produsse diffuso pauperismo ed emigrazione.

I neo italiani, annessi con l’invasione militare armata, una parte dei deportati, furono impiegati come schiavi nelle miniere, nelle saline o nei campi dei monopoli tabacchi o dai privati, sotto controllo repressivo ed amministrativo delle autorità governative. Domiciliati coatti come prigionieri politici ai lavori forzati nell’unità d’Italia, una realtà taciuta ed oscurata da storici, accademici. La deportazione di popolazione civile deportata dal sud fu taciuta dallo storico Pasquale Villari contemporaneo ai fatti, ma anche dal deputato all’opposizione Domenico Guerrazzi che dalla sua Livorno vide per anni il traffico  di esseri umani deportati (uomini, donne, bambini, famiglie) transitare per il porto della sua città ammassati in quarantena nei Lazzaretti di S. Iacopo, S. Rocco e carceri. Nel 1861 iniziò l’insorgenza dei civili del sud, fu la guerra dei civili contro l’esercito italiano dell’invasore piemontese nel Regno delle Due Sicilie. La resistenza organizzata in piccoli gruppi con tecnica di guerriglia nel 1862 stava determinando l’imminente fallimento della operazione militare diretta, finanziata, diretta, assistita da Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America. Nel marzo 1863 venne deposto il governo Farini sostituito dal governo Minghetti I, rimasero confermati sia il ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi, che il segretario generale Silvio Spaventa. In settembre questi iniziarono la deportazione degli oppositori civili e familiari degli insorgenti, detti spregiativamente briganti, dalle province del meridione.  Domiciliati coatti, deportati per Decreto Regio e determina del ministro dell’Interno, detenuti politici mai sottoposti ad alcun tribunale. Nel 1863 sotto il governo Minghetti, iniziarono le misure repressive di Silvio Spaventa, ideatore del piano e firmate dal ministro Ubaldino Peruzzi. Emersi dai documenti degli Archivi di Stato 25 luoghi di relegazione, tra isole e terraferma. A questi vanno aggiunte le altre isole della Sicilia che successivamente furono luogo di invio al domicilio coatto. Silvio Spaventa (Zio di Benedetto Croce) già ministro di Polizia nelle luogotenenze napoletane ideò il piano delle deportazioni e nel dicembre 1862 ne diede comunicazione per lettera al fratello Beltrando. Luigi Settembrini, il suo ex compagno di cella a S. Stefano, fu il suo ispiratore nell’istituire il taglione e le società d’assassini (gruppi di cacciatori di taglie). La lettera del suo ex compagno di ergastolo è del 13 febbraio 63: «Caro Silvio… Le tue circolari e gli atti governativi che riguardano queste province piacciono: ci si sente dentro senno e forza d’animo. Chi non ti ama, tace: chi parlava per parlare, oggi canta le tue lodi». Settembrini si riferisce all’accentramento dei poteri operato con le nomine dirette dei prefetti, fedelissimi al regime, che agirono con la repressione spietata sui civili meridionali insorgenti «I Borboni seguitarono le loro cospirazioni impotenti. E, finirebbero anche queste, se si spegnesse il brigantaggio, e per ispegnerlo io ti proporrei di promettere premio e impunità a chi da vivo o morto un capo brigante».

Settembrini, cospiratore, e sovversivo, condannato a morte da un tribunale borbonico poi graziato con l’esilio, vedeva i civili che si opposero alla annessione manu militari come il nemico da distruggere con modi spicci di uccisione e taglie: «10.000 £. a chi sta vivo o morto Pilone, Crocco, Ninco Nanco e un passaporto per uscire dall’Italia. In un mese o due e il brigantaggio sparisce, vi si getta dentro la diffidenza». Cinico e spietato suggerisce il mezzo del denaro, della corruttela, del comprare la vita altrui con l’odio sociale «E, e se si spende un po’ di denaro per una via, si risparmia per l’altra. Se il governo non può e non può adoperare questo mezzo, lo faccia adoperare dai consigli provinciali, o da una società privata». Settembrini che è stato considerato dalla mitologia risorgimentale un patriota, letterato, in realtà fu uno sgherro smaliziato che suggerì l’azione repressiva da regime totalitario all’hegelista patriota Silvio «Io so poi che in tutti paesi civili anche in Inghilterra, si mette il taglione sui malfattori: sarebbe uno scrupolo puerile il nostro». Settembrini e Spaventa, ridussero la questione meridionale in atto che comprendeva la demolizione dei numerosi provvedimenti a favore della popolazione compiuti dai Borboni e a fronte di un enorme movimento d’insorgenza alla occupazione militare, alle fucilazioni di massa come si trattasse di delinquenza di malfattori.  «Insomma, io credo che brigantaggio si spegnerebbe meglio con i denari che con la forza. E bisogna, Silvio mio, affrettarsi, perché di cose di Europa si imbrogliano: mutare, l’Italia non è ancora parte per far da sé, e non dobbiamo avere questo canchero che ci rode, e che divora tanti Prodi soldati e tanto denaro». L’inadeguatezza estrema degli elementi a cui fu affidata la politica interna è evidenziata dall’operato del regime che s’era instaurato dopo il 1860. Settembrini e Spaventa pensarono di sbarazzarsi di una consistente parte della società e «non dobbiamo avere questo canchero che ci rode» alla spicciolata, comprando i consensi con il denaro, con la corruzione diffusa e generalizzata. «Tu li conosci gli uomini nostri e sai che il mezzo che io ti ricordo è stato sempre efficacissimo. Panizzi (1) è qui: ha visto molti anche l’indispettiti come Spinelli e de Martino e Crisci e dei nemici come Savarese e Torella» (Silvio Spaventa, Lettere politiche, Laterza, Bari 1926, pag. 48).

Il nuovo modello sociologico del “fare l’Italia e fare gli italiani” insieme all’idea che ormai si stava affermando secondo cui “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” si traducono per Silvio Spaventa nel deportare civili meridionali ai lavori forzati assunto a modello di “correzione”, di sradicamento della cultura in uso nella tradizione popolare delle popolazioni del sud e imposizione del modello di vita anglosassone dove l’esistenza umana ha ragione di esistere solo se disposta allo sfruttamento, solo se funzionale alla ricchezza economica. Silvio scrisse di suo pugno a Ubaldino Peruzzi che in soli 10 mesi, da ottobre 1863 a Luglio 1864, avevano arrestato 12.000 oppositori politici, ed altre liste circolavano nel ministero dell’Interno. È urgente chiedersi perché una coltre abbia coperto l’operato di Silvio Spaventa (nelle istituzioni fino ad essere 1° presidente della 4ª sezione del Consiglio di Stato) e poi anche le omissioni del nipote Benedetto Croce fondatore dell’Istituto Storico napoletano che mai chiamò in causa le terribili responsabilità degli zii Silvio e Beltrando, uno l’artefice e l’altro teorico dell’hegelismo italiano dell’800.

(1) Antonio Panizzi, esule in Inghilterra, massone, bibliotecario e bibliografo italiano, ricordato anche per essere stato direttore della biblioteca del British Museum e senatore del regno d’Italia.

Il libro “La faccia Nascosta del Risorgimento” fa emergere decine di migliaia di persone “deportate” dimenticate e negate dagli storici, idealmente attendono di avere un posto nella memoria, un riscatto dal degrado della vita umana relegata al domicilio coatto. La responsabilità di Silvio Spaventa deportatore e suo nipote Benedetto Croce storico, è un gigantesco problema di etica storica e morale per tutta la società civile avendo obliato decine di migliaia di meridionali deportati, negati, nascosti da 160 anni.  Domiciliati coatti che attendono la verità, la dignità di “esistiti” e con essa una simbolica forma di risarcimento, per la doppia barbarie subita.