LA STORIA di un PASTORELLO e di un paio di VECCHI SCARPONI

Questa è una storia realmente accaduta poco dopo l’Unità d’Italia a Picerno, un paesello della Basilicata, che a quei tempi contava circa tremila abitanti. Erano gli anni in cui il Regno delle Due Sicilie era stato invaso dalle truppe piemontesi ed annesso con la forza al Regno d’Italia, nonostante la strenua ed impari lotta della popolazione fedele a re Francesco II.   Così come testimonia Carlo Alianello nel libro: “La conquista del Sud”, dove è descritto il “Risorgimento meridionale” con dovizia di particolari. Il libro è pieno di episodi di struggente ed inaudita crudezza, ma questa che narriamo supera ogni altra per il modo con cui si è svolto e per il crudele epilogo.

Il personaggio di questo patetico e sconcertante avvenimento è un pastorello, orfano di entrambi i genitori, che conduce una vita grama alle dipendenze di una famiglia di pastori in un casolare di campagna ad un chilometro dal paese. Il suo nome è Pasquale Pagliuca, ha circa sedici anni, è un ragazzo bruno di carnagione, magrissimo, grossolano negli atteggiamenti, misero nel vestire e di poche parole, ma un gran lavoratore, e buono come il pane e dolce come il miele. Cammina scalzo sin da quando è nato e nonostante la sua giovane età, Pasquale ha già la pianta dei piedi dura e nodosa come il legno, più tenace della terra che calpesta, ma lui non se ne cura, non avverte alcun disagio a muoversi su terreni accidentati, scivolosi e pieni di rovi. Solo raramente usa i “sandali fasciati” [delle calzature molto grossolane, usate dalla gente umile e povera. Costituiti da un plantare di cuoio o, in mancanza, da corteccia e da una striscia di tela o di lana che si avvolgeva, ben stretta, intorno al plantare, sino ad arrivare all’altezza del ginocchio. Per certi aspetti richiamavano la struttura dei calzari degli antichi romani.] Li usava per recarsi a Picerno in occasione dell’annuale mercato boario, per partecipare alla festa patronale di San Nicola e per assistere, almeno una volta al mese, alla santa Messa domenicale e comunicarsi.

Siamo nel mese di dicembre 1863. Pasquale ha conosciuto, nella chiesa matrice di Picerno, tramite l’amico Gennaro, Maria Gerarda, una bella ragazza della sua stessa età, molto schiva e contenuta, ma dagli sguardi seducenti. Il ragazzo rimane estasiato dal fascino che emana e non smette mai di sognarla e di immaginarsi suo sposo. Per tale motivo si reca ogni domenica a Picerno per incontrarla in chiesa e farsi, almeno con gli occhi di cotanta bellezza. La Messa scivola via senza essere seguita minimamente dal ragazzo. I suoi occhi sono puntati costantemente su di lei e ne ammira le grazie e le movenze.

Anche Maria Gerarda si volge spesso verso il ragazzo e gli lancia fugaci sguardi e sorrisi appena abbozzati. Pasquale non ce la fa più: ormai ha deciso di affrontarla e di fare il passo dovuto. Rompe ogni indugio, ferma la ragazza appena fuori dalla chiesa e, seppure con il cuore che gli sobbalza in petto, le esterna con poche ed insicure parole il messaggio d’amore. Maria Gerarda, che altro non si sarebbe aspettata, riesce a malapena a contenere la gioia; vorrebbe gridargli in faccia i sentimenti che prova per lui, ma, come prassi vuole, non può farlo, non può pronunciarsi subito e quindi rimanda la sua risposta al prossimo incontro. Trascorre un’altra interminabile settimana.

-“E allora, Maria Gerarda, cosa hai deciso?” Esordisce Pasquale con il cuore in gola.

-“Beh, non posso prendere una decisione così su due piedi… io… io ti conosco da poco” – gli risponde la giovane, a testa bassa per la vergogna, tipica delle ragazze di quei tempi.

-“Se cominciamo a frequentarci, possiamo conoscerci meglio… Io sono disposto a presentarmi subito ai tuoi genitori… Le mie intenzioni sono serie, molto serie”.             – “Sì, però…”.                     -“Però!… però, cosa?!” – la incalza Pasquale.        -“Ecco, devi essere un po’ più ordinato nel vestire, devi curare meglio quei capelli arruffati e poi… e poi, se veramente vuoi chiedere la mia mano, non devi presentarti scalzo a mio padre. Lui, ne sono certa, non ti accetterebbe!”.             -“Ti prometto che comprerò un paio di scarpe… le migliori scarpe, a costo di lavorare anche di notte per un intero anno!… Te lo prometto, amore mio!”.               E corre via per l’enorme contentezza, senza neanche salutarla. All’indomani mattina, ottenuto il permesso da Nicola [Nicola è il pastore che ha accolto Pasquale sin da quando è rimasto orfano], Pasquale ritorna a Picerno ad incontrarsi con Gennaro per aggiornarlo su ogni cosa.                   -“ Gennaro, tu che vivi qui a Picerno conoscerai senz’altro un calzolaio a cui rivolgermi per un paio di scarpe”.     -“Lascia fare a me, conosco un tizio che ha tanti indumenti, come pantaloni, cappelli, pastrani, maglie, camicie ed anche un paio di scarponi di media misura, per i quali pretende, se ben ricordo, sette carlini d’argento oppure una pelle di capra in cambio” – gli risponde di rimando l’altro.

-“Sette carlini?!… mai visti tanti soldi in vita mia!…” – gli ribatte Pasquale senza troppo pensare – “…Caso mai posso fare un tentativo con la pelle di capra, ma prima devo sentirmi con Nicola. Tu, intanto, parla pure con quel tizio e mantieni caldo l’affare”.

Nicola, che non vuole tradire le aspettative del ragazzo, gli offre la migliore pelle di capra in suo possesso, ma con l’impegno di dover cardare e filare una grande quantità di lana, dopo essere tornato dal lavoro. Pasquale accetta.

Dopo un paio di giorni il pastorello conclude l’affare; finalmente possiede i tanto agognati scarponi e, in più, ha un coltellino, avuto in omaggio da quel tizio. Ora può presentarsi ai genitori di Maria Gerarda per averla in sposa. Prima di salutare Gennaro, inforca gli scarponi e, fischiettando, se ne torna verso il casolare. Poco fuori dal paese incontra una pattuglia di quattro carabinieri che rientrano a Picerno.

“Ehi, tu, ragazzì, cosa porti ai piedi?” – dice un po’contrariato uno dei quattro.

-“Sono i miei scarponi nuovi!” – risponde innocentemente il ragazzo.

-“Quelli non sono tuoi, non ti appartengono… li hai rubati ad un carabiniere!…”­ ribatte il militare in modo burbero – “…Conduciamolo in caserma, questo qui deve appartenere ad una banda di briganti!”.

“Io brigante?!… ma vi state sbagliando… io sono un pastore che non ha fatto mai male a nessuno!”.

Pasquale, nonostante le continue insistenze e resistenze, viene ammanettato e condotto in caserma. All’indomani mattina, è trasferito a Potenza per essere giudicato dal Tribunale militare. Una volta in aula, il presidente legge il verbale dei carabinieri e, dopo essersi sentito brevemente con il segretario, interroga il ragazzo.

-“Voi siete Pagliuca Pasquale di Picerno?”.

-“Sì, signore, sono Pasquale Pagliuca ed abito nel casolare di Nicola Settembrino, ad una ventina di minuti da Picerno”.

-“Quanti anni avete?”.

-“Non lo so, signore… io… io non ho mai conosciuto i miei genitori”.

-“Come siete venuto in possesso di quegli scarponi?… Lo sai che appartengono all’arma dei carabinieri?”.

-“Io… io non sapevo che fossero di un carabiniere, altrimenti non li avrei acquistati”.

-“Chi te li ha venduti?”.

-“Non lo so, signore… non l’ho mai visto quel tizio. Io gli ho dato una pelle di capra e lui mi ha consegnato in cambio gli scarponi e, in omaggio, mi ha regalato anche un coltellino”.

-“Nonostante l’evidenza dei fatti, avete una bella faccia tosta a negare ogni cosa!…” – conclude il presidente, con tono severo. Dopodiché si allontana dall’aula insieme al giudice a latere e al segretario per discutere e scrivere la sentenza. Non passano cinque minuti che i tre sono già di ritorno.

-“In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e volontà della nazione […] a norma dell’art. 2 della legge sul brigantaggio, avendo il qui presente Pagliuca Pasquale opposto resistenza alla Forza Pubblica, essendo stato trovato in possesso di due scarponi appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed inoltre di un coltello in dotazione alla stessa Arma, il Tribunale di Guerra di Potenza, oggi, 23 dicembre 1863, riunitosi collegialmente nell’edificio del Distretto, condanna l’imputato alla pena capitale mediante fucilazione da eseguirsi in giornata”. Pasquale, che non ha capito un’acca di quello che è stato letto, viene condotto in cella.

-“Avanti un altro brigante!” – ordina il segretario. Ma, invece di un brigante, entra in aula un delegato della Pubblica Sicurezza, il quale ha un dispaccio della Soprintendenza di Napoli.   Il Presidente, dopo aver tolto i sigilli, legge il contenuto della missiva e strabuzza gli occhi man mano che prosegue nella lettura. Si tratta di un’informativa rivolta ai Tribunali di Guerra e contenente ulteriori istruzioni per quanto riguarda l’esecuzione dei condannati alla fucilazione o all’impiccagione.

-“Bella questa!…” – dice ridacchiando il Presidente.

-“Presidente, cosa c’è di tanto strano?” – domanda il segretario.

-“Il sovrintendente pretende che, prima di ogni esecuzione, il condannato sia vestito con un abbigliamento signorile e successivamente fotografato, in modo da dimostrare, attraverso la stampa nazionale ed estera, che “i briganti” appartengono anche alla classe borghese e che non tutti sono degli straccioni”.

– “…Ed allora iniziamo dal Pagliuca!” – gli risponde di getto il giudice a latere.

– “Ben detto… iniziamo proprio da lui!” – conclude il Presidente. Pertanto dà ordine ad un carabiniere di prendere dal magazzino quanto occorre per vestire il condannato, come richiesto dall’ordinanza.

-“Ehi, ragazzo, oggi t’agghindiamo a festa… sei fortunato, figliolo!…” – dice con molta ironia l’uomo – “…Su, tìrati su… Ti vesto da capo a piedi… Ti faccio bello e poi usciamo per il paese a fare una passeggiata. Intanto tira fuori quei luridi e puzzolenti stracci e inizia ad indossare questi mutandoni, poi metti anche i pantaloni”. Pasquale non capisce, è frastornato… Però l’idea di vestirsi a nuovo gli piace. Dopo aver indossato anche il camiciotto, il ragazzo chiede al militare se sia possibile riavere i suoi scarponi. Pasquale è accontentato. Inoltre, gli viene data una giacca un po’ larga ma profumata e nuova. Per ultimo, il carabiniere gli porge un cilindro ed uno specchio in cui rimirarsi. Pasquale non crede ai suoi occhi. È però ancora dubbioso e sconcertato.

-“Giovinò, siamo pronti?…” – conclude con molto sarcasmo il militare – “… Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria. C’è un sole meraviglioso e due fotografi sono pronti ad immortalarti per l’eternità… C’è anche una parata di militari!… Tutto solo per te!”.

Pasquale è ancora di più disorientato, non riesce a farsi una ragione di ciò che gli sta accadendo. Si riguarda nello specchio e s’accorge di essere diventato un bel ragazzo.

Poi pensa e dice fra sé e sé: “Chissà se fuori non incontrerò Maria Gerarda?”. Esce scortato da sei militi, che si dirigono al centro del paese. Appena arrivati nella piazza principale, Pasquale nota una decina di militari armati di fucile, disposti uno accanto all’altro, e due fotografi che si trovano rispettivamente ai lati. C’è anche della gente, tanta gente, che è stata “obbligata” ad assistere a quell’indecente spettacolo. Tutti, però, sono tristi e bisbigliano tra di loro. Di fronte ai militari, a non più di dieci metri, c’è una sedia, poggiata ad un muro e un prete accigliato che prega a voce sommessa. Ora Pasquale capisce ogni cosa. Prende il cilindro e lo lancia per aria, urlando qualcosa di indecifrabile in dialetto lucano; poi, in preda ad un’irrefrenabile convulsione, si leva da dosso la giacca e la camicia, si strappa i pantaloni e i mutandoni, ma gli scarponi, no, quelli sono suoi. E poi urla ai presenti: “Voglio morire nudo, come mi ha fatto mammà!”. Alcuni militari lo bloccano e lo legano alla sedia, lui si dimena. Il prete, in lacrime, gli unge la testa con gli oli sacri e, allontanandosi, continua a pregare a testa bassa. In un ultimo momento di lucidità, il ragazzo trova la forza di esternare alcuni pensieri.

“San Nicola mio, aiutami tu!… Maria Gerarda, ti amoooooo!”. E si mette a piangere.

Una scarica di proiettili lo investe in pieno, ma solo sette arrivano a segno. Tre militari, forse perché meridionali, hanno preferito non colpirlo.

Questa triste storia è solo una delle tante accadute nel Meridione d’Italia durante i primi dieci anni di Unità. Ve ne sono altre, alcune note, ma tante subito dimenticate. Ce ne sono a centinaia, a migliaia, per descrivere le quali non basterebbero alcuni corposi volumi. Fra le più eclatanti voglio ancora una volta ricordare le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, che mai, in tanti di anni di storia, sono state ricordate dalle istituzioni pubbliche, se non da quelle locali. Come se quei morti fossero diversi da quelle anime innocenti che perirono a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzena, a Cefalonia, alle Fosse Ardeatine o nei campi di sterminio! La differenza, sta nella diversa nazionalità di chi commise quelle efferate esecuzioni. Nel primo caso furono gli stessi italiani ed i morti vennero immediatamente dimenticati, nel secondo furono i tedeschi ed i morti sono ogni anno ricordati. Quanto è strana la vita!… Un giovane pastorello, tradito da un paio di scarponi che mai avrebbe immaginato di calzare, se non si fosse innamorato di una bella ragazza.

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LA REPUBBLICA UNIVERSALE DI FILADELFIA

Questa storia è un pezzo del risorgimento che è noto a pochi per vari motivi, il primo sempre lo stesso che i fatti che accadevano nel nostro sud dovevano essere nascosti in quanto eravamo terra di conquista e secondariamente in questa “strana” storia erano coinvolti personaggi importanti per l’epoca capaci di creare un notevole scalpore e di riaccendere la scintilla sulle povere popolazioni meridionali ad atti di rivolta sociale definiti “brigantaggio” dalle truppe di occupazione!

Dopo l’Unità, diversamente da molti suoi compagni di lotta, Raffaele Piccoli, non si integrò nel nuovo regno, rimanendo coerentemente repubblicano, così nel maggio del 1870 partecipò all’insurrezione repubblicana nella cittadina calabrese di Filadelfia assieme a Ricciotti Garibaldi. L’insurrezione non ebbe successo e Piccoli riparò a Malta. Processato in contumacia, gli venne revocata la pensione attribuitagli come veterano dei Mille, unica fonte di sopravvivenza. Tornato in patria nel 1880, in miseria si tolse la vita a Catanzaro.

Era il 7 di maggio del 1870, gli insorti di Filadelfia ispirandosi agli ideali mazziniani issarono la bandiera repubblicana, ma la popolazione già troppo scossa dalla recente conquista unitaria causa di tanti lutti e sofferenze subite dai fratelli italiani, non partecipò all’insurrezione che doveva portare più giustizia proprio tra i poveri ed ignoranti contadini.

Siamo all’indomani dell’Unità d’Italia, l’insorgenza del brigantaggio è stata da poco debellata. Mazzini, sempre esule, avanti negli anni e provato nello spirito, non ha completamente deposto le speranze di riannodare il filo della cospirazione. Spera di accendere il fuoco della rivolta soprattutto nel Sud, dove, a tanti anni di distanza dagli sfortunati tentativi del Pisacane e dei fratelli Bandiera, il malcontento creato dalla tassa sul macinato, dalla coscrizione obbligatoria e dal prepotere dei ceti proprietari avevano fatto rifluire le speranze che l’unificazione aveva suscitato nelle popolazioni. I suoi seguaci passeranno all’azione nella primavera del 1870 nell’Italia centrale, in Sicilia e nella provincia di Catanzaro (i cosiddetti “fatti di Filadelfia”, a cui partecipò anche il figlio di Garibaldi, Ricciotti, assieme a molti Girifalcesi e Cortalesi). Del primo episodio abbiamo una intensa rievocazione filmica in “San Michele aveva un gallo” dei fratelli Taviani, del secondo è possibile rinvenirne traccia nella letteratura contemporanea, “Il birraio di Preston” di Camilleri: entrambe queste fonti potranno essere utilizzate per introdurre alla lettura dei documenti che riguardano gli avvenimenti. L’argomento è poco noto anche all’interno della ristretta cerchia degli specialisti, ulteriore segno dell’indebolimento della memoria collettiva e della debolezza degli studi storici calabresi: se ne occuparono in passato due studiosi di valore, Pavone negli anni ’50, Alatri nel 1970 ed è stato più recentemente ripreso in un pregevole lavoro di Michele Rosanò. Il saggio di P. Alatri, “Il moto repubblicano del 1870” potrà essere usato per una ricostruzione generale degli avvenimenti, mentre dallo studio di C. Pavone sulle “Bande insurrezionali della primavera del 1870” si potranno estrarre i documenti sulle bande calabresi, soprattutto le relazioni inviate al governo dei militari incaricati di sedare il moto da cui emerge una acuta descrizione della realtà sociale delle nostre contrade paragonabile a quella contenuta nella relazione Massari sul brigantaggio. Dalla lettura di alcune pagine del libro di Michele Rosanò, “I moti repubblicani del 1870 nella provincia di Catanzaro”, si potranno ricavare preziose informazioni sulla Girifalco e sulla Cortale del tempo mentre lo scritto di Antonio Cefaly del 1880, “Sulle condizioni dell’agricoltura e delle classi agricole nel mandamento di Cortale”, fornirà una vivida descrizione delle condizioni materiali di vita dei nostri antenati. Queste sequenze dimostrano che la storia locale non è una disciplina minore, ma è necessariamente legata alla storia generale: l’una e l’altra si integrano e si completano a vicenda. La “Repubblica di Filadelfia (4 maggio 1870), durata tre giorni. La sollevazione popolare fu guidata da Ricciotti Garibaldi che si pose alla testa di un moto antigovernativo in cui confluirono filoborbonici, briganti e cattolici. La rivolta partì da Curinga, dove fu proclamato il governo provvisorio repubblicano. A Filadelfia nel contempo veniva proclamata la Repubblica Universale. Il sogno utopico svanì presto e i rivoltosi furono sconfitti a Cortale dalle truppe regie e il figlio di Garibaldi, dopo essersi battuto strenuamente, riuscì a sfuggire alla cattura. Per molti il termine “tamarro” è un’ingiuria, ma in questa parola, come in altre, si denominano le classi rurali calabresi che seppero con orgoglio, lavoro e sacrifici combattere la malaria e le incursioni saracene. II popolo contadino, legato alla propria terra e alla propria cultura, diede la caccia ai giacobini e fece la fortuna dei baroni, proprietari terrieri, i cosiddetti “gnuri”. Un popolo che rifiutò la piemontesizzazione dei propri costumi per ribadire la propria identità e specificità contro la forzata colonizzazione dei nuovi conquistatori, pagando con la vita la sua ribellione.

Il Conte Carlo Plutino, nei primi anni del XIX secolo, fu uno degli imprenditori più innovativi. Nelle sue tenute di Archi aveva allestito un sistema integrato di aziende agricole intorno alle colture specializzate, attuando un sistema di canalizzazione delle acque dei sette fiumi del territorio. Inoltre, nel reggino esistevano 102 filande che davano occupazione ad oltre 3.000 operai, soprattutto donne. Mastri scalpellini e intagliatori, artigiani, lavoratori tessili che producevano panni e abiti ricercati anche dal poeta D’Annunzio, davano lustro e ricchezza alle nostre contrade. Esistevano una borghesia e un clero, in cui galantuomini, canonici ed abati diedero sviluppo allo spirito associazionistico attraverso confraternite, logge e società di mutuo soccorso al servizio del progresso del popolo. Per un territorio come Archi, queste ricostruzioni di microstoria sono anche un riferimento civile per quei giovani che guardano alla terra dove vivono come un quartiere attualmente in degrado. Questa “Storia” può rappresentare un’eredità, un richiamo alla memoria storica di un mondo con le sue tradizioni, le sue specificità e identità scomparse per l’ignoranza e l’incuria degli uomini. Una storia così nobile, cancellata da cataclismi, rovine e violenze non può essere dimenticata, ma va invece rivalutata e rivissuta nelle scuole, nella toponomastica, ma, soprattutto, nella coscienza civile dei suoi abitanti. (citazione di Daniele Zangari).

L’ANTEFATTO

Nel 1861 si ritrovarono a Londra Bakunin, Mazzini, Garibaldi e Luigi Kossuth, i quali convennero sulla necessità di un’azione immediata,data la situazione in cui versava l’Italia, lontana dal rigore morale del pensatore genovese, con Firenze e non Roma capitale, e con una società disuguale, nella quale le masse agricole meridionali vivevano di stenti e di umiliazioni. Si ignora se in tale incontro maturò un comune programma di lotta, ma a Catanzaro, dopo la fondazione da parte del Mazzini, nel 1866, dell’Alleanza repubblicana universale, i principi bakunisti e le aspirazioni mazziniane vennero unitamente propagandate da Raffaele Piccoli e da Giuseppe Giampà, quest’ultimo direttore del giornale “La luce calabra”, entrambi persuasi dell’urgente presa di coscienza da parte dei contadini, per la realizzazione di una società organizzata in forma repubblicana, nella quale gli uomini fossero liberi e senza classi, riuniti in un fraterno consorzio umano, senza costrizione alcuna.

LA STORIA

Approfittando del trasferimento, a seguito di promozione, del duca di Vastogirardi, prefetto di Catanzaro, alla sede di Trapani in data 28 febbraio 1868, il Giampà, richiesta ed ottenuta l’adesione di Ricciotti Garibaldi, preparò l’insurrezione armata, scegliendo come zona di reclutamento Curinga, Cortale, Filadelfia e Maida. Ai primi di maggio i congiurati raggiunsero Maida e Curinga, dove, secondo un cronista dell’epoca, trovarono gli appoggi necessari ed i rinforzi sperati. Il sei maggio la truppa mosse per Filadelfia, scelta quale sede del quartiere generale, sia per i precedenti del 1948 e del 1860, sia per gli appoggi di un certo potentato economico locale, di matrice garibaldina e borbonica. Il quartiere generale venne posto nel palazzo Serrao, i cui proprietari militavano nel fronte politico progressista e governavano il Comune con Bernardo Serrao, reduce dal Volturno, sindaco. Venne emesso uno statuto e battuta la moneta repubblicana. La truppa regia, però, arrivò improvvisamente dal Timpone alle ore sette dell’otto maggio, guidata da un brigadiere dei Carabinieri, alla testa del 63° fanteria regia. Mancò il tempo a Ricciotti Garibaldi ed a Giampà di organizzare la resistenza. I seguaci del movimento, tutti giovani contadini poco abili nel maneggio delle armi da fuoco, furono irrimediabilmente sconfitti, ventiquattro elementi vennero catturati compreso il Giampà, mentre Ricciotti Garibaldi nascosto in un primo tempo nella palazzina dei Serrao in località “Curti”, veniva catturato a Pizzo e rinchiuso nel castello Murat. (Questa fonte cita l’arresto di Ricciotti, ma quando conosceremo la vera storia?) Quindi la Repubblica abortì sul nascere e probabilmente per il tradimento da parte dei notabili ed il voltafaccia venne proprio dal miglior amico di Ricciotti, Don Fazzari. L’ex Garibaldino dichiarava di trovarsi a Napoli e di non conoscere questo movimento Repubblicano. Ricciotti lascia la Calabria per la Francia finisce così senza Briganti al fianco di Ricciotti questo episodio durato solo pochi giorni. Debellato il “brigantaggio” non poteva essere riesumato.

Represso il brigantaggio con ogni genere di rappresaglie e la criminalizzazione di intere comunità, il malcontento delle popolazioni non scomparve in quanto rimasero le cause che lo avevano determinato. Un ultimo sussulto di protesta contadina e di opposizione al nuovo governo piemontese ci fu con la repubblica di Filadelfia (1870). Nei giorni 6 e 7 maggio 1870 in un’ampia zona che abbracciava i comuni di Maida, Cortale, Curinga e Filadelfia e altri centri vicini dei distretti di Nicastro e di Monteleone, scoppiò un moto rivoluzionario con evidenti risvolti bakuninisti.

Ricciotti Garibaldi

Lo scopo era quello di instaurare la repubblica secondo l’ideale dell’Alleanza repubblicana universale, creata da Giuseppe Mazzini, che aveva trovato una rapida diffusione nell’Italia meridionale e in Calabria. La rivolta fu organizzata, appunto, da uno di questi comitati, guidato dall’avvocato Giuseppe Giampà, già garibaldino, direttore del giornale di ispirazione repubblicana ‘La luce calabra’, sottoposto a numerosi sequestri per l’arditezza delle sue idee in quanto pubblicava articoli contro il re e la monarchia. Capo supremo delle forze repubblicane col titolo di generale era il figlio di Garibaldi, Ricciotti, il cui ruolo, insieme a quello degli altri intellettuali mazziniani che guidarono il movimento, non fu certamente all’altezza della situazione. La rivolta ebbe come epicentro Filadelfia, con massiccia partecipazione contadina e operaia. Abortì però sul nascere a causa del tempestivo intervento dell’esercito regio (8 maggio) che sparò anche contro gente inerme tra cui i fedeli che rientravano dalla messa mattutina celebrata nella chiesa di S. Teodoro. Ci furono dei feriti (tra cui 7 donne) e anche due morti: un muratore di 43 anni (Michele Serraino) e un giovane contadino di 19 anni (Vincenzo Dastoli). Altri contadini furono arrestati insieme con il Giampà. Si parlò immediatamente di tradimento di quei notabili locali di matrice garibaldina che avevano promesso il loro appoggio, ma che invece si tirarono indietro appena si resero conto che lo spirito dell’insurrezione, proprio per la larga partecipazione contadina e operaia, avrebbe messo in discussione i loro consolidati interessi e soprattutto il diritto di proprietà, anche se nel proclama firmato da Giampà si sostenevano il rispetto e la conservazione dell’ordine, la tutela della libertà, dell’onore, della vita e della proprietà di ciascuno. Il moto fallì per varie cause: approssimativa preparazione politica, equivoche intese con circoli ed esponenti filoborbonici, capi che non riuscirono a pervenire ad una chiara impostazione del problema. Tuttavia, anche se fallì sul piano pratico e pur rimanendo circoscritto nella sola zona di svolgimento, il moto repubblicano di Filadelfia contribuì certamente a scuotere la stagnante rassegnazione e a favorire una prima presa di coscienza del proprio ruolo da parte di operai e contadini, dopo secoli di passiva accettazione del proprio destino.

Raffaele Piccoli, il patriota deluso. Lasciò la vocazione religiosa per dedicarsi totalmente al processo risorgimentale, dal quale rimase profondamente deluso, subendo alla fine anche l’onta di essere dimenticato da tutti. Piccoli è deluso dalla svolta reazionaria e omicida del neonato governo italiano. Rifiutate cariche politiche e rimasto coerentemente repubblicano, si mise alla testa di un gruppo di briganti per scacciare gli “invasori sardo-piemontesi”. Poi tenta, nel 1870, di dar vita ad una repubblica nel paesino di Filadelfia (VV), assieme a Ricciotto Garibaldi e a Giuseppe Foglia, stroncata però dopo pochi giorni. Costretto all’esilio e condannato in contumacia, ripara sull’isola di Malta, da dove poi rientrerà in Calabria. Ritornato, si ritroverà in misera in quanto gli verrà ritirata la pensione che gli spettava da ex garibaldino. Isolato e ignorato da tutti, morirà suicida in un albergo a Catanzaro il 27 agosto 1880.

CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER BORBONICI

Dopo la caduta repentina dell’ormai consunto apparato borbonico, minato, per di più, da tradimenti e defezioni, specialmente nelle alte sfere governative e dell’esercito, il neonato governo sabaudo si trovò, tra le altre cose, a dover fare i conti con una massa davvero ingente di militari napoletani sbandati. L’esercito borbonico, infatti, con un provvedimento che ben presto dimostrerà tutta la sua inefficacia, era stato sciolto e in tanti si erano trovati disperati e senza lavoro. Né le varie campagne di arruolamento varate dal governo piemontese si rivelarono fruttuose: nelle ripetute chiamate alle armi, infatti, si registrò, sempre e comunque, un altissimo numero di renitenti. Il contadino meridionale proprio non se la sentiva di prestare servizio militare sotto una bandiera che non riteneva sua. E, soprattutto, non reputava giusto andare a combattere, per lunghi anni, in luoghi lontani, abbandonando la terra e la famiglia, al servizio di una dinastia regnante che si esprimeva, peraltro, in una lingua che lui proprio non riusciva a capire. Così, in pochi mesi, a quei militari che erano stati fatti prigionieri nel corso degli eventi bellici della seconda metà del 1860 e a quelli delle fortezze che avevano resistito ad oltranza all’assedio dei piemontesi, si aggiunsero tutti coloro che, per non sottostare alla leva obbligatoria, dopo essersi rifugiati sulle montagne trasformandosi in briganti, erano stati catturati nel corso dei vari rastrellamenti. Un numero davvero ingente di prigionieri, difficilmente quantificabile con matematica precisione: di certo, però, essi ammontavano a parecchie decine di migliaia. Il governo sabaudo, trovandosi di fronte ad una vera e propria emergenza che rischiava di esplodere da un momento all’altro (tutto il meridione era, infatti, infiammato dalla rivolta brigantesca), in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane e insufficienti carceri del sud Italia. Subito dopo, però, intuendo la pericolosità della situazione, escogitò un “piano di evacuazione” trasferendo, specialmente via mare, gli ex soldati napoletani al Nord, lontano, quindi, dai focolai di rivolta. Il porto di arrivo dei bastimenti carichi di prigionieri era soprattutto Genova: da qui subito venivano smistati nelle varie località di destinazione. Le principali erano: Fenestrelle, piccola località della valle del Chisone, ad un centinaio di chilometri da Torino, dove esisteva una imponente fortezza; San Maurizio Canavese, alle porte di Torino; e poi Alessandria, Milano, Bergamo e così via di seguito. Qualcuno fu anche rinchiuso a Genova, nel forte di San Benigno. Migliaia di altri meridionali, poi, dalla variegata composizione (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi), vennero confinati in varie isole della Penisola: Gorgona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza. Più di 12.000, soprattutto ufficiali e veterani borbonici, che si erano rifiutati di continuare la loro carriera militare nell’esercito sabaudo, furono trasferiti in Sardegna, sulle isole napoletane o nella Maremma toscana, sottoposti al regime del domicilio coatto, come prevedeva la famigerata “legge Pica”. Nei campi di raccolta e nelle prigioni costrette ad accogliere molte più persone di quante ne potessero contenere, le condizioni igienico-sanitarie e ambientali in genere, erano disastrose e, molto spesso, ben al di là di ogni decenza. Non a caso, riferendosi a tale situazione, “Civiltà Cattolica”, in quel periodo, così scrive: “Negli Stati sardi esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Finestrelle; un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio…”. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, tenuti senza cibo e acqua per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti ostinatamente fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre sconosciute, fredde, in campi di concentramento inospitali e, soprattutto, lontano dai loro affetti e dai loro cari. Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e il disagio e così decidevano di mettere fine alla loro grama esistenza ricorrendo al suicidio e gettandosi in mare. La circostanza è attestata da un altro giornale dell’epoca, “L’Armonia”, che così scrive: “A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi”. Per quelle migliaia e migliaia di sventurati, quindi, si prospettava una esistenza difficile e assai problematica. Così, al riguardo, ancora “Civiltà Cattolica”: “Per vincere la resistenza dei prigionieri in guerra, già trasportati in Piemonte o in Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Finestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno”. Da queste testimonianze inequivocabili si puó comprendere quale fu la sorte che il governo piemontese volle riservare ai soldati e ai contadini napoletani che, nel breve volgere di pochi mesi, in maniera repentina, avevano visto dissolversi, come neve al sole, la loro amata patria. Sulla “Gazzetta di Napoli” del 5 dicembre 1862 è riportata una petizione di un gruppo di detenuti napoletani indirizzata al deputato Ricciardi affinché potesse riferire in Parlamento la infima e pietosa situazione delle carceri di Napoli che, poi, era pressoché identica a quella delle altre dislocate, in lungo e in largo, sul territorio della Penisola. Attenzione al dato temporale: siamo, infatti, alla fine del 1862, a quasi due anni, quindi, dall’avvenuto processo di annessione del meridione al resto d’Italia. “Signori, in nome dell’umanità supplichiamo giustizia per poveri chiusi in questo serraglio di Napoli come tante fiere. Da che è venuto il soprintendente de Blasio credevamo d’essere trattati meglio; ed invece stiamo peggio di prima. Questo superiore ha organizzato una camorra spaventevole. Pochi favoriti e favorite hanno il letto, e la maggior parte dei poverelli reclusi sono ignudi e cenciosi, pieni di pidocchi, sulla paglia.. Quel poco di pane nerissimo e quel poco di polenta che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva a quattro o cinquecento al giorno; e se qualcheduno parla, o minaccia di ricorrere, è attaccato di mani e piedi per più giorni. Varii infelici compagni, risentiti del mal governo, sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto, ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato col sangue; e molti altri non si trovano più né vivi né morti. È una barbarie, Signori. Per Maria Vergine, metteteci la vostra mano; liberateci da questa setta di ladri. Il soprintendente de Blasio è un cane che divide con gli altri. Noi non abbiamo a chi ricorrere, né ci azzardiamo a ricorrere per non soffrire peggio. Se sapessero chi ha scritto questa carta, sarebbe ucciso, come capitò ad un altro povero giovinotto, che ricorreva ai superiori contro le infamità loro. Non posso riferirvi tutto ciò che si conta… dovrebbero parlare le muraglie! Tanto sperano i poveri del serraglio, e l’avranno a grazia… ”. E, come questa, di crude testimonianze su ciò che accadeva nelle prigioni del Regno d’Italia, in quel drammatico decennio (1860-1870), se ne possono riportare tantissime. Ma il tenore è sempre lo stesso. Ciononostante, pur costretti a subire una prigionia atroce, nella gran parte dei casi, essi seppero conservare un contegno e una dignità sorprendente, difficile da riscontrare in gente così semplice, di poca o nessuna istruzione, abituata, da sempre, a servire la patria e a chinare ogni giorno la schiena nel duro e a volte assai poco redditizio lavoro nei campi. Infatti, pur allettati da proposte ammalianti, in pochi decisero di entrare nell’esercito piemontese, specialmente per non venire meno a quel giuramento di fedeltà prestato al momento dell’arruolamento nelle forze armate di sua maestà borbonica. Tanti, anzi, quasi tutti, preferirono affrontare il duro e disumano regime carcerario, gli stenti, le umiliazioni, i maltrattamenti, i morsi della fame e della sete, le malattie e, persino, la morte, pur di non chinare la testa di fronte a quelli che consideravano solo crudeli usurpatori. Sempre “Civiltà Cattolica” racconta un episodio assai indicativo al riguardo: un avvocato e un ufficiale dell’esercito, un giorno, si recarono presso una prigione di Milano per visitare i reclusi napoletani e, soprattutto, per cercare di convincerli ad abbracciare la causa sabauda, arruolandosi nell’esercito piemontese. Ma quelli, i prigionieri, “recatisi in atteggiamento nobilmente altiero, che faceva singolare contrasto coi cenci ond’erano coperti, risposero recisamente: ‘Uno Dio ed uno Re…”. Con il passare dei mesi gran parte degli ex soldati napoletani vennero trasferiti nei lager dell’Italia settentrionale. In tal modo i governanti piemontesi speravano di aver risolto definitivamente il problema: avevano, infatti, allontanato dai focolai della rivolta migliaia e migliaia di persone, tenendoli distanti dai briganti che stavano infiammando con la loro sollevazione armata tutta la parte meridionale della Penisola. Non avevano però considerato un altro problema che, ben presto, si presentò come impellente e difficilmente risolvibile: i prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord, con il trascorrere del tempo, erano diventati in numero così ingente da rendere impossibile o quasi il mantenimento dell’ordine pubblico. Un po’ dappertutto, nelle prigioni, scoppiavano rivolte, sommosse, tentativi di fuga che a stento venivano repressi nel sangue, dalle poche truppe preposte alla sorveglianza. Persino nell’austera fortezza di Fenestrelle vi era stato un ammutinamento da parte di una cinquantina di prigionieri napoletani che avevano tentato di impadronirsi della stessa. E più o meno la medesima cosa si era verificata nel campo di San Maurizio, alle porte della capitale sabauda. La situazione per i piemontesi non era affatto semplice: non si puó ignorare, infatti, che, in quel periodo, gran parte degli effettivi dell’esercito sabaudo si trovava dislocata nell’Italia meridionale, nel tentativo di soffocare la rivolta brigantesca che si faceva sempre più audace. Basti pensare che nell’inverno 1862-63 il VI Gran Comando di Napoli che dirigeva le operazioni contro il brigantaggio, poteva disporre di 17 reggimenti di fanteria, 51 reggimenti di granatieri, 22 battaglioni di bersaglieri, 8 unità di cavalleria, oltre ad artiglieria e genio, per un totale di oltre 105.000 uomini. E allora cosa ti inventa la fervida mente dei governanti sabaudi? Una sorta di “soluzione finale” che ricorda molto da vicino quella che, qualche tempo più tardi, rese tristemente famoso Hitler e i gerarchi nazisti. Nel tentativo di sgombrare le prigioni del Regno da quella massa pericolosa di ex soldati borbonici, renitenti alla leva, nostalgici, prigionieri politici, briganti o pseudo tali, si pensò bene di “sistemarli” in un posto dove non avrebbero dato più fastidio. Il progetto era quello di riuscire ad ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno. Per fortuna, però, i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto. Nel novembre del 1862 l’ambasciatore italiano a Lisbona, tale Della Minerva, relazionando al ministro degli Esteri Durando che seguiva da vicino il progetto, così scriveva: “… la divulgazione di un dispaccio telegrafico… ove si parla… di un negoziato fra l’Italia e il Portogallo per la cessione di un’isola dell’Oceano al fine di deportarvi i galeotti, ha suscitato una tale ripugnanza nell’opinione pubblica e nella stampa che il ministero ha già fatto smentire questa notizia. Penso che per il momento sarà meglio soprassedere a questo progetto per potere avere più appresso una maggiore possibilità di successo”. Parole chiarissime che attestano, senza pecca, l’abnormità del progetto che persino l’opinione pubblica di un paese straniero, per niente coinvolto negli accadimenti italici di quel periodo, ebbe modo di considerare “ripugnante”. Ma se tale era il progetto per il governo portoghese, non così stavano le cose per i governanti piemontesi, sempre fermamente intenzionati a procedere con la “soluzione finale”, malgrado le grida di disapprovazione che si levavano sempre più alte in tutta Europa e, persino, in seno al Parlamento italiano. E così, qualche tempo dopo, nel 1868, dopo altri analoghi tentativi tutti infruttuosi, in un momento in cui, tra l’altro, la rivolta brigantesca era sul punto di esalare il suo ultimo sussulto, le grandi “menti” savoiarde tornano alla carica per sbarazzarsi, e in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nelle putride galere della Penisola. Questa volta Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, affidò ai suoi funzionari il compito di contattare la Repubblica Argentina. Era stata persino individuata la regione nella quale sarebbe dovuto sorgere lo stabilimento penale: la Patagonia, una landa desertica e inospitale che si prestava meravigliosamente alla bisogna. La scelta non era stata operata a caso. L’Argentina, infatti, aveva un debito di riconoscenza nei confronti del nostro paese dal momento che numerosi volontari italiani avevano preso parte alla guerra civile; senza dimenticare, poi, che Giuseppe Garibaldi, l’invitto capo dei Mille, aveva comandato, per qualche tempo, la flotta di quel paese. Ma, ancora una volta, il progetto naufragò prima ancora di nascere: alla fine del 1868, infatti, l’ambasciatore Della Croce comunicò a Menabrea la decisione del governo argentino di non poter venire incontro alla singolare richiesta italiana. Un po’, sicuramente, per non consentire l’ingerenza di un altro stato su un territorio che apparteneva alla nazione argentina; e poi, aggiungiamo noi, per non andare incontro alla generale disapprovazione dell’opinione pubblica, come già era accaduto, del resto, qualche anno prima, al tempo dei contatti italiani con il governo portoghese. E così, nonostante gli sforzi e i reiterati tentativi, la questione rimase irrisolta. Le migliaia e migliaia di prigionieri napoletani rimasero stipati nelle luride carceri italiane in condizioni di vivibilità disumane e raccapriccianti.

Difficile, se non impossibile, stabilire con precisione il numero di meridionali coinvolti in questa massiccia ondata di deportazione verso l’Italia settentrionale. Le cifre sono ballerine e fanno riscontrare, a volte, differenze anche sensibili. Si possono, però, fissare dei paletti o, meglio, dei parametri numerici ben precisi e quindi, movendosi all’interno di essi, argomentare il ragionamento con discreta possibilità di fare, più o meno, centro. Tenendo presente, ovviamente, che le cifre di cui daremo conto non si riferiscono solamente ai prigionieri indirizzati verso il Nord ma, più in generale, ai meridionali che ebbero la sventura di transitare nelle orride carceri della Penisola dopo il 1860. Nel gennaio del 1861, riprendendo fonti del ministero della guerra, il già citato giornale “L’Armonia” parla di 1.700 ufficiali borbonici prigionieri e 24.000 militari di truppa. A questi vanno aggiunti i soldati catturati dopo la capitolazione delle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto che raggiungevano, più o meno, il numero di 17.000. E poi le migliaia di soldati sbandati che alla fine delle ostilità si trovarono di colpo senza lavoro: di essi molti ritornarono a casa cercando disperatamente di trovare un’occupazione o un campo da coltivare per mandare avanti la famiglia; tanti altri, invece, salirono sulle montagne, si diedero alla macchia e si trasformarono in briganti. Per dare anche qui dei riscontri numerici veritieri, basti ricordare che nel 1860, nel momento in cui Garibaldi compie la sua mirabolante impresa “volando” da Quarto al Volturno, l’esercito napoletano di Francesco II di Borbone, poteva contare su ben 97.000 uomini! Per non parlare, poi, dei moltissimi renitenti alla leva che alimentarono, per anni, il brigantaggio nel sud d’Italia. Anche qui i numeri risulteranno molto più significativi di qualsiasi commento. Nel gennaio del 1861 la chiamata alle armi, organizzata in tutta fretta dai governanti piemontesi nelle province meridionali (si aveva un disperato bisogno di impinguare l’esercito per non correre il rischio di sguarnire pericolosamente altri fronti caldi, specie nel nord Italia), fruttò soltanto l’arruolamento di 20.000 persone mentre negli elenchi della leva ne erano iscritte più di 72.000. Ciò significa che oltre 50.000 meridionali disertarono, imboccando, nella gran parte dei casi, una strada che li conduceva al di fuori della legalità. Infine, in tale elenco, per forza di cose incompleto e lacunoso, vanno inseriti tutti coloro che incapparono nei rigori della legge Pica che, varata dal governo sabaudo il primo settembre del 1863, restò in vigore fino al 31 dicembre 1865. Tra le altre misure particolarmente spietate nei confronti dei briganti o presunti tali (molti, soltanto in base ad un sospetto o a un determinato tipo di abbigliamento, vennero sommariamente fucilati sul posto), si dava al governo la possibilità di assegnare a domicilio coatto, per un tempo non inferiore ad un anno, oziosi, vagabondi, sospetti, manutengoli e camorristi. Ciò comportò che, in quel tempo, una gran massa di poveracci, senza lavoro e di diseredati, finisse negli ingranaggi mostruosi e perversi di questo provvedimento, andando incontro a misure restrittive della libertà che, spesso e volentieri, non avevano ragione alcuna di essere.

Cercando di tirare le somme, quindi, furono decine e decine di migliaia i meridionali che incapparono nei metodi repressivi dei piemontesi, sempre più desiderosi di normalizzare con le buone ma, soprattutto, con le cattive, una situazione che rischiava di sfuggire loro di mano. Molti, anzi, moltissimi di essi furono trasferiti come bestie nel nord Italia dove vennero ammassati, senza ritegno, nei centri di raccolta, nei campi di concentramento, una sorta di “lager” ante litteram. E se la “soluzione finale” escogitata dal governo sabaudo in un’isola sperduta dell’Atlantico o nella inospitale Patagonia, non andò in porto, fu soltanto perché qualcuno, intuendo l’abnormità della richiesta, pensò bene di opporvisi. E costoro non furono, di certo, i governanti della neonata nazione italiana. Eppure, nei loro proclami, riferendosi ai napoletani, li chiamavano “fratelli”! Ecco, quindi, delineata, sia pure per sommi capi, una triste vicenda che per tanto, troppo tempo, è stata completamente rimossa dalla storiografia ufficiale, sempre più smaniosa di far risaltare l’inclita epopea risorgimentale. Questa sistematica operazione di “damnatio memoriae” che storici compiacenti e partigiani hanno messo in atto con ferrea determinazione e inappuntabile dedizione, non ha tenuto conto, però, della esigenza di verità che accompagna ogni umano anelito. E così ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica politica e di schieramento, desiderosi di far conoscere e di rendere note vicende sepolte ad arte sotto la densa polvere del tempo, hanno, pian piano, scalfito quella dura e quasi impenetrabile corazza, iniziando ad estrapolare dagli archivi documenti inequivocabili che aspettavano soltanto di essere tirati fuori e di essere letti con rigorosa obiettività. È venuta fuori, in tal modo, un’altra storia, una storia diversa, inedita, sorprendente, forse meno fulgida di quella ufficiale, sicuramente ancora poco conosciuta, considerata di serie B, ma che, nonostante tutto, inizia a farsi largo un po’ dappertutto, persino negli ingessati “sancta sanctorum” del mondo accademico, ancora troppo sospettoso di fronte a realtà che sfuggono al suo rigoroso controllo. Tali documenti, tali carte, parlano chiaro e, soprattutto, possiedono una forza, un’energia che non sarà facile debellare né piegare a perniciose logiche di parte: quella della verità, verità che per tanto tempo è stata negata, bandita e che, invece, ora, sempre più prorompente e inarrestabile, sgorga copiosa e cristallina. Qui non si vuole mettere in discussione alcunché né sminuire la tempra di personaggi che hanno fatto la storia del nostro Paese e che, proprio per questo, meritano imperituro rispetto e ammirazione. Né si sente il bisogno di inseguire sogni nostalgici o anacronistiche restaurazioni. Si tratta, invece, di raccontare gli accadimenti così come si sono verificati, di piegarsi alla realtà dei fatti senza avere più timore di soffermarsi su episodi che oggi possono apparire anche spiacevoli o discutibili. È questa la vera forza di un paese, questa la più pura connotazione di una democrazia che aspira a definirsi compiuta.

Furono circa 30-40 mila i soldati napolitani catturati e deportati in campi di prigionia in nord Italia. Tra i primi vi furono quelli della guarnigione di Capua, imbarcati a Napoli, sbarcati a Genova e da lì trasportati in treno fino a Pinerolo. Erano destinati alla fortezza di Fenestrelle, un complesso fortificato di tre forti e sette ridotte ai confini con la Francia che arriva fino alla quota di 1800 metri. Sui 1300 prigionieri circa del primo contingente partiti da Napoli, ne giunsero a Fenestrelle la sera del 9 novembre 1860 solo 1186, dopo una lunga marcia sulle tortuose strade alpine (che fine avevano fatto gli altri?). Di questi, uno morì subito e 178 furono ricoverati in cattive condizioni in ospedale, dove ne morirono altri quattro. Erano uomini in uniformi leggere e lacere, affamati, prostrati dall’assedio, dal lungo viaggio e da una navigazione di tre-quattro giorni stipati sottocoperta come schiavi, detenuti nei freddi cameroni della fortezza alpina. Un articolo della rivista dei gesuiti “La civiltà Cattolica” pubblicato nel 1861 descrisse le condizioni di vita di quei prigionieri, parlando di uomini stremati dalle fatiche, nutriti con mezza razione di pane e con una ciotola d’acqua sporca chiamata minestra dall’ufficiale di rancio della fortezza: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano[…] Quei meschinelli coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar dì fame e di stenti tra le ghiacciaie».

Le vicende dei campi di deportazione dei soldati napoletani e pontifici all’indomani della campagna per l’Unità, rappresentano un’altra tessera – completamente rimossa della memoria e dagli archivi – che serve a svelare il vero volto del Risorgimento. Argomento fastidioso per il buon nome del nostro paese e dei suoi padri fondatori, sottaciuto per decenni, definito “revisionismo-spazzatura” o, a proposito di chi critica gli autori dell’Unità italiana, si è parlato di “patologie autolesioniste”, tanto fastidioso che generando una controversia sulla fortezza tristemente famosa che hanno fatto scomodare il prof. Alessandro Barbero per smentire le ricerche effettuate. Ma lo storico ha dimenticato che la verità purtroppo viene sempre a galla: “Lo studio sulla storia dei prigionieri napolitani dei Savoia realizzato dal professore Giuseppe Gangemi dell’Università di Padova, il quale ha effettuato una minuziosa ricerca presso l’Archivio di Stato di Torino. Dopo aver analizzato migliaia di biografie e ruoli matricolari, è giunto a ipotizzare un numero impressionante di morti in prigionia: circa 16.000. Una tragedia non riconosciuta dalla storiografia ufficiale, emersa con una ricerca ostacolata dal dirigente dell’Archivio e dagli impiegati, è narrata nel saggio In punta di baionetta – 1860-1870: le vittime militari della Guerra Meridionale nascoste nell’Archivio di Stato di Torino. 

Deportazioni, l’incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari.
Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”. Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell’esercito borbonico e 24.000 soldati. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”.
(ricorda molto la scritta dei lager nazisti). Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l’astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione savoiarda. Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l’esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai “liberati” di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell’ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo “spirito del tempo”.

Una ricerca analitica sui caduti e sui prigionieri napolitani è stata realizzata dallo studioso Massimo Cardillo, il quale ha prodotto degli elenchi non definitivi. In questi, l’ultimo napolitano deceduto in prigionia a Fenestrelle risulta in data 01-01-1867. Ciò significa che la deportazione dei soldati, dei renitenti alla leva e dei disertori meridionali ebbe una lunga durata che si prolungò anche oltre la III guerra d’indipendenza. Le decine di migliaia di prigionieri napolitani furono detenute in vari campi, tra cui quello citato di Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Genova, Alessandria, Milano e altri. Qui subirono durissime pressioni da parte delle autorità savoiarde per accettare l’arruolamento nel nuovo Regio Esercito Italiano. Furono usati strumenti come il freddo, la fatica, la fame, la pressione psicologica, ma, nonostante ciò, furono migliaia quelli che rifiutarono, rispondendo «Uno solo Dio, uno solo Re, uno solo giuramento».

SE FENESTRELLE FU’ UNA VERGOGNA PER IL TRATTAMENTO ATTUATO DAI PIEMONTESI AI MILITARI BORBONICI LA DEPORTAZIONE E IL DOMICILIO COATTO DEI CIVILI MERIDIONALI FU’ UNA SCHIFEZZA DEGNA DEL NAZISMO!

Dopo il 1860 il carcere a Finalborgo (Finale Ligure) fu una opportunità irrinunciabile per la popolazione che sarebbe, così, rimasta in paese. La enorme macchina di deportazione al domicilio coatto attivata dopo la dichiarazione del Regno d’Italia da Silvio Spaventa ebbe l’effetto immediato di riempire tutti i luoghi di concentramento per i domiciliati coatti e di reclusione esistenti di ogni ordine e grado fino all’inverosimile tanto da doverne cercare dei nuovi. Alla fine del 1863 i numerosi luoghi di relegazione dei coatti approntati sulle isole Tremiti, Eolie, Pontine, Toscane, Sarde e Liguri: la Palmaria e la terraferma, inclusa Finalmarina, oltre a numerosi altri luoghi quale Andora, Porto Maurizio, queste le località, dove furono stipati i domiciliati coatti.

Civili mai giudicati e condannati da alcun tribunale erano inviati al domicilio coatto con determina ministeriale del ministero Interni, furono reclusi anche nei bagni penali, carceri giudiziarie, lazzaretti, locali e case locate a privati; negli atti parlamentari dell’epoca si parla di più di 70 luoghi di relegazione. Stando ai documenti dell’allora ministero dell’Interno la quantità è Imponente. Il numero di deportati oggi sarebbe rintracciabile nei documenti che furono inviati al ministero degli Interni dove, per Regio decreto n. 2918 del 21.05.1866 fu proseguita la misura di polizia dell’assegnazione del domicilio coatto. La deportazione era stata messa in atto a partire dal 15.08.1863 con l’art. 5 della cosiddetta legge Pica, fu proseguita con decreto n. 2918, nell’ art. 2 è sancito: Presso il Ministero dell’Interno è istituita una Giunta consultiva composta di tre magistrati per rivedere i pareri emessi dalle Giunte consultive provinciali.

A Finalborgo il 25 luglio 1863, un mese prima dal varo della legge 1409 del 15.08.1863 (legge Pica), sulla repressione nelle province meridionali, la giunta municipale stimò conveniente destinare a carcere l’ex convento di S. Caterina ed altri locali attigui. Il ministero dell’Interno s’era mosso in anticipo per individuare le strutture e l’apparato della relegazione inviando il geografo Felice Cardon in tutti gli arcipelaghi dove c’erano fortezze e castelli.

Il 25 luglio 1863 La Giunta Municipale presidente e relatore Cav. Luigi Bergalli sindaco delibera: Signori nei rivolgimenti di Stati quando le loro membra già sparse, e disgregate per antica sostenuta prepotenza di fuori, il carcere era una opportunità irrinunciabile per arginare lo spopolamento per l’emigrazione in atto. Ritenuto che l’impianto in città di uno stabilimento di pena gioverebbe al doppio scopo di dare un’eccitamento all’industria, e di aumentare considerevolmente il numero dei Comandatori, avuto riguardo specialmente al personale di custodia, ciò che produrrebbe l’ottimo effetto di accrescere le risorse comunali mediante i maggiori prodotti dei dazii di consumo. La proposta del Dir. Della Cassa Ecclesiastica di concedere i locali al canone annuo di £. it. Seicento è tale da doversi ravvisare accettabile. La cessione al Comune venne fatta per mezzo del regolamento d’attuazione della legge 21 agosto 1862 n. 794 (Quintino Sella) che trasferì al demanio i beni immobili spettanti alla cassa ecclesiastica. Con le delibere 28 luglio, 18 e 30 novembre 1863 il Presidente Desciora offriva gratuitamente al Ministero di Marina tutti i locali costituenti il già Convento e Chiesa dei Domenicani, il contiguo Oratorio dè Disciplinati con adiacenze, e del primo piano e fondachi del Palazzo municipale Ricci all’oggetto che detto Dicastero possa impiantarvi un’Ergastolo, o Bagno con tutti gli stabilimenti di lavoro, alloggi di guardiani, ed uffici che sono l’indispensabile conseguenza. Inoltre mise a disposizione l’intero palazzo detto l’antico Collegio delle Scuole Pie per alloggiare le truppe spedite a presidio del nuovo Stabilimento. Il 10 agosto 1864 entra in funzione il carcere. Bergalli vide l’affare per le entrate delle casse comunali non l’inferno che Silvio Spaventa, dal ministero dell’Interno aveva attuato. La cupidigia e la sete di potere, mai doma nel carattere umano avrebbero trovato con la deportazione al domicilio coatto di civili inermi nuova linfa economica ma anche nuovi orrori di carcere e deportazione di civili.

È incredibile come sia stato tutto nascosto e taciuto, purtroppo oggi sconforta l’inerzia che pervade in questo periodo storico il sud che non si interessa non sa ricordare e commemorare la prima deportazione di civili nella storia d’Europa moderna e contemporanea. In questo momento manca la consapevolezza dell’operato di Silvio Spaventa e della enorme tragedia dei nostri avi da lui deportati nei campi di concentramento denominati ministerialmente “luoghi di relegazione”, dove molti meridionali furono utilizzati come schiavi nei lavori forzati dei campi, nei tabacchi e saline, nelle ferrovie, porti e miniere.

Alle discussioni che si svolsero in Italia sul tema della questione meridionale tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli antropologi di ispirazione lombrosiana diedero un contributo rilevante, si interrogarono sulle ragioni del divario tra Nord e Sud, mescolando, non senza incoerenze e contraddizioni, discorsi sulle “razze“, indagini criminologiche e analisi sociopolitiche. Nell’articolo si intende ricostruire un momento di tale dibattito, concentrandosi sul decennio compreso tra il 1897 e il 1907 e su tre protagonisti, tutti e tre siciliani: lo statistico e criminologo Alfredo Niceforo, l’economista e uomo politico Napoleone Colajanni e l’antropologo e psicologo Giuseppe Sergi. Proprio Sergi fu il vero centro di questo dibattito, dal momento che le sue teorie sulla stirpe mediterranea, sulla sua provenienza africana e sul suo ruolo nel popolamento e soprattutto nel processo di civilizzazione del continente europeo furono usate da una fazione e dall’altra: Niceforo se ne servì per sostenere l’arretratezza della popolazione dell’Italia meridionale (i meridionali erano impulsivi e inclini al crimine proprio a causa della loro origine africana) Uno dei casi di atavismo più importanti, e soprattutto più gravidi di conseguenze per il futuro, fu quello che nel dicembre del 1870 Lombroso – allora primario del reparto di malattie nervose dell’ospedale Sant’Eufemia di Pavia – riferì di aver individuato nel cranio del brigante calabrese Giuseppe Villella: l’autopsia rivelò che tra i due emisferi cerebrali, al posto di una cresta occipitale, si trovava una fossetta. La presenza di questo particolare anatomico, tipico dei lemuri, delle scimmie platirrine e dei roditori, ma assente in tutte le scimmie superiori e in molte di quelle inferiori, denotava un arresto di sviluppo allo stadio fetale, data la corrispondenza ammessa da Lombroso tra la conformazione cranica e l’evoluzione del cervello. Ciò permise di stabilire un nesso tra delinquenza e atavismo e di affermare che nei criminali riapparivano caratteri primitivi e animaleschi: era l’atto di nascita dell’antropologia criminale in Italia. Richiamandosi proprio a queste idee lombrosiane, Niceforo sosteneva che gli abitanti della „Zona delinquente“ erano affetti da una forma di atavismo insieme fisico, psichico, morale e sociale: in loro si ripresentavano i tratti fisici delle popolazioni nomadi premoderne, così come i loro comportamenti aggressivi, bellicosi e vendicativi. L’antica sovrapposizione tra mediterranei e arii era ancora visibile nelle differenze fisiche, psicologiche e comportamentali che esistevano tra gli abitanti del Nord e gli abitanti del Sud dell’Italia: la popolazione settentrionale, influenzata dalle invasioni indoeuropee, aveva un profondo senso della comunità e del dovere ed era incline al lavoro (qui agiva evidentemente una „libera“ rilettura delle descrizioni delle tribù germaniche presenti nella „Germania“ di Tacito); la popolazione meridionale, invece, di origine mediterranea, era individualista e apatica ma al contempo creativa e geniale (qui il riferimento implicito era alle immagini dell’Italia del Sud lasciate dai viaggiatori europei del Grand Tour tra Seicento e Ottocento). Niceforo accettava la concezione sergiana delle „due Italie“, abitate da due stirpi differenti, ampliandone però il campo di applicazione e aggiungendo un ulteriore, decisivo tassello, ovvero la diversa predisposizione dei due gruppi umani alla criminalità. Al Nord, dove prevalevano i discendenti della stirpe celtica o aria, sobria nei costumi e fedele al principio di autorità, i crimini erano meno numerosi che al Sud, dove invece vivevano i discendenti della stirpe mediterranea, che avevano ereditato i propri spiccati istinti delinquenziali dalle tribù africane, alle quali erano genealogicamente legate. La provenienza africana dei mediterranei. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si afferma in Italia la teoria razziale dell’inferiorità del Mezzogiorno. questa teoria si diffuse come linguaggio funzionale all’ideologia dei ceti dominanti italiani e stranieri. Ma il pregiudizio antimeridionale non è scomparso e anzi alimenta ancora oggi, in vecchie e nuove forme di razzismo. La spiegazione razziale dell’inferiorità morale e sociale dei meridionali, che si richiamava alle teorie di Niceforo e di Lombroso, costituì l’esito più paradossale di una continua e sistematica negazione dell’altro. La teoria della “razza maledetta” fu denunciata da numerosi meridionalisti come un “romanzo antropologico” e una comoda scorciatoia per spiegare le differenze tra Nord e Sud. Questa narrazione influenzò le posizioni di magistrati, medici, psichiatri, politici e, più in generale, l’opinione pubblica del Nord. Essa finì col generare un sentire comune e diffuso, all’origine di stereotipi ancor oggi operanti. Nell’aspro dibattito, documentato nel volume, tra studiosi di matrice positivista e meridionalisti (Niceforo, Sergi, Colajanni, Rossi, Ciccotti, Lombroso, Salvemini, Fortunato) affiorano termini e problemi che tornano oggi a segnare l’attualità sociale e politica.

Accanto a criminali comuni, il penitenziario di Finalborgo ospitò un gran numero di detenuti politici, figure progressiste ostili alla politica del Regno d’italia.

Le Prefiche o “Chiagnazzare” o “Chiangimuerti” o “Ciangiulìni”.

Il culto dei morti è da sempre elemento principale di tutte le culture sacre popolari ed è presente in molti aspetti folkloristici attuali. Come il giorno della commemorazione dei defunti che ha costituito, in ogni civiltà, un business redditizio. Ma in particolare, vogliamo ricordare un antico mestiere, legato a questo ambito economico, ormai scomparso. Intorno all’VIII sec. a.C. I Greci, abili navigatori quali erano, cominciarono a spingersi oltre la terra d’ origine. Durante i tanti viaggi nel Mediterraneo colonizzarono il sud italia perché lo trovarono amabile e accogliente, una terra che dava loro ciò di cui avevano bisogno: clima mite, terra fertile, acqua da bere e soprattutto ottima posizione per i commerci e per il desiderio di egemonia. I Greci che vi si stabilirono commerciavano con la madre Grecia e con questa attività, si sa, passano le idee e gli usi e costumi che sono giunti fino ai nostri giorni. Il culto dei morti è sempre stato molto sentito nel Sud Italia. La parola chiave era PATHOS la forte drammaticità nell’espressione del dolore: sopracciglia folte, unite e aggrottate contornavano un viso senza un accenno di trucco e poco curato per la presenza di una peluria evidente sul labbro superiore, i capelli raccolti col “tuppo” alla nuca, tutta la testa coperta da un fazzoletto di tessuto nero stretto sotto al mento. La donna non portava pantaloni. In primis la moglie del defunto piangeva e gridava fino a strapparsi i capelli, seguita da una scia di parenti donne e amiche e prefiche pagate che sostenevano il “coro” durante la veglia funebre. Non era una vera e propria preghiera, ma più una litania di lamento, ripetuto all’infinito a cui si univa un movimento ondulatorio del corpo. La marcia funebre che aveva luogo dalla casa alla chiesa a seguito del defunto avveniva sempre in pompa magna, con urla, pianti e svenimenti, tanto che la vedova veniva sempre scortata da parenti donne o uomini che dovevano sostenerla fisicamente nei momenti di mancamento.
Arte che affonda le sue radici nel tempo lontano o forte dolore per la perdita che veniva esorcizzata attraverso pianti e lagne?
Tutti i partecipanti al funerale, andavano vestiti rigorosamente di nero, il lutto, che per la persona piu stretta al defunto doveva durare almeno 18 mesi, dopo tale periodo si poteva utilizzare un bottone rotondo rivestito di tessuto nero da apporre all’abito o alla giacca in bella vista, affinché tutti sapessero della condizione di vedovanza. Stiamo parlando della lamentazione funebre, uno tra i più significativi riti del cordoglio, le cui tracce si perdono nel tempo. Per fare un viaggio degno verso la scoperta dei sacri “lynos”, bisogna partire inevitabilmente dalla Basilicata, forse la regione che più di tutte ha conservato il ricordo di tali primitivi cerimoniali. Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato possibile. Ma oggi, che la disperazione è tornata di gran moda, il mestiere della prefica potrebbe avere un futuro? Pare di sì. Visto che la lamentazione funebre potrebbe presto passare da rituale legato al mondo agreste a materia d’insegnamento nei master di “tecnica del pianto”. Tale pratica, in realtà, è un testo drammaturgico improvvisato in cui si sa già cosa dire, secondo skills facilmente acquisibili. Un aspetto da non trascurare, poi, è quello relativo alla mimica del cordoglio, al non verbale, all’oscillazione corporea che segue perfettamente il ritmo, come in moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi «ipnogena» – come nota argutamente il De Martino – molto simile anche a quella delle lamentatrici mediorientali. Le prefiche le ritroviamo nel leccese ove sono chiamate “repite” e nell’area abruzzese-molisana. Interessante come viene descritta dal De Gubernatis tale usanza, tra le indomite donne sarde: «Costoro, in sul primo entrare e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo strido, battono palma a palma e gittano le mani dietro le spalle. Inverochè altre si strappano i capelli, squarciano cò denti le bianche pezzuole che in mano ha ciascuna, si graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli, a singhiozzi, stramazzan in terra e…». De Martino racconta che nel corteo funebre era d’uso per le donne, una volta disciolte le chiome, accostarsi al morto percuotendosi il petto con violenza e abbandonandosi in un primo tempo a disordinate grida di dolore. Il termine francese che indica il lutto – “deuil” – sembrerebbe mettere bene in evidenza questo aspetto poiché viene dal latino “dolium” che corrisponde a “dolere”. Rituali che sono l’atavico ricordo di antiche usanze: si pensi che nell’Alceste di Euripide il Dio della morte è descritto mentre brandisce una spada nell’atto di tagliare una ciocca di capelli al morto. Non fa una piega. Nel napoletano, poi, era in voga una lamentazione accompagnata da un malmenarsi rituale che terminava con le prefiche che urlavano alla vedova: «ah, misera te!», strappandole ciocche di capelli che poi avrebbero gettato sul defunto. E’ da quest’usanza che deriverebbe una celeberrima hit fanciullesco-popolare: “Maramao, perché sei morto?”. Alla fine il senso di tutte queste manifestazioni estreme è che il dolore per il defunto c’entra fino a un certo punto: trattasi di riti apotropaici di allontanamento della morte, tecniche indirizzate a impedire il ritorno del defunto. Come testimoniato da altre usanze come quella di bruciare i vestiti del trapassato o l’apertura delle finestre dopo il decesso, fino alla strofa che chiude un antico lamento funebre, sagacemente raccolta dall’indefesso De Martino: «Non ho più niente da dirti/ non ho più niente da farti/ statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto…». “Compito delle prefiche””, scrisse il Chiriatti, “”era quello di toccare le corde dell’anima””. E per raggiungere il più alto grado di drammaticità e, di conseguenza, creare una situazione verosimile, venivano educate sin dalla tenera età ad esternare la propria afflizione verso i tramonti della vita.

In lacrime, distrutta dal dolore, persa nella propria disperazione, spesso la si poteva incontrare a più di un corteo funebre al giorno, con la stessa maschera di tragedia dipinta sul volto. Era la “Scapillata”,una figura essenziale, durante un funerale, che il popolo napoletano fece diventare un vero business. In pratica, quando una persona cara veniva a mancare, se non vantava grosse conoscenze o larghi giri di parentele, la famiglia, per non far sfigurare il caro estinto nei confronti di chi andava a dare l’estremo saluto, affittava delle comparse, che al capezzale della salma e al corteo funebre, mostravano tutto il dolore e la disperazione per la perdita. Per chi abita a Napoli, sarà sicuramente capitato che quando per un capriccio si iniziava a piangere, la nonna subito iniziava a dire “M’ par’ proprio ‘a chiagnazzar’!”, indicando le nostre lacrime e i nostri atteggiamenti una reale farsa. Ovviamente, “‘A chiagnazzar’” era la volgarizzazione dialettale della scapillata! La bravura di queste donne era talmente alta, da sembrare che il loro dolore fosse reale, talmente erano profonde e struggenti le loro urla e lacrime. ‘A Scapillata, come le antenate magno greche, portavano i capelli sciolti e le vesti neri, cantavano litanie e nenie funebri, ovviamente gli occhi gonfi di lacrime per lo sconosciuto defunto. Con il passare degli anni anche questo antico mestiere è svanito, ma può ancora capitare, nei giorni nostri, durante un corteo funebre, che si verifichino situazioni altrettanto “estreme”.

L’uso di persone che piangono i morti era praticato ancora in tempi recenti nell’Italia meridionale e si è conservata almeno fino agli anni ’50 ad esempio nei paesi della Grecìa salentina dove esistevano le “chiangimuerti” o “rèpute” e dove si sono tramandate delle famose nenie di origine greca (locuzione latina naenia, la triste lamentazione di monotona espressione iterata da parenti e prefiche negli accompagnamenti funebri o innanzi al sepolcro, al suono cupo della tibia, strumento musicale doppio a fiato in osso; queste donne entravano nella casa del defunto e iniziavano a gridare disperatamente. Subito dopo iniziavano a cantare le lunghe cantiche, in cui non si disdegnava il richiamo ad antiche figure mitologiche greche, tra le quali spiccano Caronte e Tanato; le prefiche grike provenivano soprattutto da Martano. A Calimera si ricorda la figura di Lucia Martanì (proveniente da Martano), donna martanese residente a Calimera. Le ultime rèpute di cui si abbia conoscenza furono Cesaria e Assunta de Matteis, anche loro di Martano, i cui lamenti furono raccolti da Luigi Chiriatti. Il documentario “Stendalì – Suonano ancora” diretto da Cecilia Mangini, con il soggetto di Pier Paolo Pasolini riprende uno degli ultimi riti di canto funebre. Segnalazioni della sopravvivenza di tale uso si hanno in tempi ancora più recenti in Calabria, dove fino agli anni ’80, in alcuni paesi di montagna dell’entroterra vibonese e del cosentino, era possibile assistere a tali strazianti scene, ed in Basilicata, in Sardegna, specialmente in alcune zone dell’interno, le donne erano dedite al cosiddetto rito chiamato “atìtu” o “atìtidu” in lingua sarda. Si piangeva il defunto tessendone le lodi, esaltando la disperazione per la perdita, senza peraltro esserne richiesti dai congiunti del defunto, solo per una semplice forma di partecipazione collettiva al lutto. Le “atitadoras” (termine che designa prefiche in lingua sarda) potevano alle volte ricevere un compenso. Tutte vestite di nero a struggersi in lacrime ai piedi di una bara, strappandosi i capelli e gridando preghiere e lodi al defunto, strappandosi i capelli e graffiandosi la faccia, non è mai stata espressione di sincera disperazione, bensì di un vero e proprio mestiere. In Basilicata, una terra che ha conosciuto nella sua lunga storia la fame più nera, fino a pochi anni fa, si sono vendute anche le lacrime e lo strazio. Donne che avevano il compito di rendere tragico ciò che già lo era di per sé, la veglia al defunto. “Piangere il morto”, in maniera gestuale più viva, era di fondamentale importanza, al punto che esisteva un vero e proprio mercato e, chi voleva celebrare il funerale in forma più maestosa e appariscente, si impegnava ad ingaggiare le prefiche più “quotate” e, in questo mercato speciale, c’era una diversità di prezzo: le più capaci, erano anche le più costose. Vere professioniste del lutto, queste donne incarnavano nel proprio struggimento una paura della morte che i lucani di un tempo combattevano con un “rispetto reverenziale”. «Io non piango per qualcuno che muore, non l’ho fatto manco per un genitore che morendo mi ha insegnato a pensare. No, non lo faccio per un altro che muore». A volte, però, non si possono comandare le lacrime quando queste sono considerate utili. A cosa? Ad allontanare la morte dalla comunità. Le prefiche erano solo una parte, seppur importante, di un rito funebre che andava ben al di là della funzione religiosa. Rompere i piatti per terra e tirare un secchio d’acqua non appena il feretro avesse varcato la soglia di casa erano modi per allontanare gli “spiriti” e la sfortuna. Dopo le prefiche, ogni parente, a turno, era tenuto a mostrare il proprio pianto davanti la bara. Perché il morto “si deve piangere”, anche dopo il funerale. Per mesi gli uomini dovevano lasciarsi crescere la barba e le donne indossare vestiti che fossero neri. L’esteriorizzazione del lutto, serviva a ricordare a tutti che “polvere siamo e polvere ritorneremo” e che a morire ci voleva davvero poco. Erano i tempi delle grandi epidemie, il divario tra queste e il progresso medico-scientifico era ancora troppo grande. Non restava che pregare. Le superstizioni, allora, rappresentavano l’unico modo per interpretare gli eventi, soprattutto quelli tragici. I decessi improvvisi come quelli da ictus, infarto, oppure la famigerata SIDS (sindrome della morte improvvisa del lattante), di cui solo recentemente si sono scoperte le cause, erano inspiegabili in un mondo ancora così legato ad antiche tradizioni e credenze pagane. All’epoca si trattava semplicemente di sfortuna, di cattiva sorte. Ricordarsi della propria fragilità terrena era l’unico modo per rendere onore al fatidico giorno e sperare che questo arrivasse il più tardi possibile. I lucani, come il resto degli uomini, non sono diventati immortali, ma le prefiche e il loro mondo non ci sono più. Il progresso tecnologico e culturale ha soppiantato alcune credenze. Oggi, se succede qualcosa è per una causa, non per uno spirito maligno e le cause si indagano scientificamente, non si esorcizzano. In un modo globalizzato i grandi stilisti decidono qual è “l’abito adatto ad ogni occasione”. Nonostante tutto, tenere a mente che i giorni dell’uomo non sono infiniti, può aiutare a vivere meglio. «Ricordare che morirò presto – ha detto Steve Jobs- è lo strumento migliore che ho trovato per aiutarmi a prendere le grandi decisioni nella vita. Perché quasi tutto, le aspettative esterne, l’orgoglio, la paura, il ridicolo o il fallimento, tutto questo svanisce di fronte alla morte, lasciando solo ciò che è veramente importante. Ricordare che morirai presto è la miglior maniera che conosco per evitare l’errore di pensare che hai qualcosa da perdere». Pare che a  Putignano, vi fosse anche l’usanza di far seguire i funerali di persone facoltose da parte di orfanelli è cessata soltanto nel 1969 per l’intervento del Pretore di quel mandamento.

E chi la immaginava una notizia simile, chillo ‘o cumpare steve bbuono!” . Ora provate ad immaginare questa stessa frase, detta con un certo tono di lamento e dolore che fa da sottofondo. Non è uno scherzo, o la scena di un film, bensì il lavoro di professioniste che con quelle frasi portavano soldi a casa. Queste erano definite ‘e scapillate’, si affittavano come comparse che al capezzale della salma e successivamente al corteo funebre, mostravano dolore e disperazioneper la perdita della persona in questione. La particolarità di queste donne rientrava nella capacità di riuscire a mostrare un dolore talmente profondo e struggente da apparire quasi reale agli occhi di quanti presenziavano al corteo funebre.

La questione sopracitata è stata oggetto di studio di un celebre antropologo, filosofo e storico delle religioni napoletano: Ernesto De Martino (1908-1965), padre della Storia delle Religioni di ambito napoletano e non solo. De Martino, a capo di una squadra eterogenea di studiosi, ha ben deciso che il campo d’indagine dell’Antropologia e della Storia delle Religioni non doveva più essere necessariamente ricercato tra le popolazioni indigene più lontane: il “culturalmente altro” è, in realtà, proprio qui, in mezzo a noi. Gli studi di Ernesto De Martino, come suggerisce già il titolo del suo capolavoro “Sud e Magia”, adottano come campo d’indagine il meridione d’Italia, quasi quello che in passato è stato il Regno delle Due Sicilie. Un altro tema famosissimo dello storico delle religioni napoletano è stato il cosiddetto tarantismo” o tarantolismo”, tema affrontato in un’altra grande monografia, “La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”.

È in “Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria” (1958) che, però, De Martino parla del fenomeno del pianto ritualeattraverso studi condotti col suo team in Lucania. La crisi spirituale-psicologicavissuta dall’individuo in seguito alla perdita di un caro è, dunque, elemento costitutivo della natura umana e si declina nella cosiddetta “crisi del cordoglio”. https://youtu.be/sA9nNrfqog0

Due sono le forme della crisi del cordoglio: -Ebetudine stuporosa o, in alcune parlate meridionali, “attassamento”: senso di stupore paralizzante che, alla notizia della morte di un caro, impedisce di rispondere agli stimoli esterni come se ci si trovasse al di fuori della realtà e che, spesso, impedisce anche di piangere; – Planctus irrelativo o esplosione parossistica: volontà autolesionistica di colui che ha ricevuto la notizia della scomparsa di una persona cara di assumere la medesima condizione del defunto. Ciò consiste nel procurarsi del vero e proprio dolore fisico (strapparsi i capelli, battersi il petto, strapparsi le vesti ecc…) ed è spesso accompagnato da un forte pianto che sembra non poter finire mai. Queste due possibili reazioni alla scomparsa di una persona cara possono placarsi soltanto attraverso il cosiddetto “planctus rituale”(“pianto rituale”), una sorta di “addomesticamento” delle emozioni immediate: il planctus rituale, infatti, sblocca l’ebetudine stuporosa ed evita gli eccessi del planctus irrelativo incanalando il dolore in una propria forma organizzata. È a questo punto della questione che entrano in gioco le nostre “chiagnazzare”, le professioniste del lamento funebreingaggiate per piangere durante i funerali “guidando” il lamento di tutti gli altri. Una sopravvivenzache, in Italia, è esclusiva del mondo meridionale, si tratta di un’abitudine di estrazione magno-greca. Tale sopravvivenza, è staccata dal pensiero cristiano egemonicoproprio perché abitudine ben precedente proveniente dalla madrepatria greca. L’uso delle lamentatrici professioniste, delle “chiagnazzare”, infatti, è immagine ben presente nella religione greca antica. Ritroviamo queste figure professionali, infatti, già nei poemi omerici durante i funerali di vari eroi. Qui le prefiche compaiono, a chiome sciolte, alla testa delle processioni funebri subito seguite da moglie, madre e sorelle dell’eroico defunto. Proprio così, anche nella realtà del Meridione d’Italia, la prefica guidava il corteo con il suo lamento per portare la variamente vissuta crisi del cordoglio allo stato di planctus rituale. Così come emerso in numerosi studi storico-antropologici del secolo scorso, anche stavolta è la pratica del “rito” a riportare ordinenelle cose. Ernesto De Martino, con i suoi studi, è riuscito a dimostrare al mondo dell’Antropologia e della Storia delle Religioni che il Meridione d’Italia è stato (e ancora è) palcoscenico di interessantissime sopravvivenze culturali che affondano le radici nei più profondi meandri della nostra storia. Ebbene, quindi bisogna partire dal Sud e scoprire il Sud è il primo passo per scoprire il mondo.

Anche a PIZZO CALABRO (VV), un tempo c’erano le “prefiche”, dette “ciangiulìni” le quali, a pagamento, scioglievano i lunghi capelli e piangevano alternando le lodi dell’estinto con singhiozzi e grida. Esse si trovavano soprattutto a Pizzo, tanto che ancora oggi il popolo dice: “Ngi volarènu deci pizzitani a pagamendu mu ti ciàngiunu”. Arte che i pizzitani ereditarono, ma che già era in uso sin dai tempi remoti presso i seguenti popoli della fascia mediterranea: Egiziani, Greci, Spagnoli, Israeliani, Albanesi, Siriani, Fenici, Palestinesi, Corsi, Campani, Lucani e Calabri. A seconda, infatti, dei luoghi, le donne, chiamate a cantare la bara e l’elogio del morto, venivano indicate con vari nomi: Repitatrici, Computatrici, Voceratrici. Vari sono anche i nomi con i quali vengono indicati i canti: Rèpitu, Tribolo, Naccarato, Titio. Le prefiche prezzolate parlavano in nome dei parenti intimi e rievocavano i fatti più salienti o più commoventi della vita del defunto. ”‘I ciangiulini” venivano ricompensate con doni o con denaro. I canti venivano generalmente eseguiti nelle case dei popolani, dove l’estinto aveva lasciato un gran vuoto in seno alla famiglia; meno frequenti erano invece nelle case di personaggi illustri. A volte il ruolo di prefica veniva assunto direttamente dalla vedova, dalla figlia, dalla madre, o da un’altra persona intima del defunto, o una donna del luogo adusa a queste prestazioni. Le prefiche si preparavano alle loro funzioni sciogliendosi i capelli sulle spalle e sul petto con gesti mimici e gridando ad alta voce, prima si “forijavanu” (gesta di disperazione) da sembrare invasate a guisa delle baccanti (sacerdotesse invasate e agitate da Dionisio), poi tessevano, potremmo dire, l’elogio funebre tra canto, lamenti ed alte grida di disperazione. Citiamo alcune frasi che spesso le donne di Pizzo intercalavano tra un lamento, un pianto, un singhiozzo: “Volasti comu ‘n’‘acèjù “, “ti ndi jìsti ‘a ‘na volàta”, “si sbacandàu ‘na casa”. Nel “rèpitu” la vedova così si rivolgeva al marito: “Cumandandi”, “Principi”, “Culonna”, “Cosa ‘randi”, “Cumbagnu mio, tu ti scordasti di tutti!” E la figlia “Patrima; comu fu ca mi dassasti a ‘na vota?”. E la madre: “Fìgghjuma, rispundi a mammata ‘n’atra vota sula!”
Spesso questi canti sfociavano in manifestazioni isteriche; le donne si gettavano a terra e si graffiavano il viso fino a farlo sanguinare; usanze di Pizzo ad imitazione delle tragedie greche o dei personaggi di Omero. A Pizzo la funzione delle prefiche seguiva e segue ancora l’iter antico dei funerali: accompagnare il morto fino all’ultima dimora. Le donne del nostro paese quasi come Andromaca che pianse a dirotto ed in modo inconsolabile la morte del caro e mitico Ettore, piangevano allo stesso modo la morte del loro congiunto, per esse padrone della casa e dei beni, eroe della vita e del lavoro. La moglie, rispetto a lui, era in condizione d’inferiorità e di dipendenza. Per non parlare delle tragedie sul mare; infatti a Pizzo toccavano l’apice della disperazione; in tal caso, le urla delle donne sembravano squarciare il cielo, come se volessero scuotere le stesse onde, aprire il petto per infilarsi nelle pieghe più recondite dell’animo e li impietrirsi per anni e anni. Un esempio dell’identità intrinseca e formale ditali funebri cantilene è dato dal riscontro di un frammento raccolto dal Conte Vito Capialbi nel 1847 in Pizzo che dice: “Dundi vinni ‘stu nùvulu? Vinni l’autu mari: trasiu di la finestra e ruppìu lu spicchjàli” ! I canti delle prefiche non seguono nessuna rima, ma sono di particolare interesse per la bellezza e vigorosità delle immagini, per la profondità dei sentimenti e per le espressioni di crudo realismo istantaneo. Le vedove per distinguersi portavano le trecce sulla testa e, anche dopo due, tre anni dalla morte del caro estinto, per far vedere che in quella casa c’era lutto, durante lo svolgimento di qualsiasi processione religiosa, si tiravano i capelli. Quello che i canti funebri, sia in Calabria come in Sicilia, hanno in comune, è l’assoluta mancanza di sentimento religioso. Perchè questa mancanza di religione? Il popolo crede fermamente che la morte è voluta da Dio, quindi, in quei momenti dolorosi, il cuore e la parola corrono piuttosto alla imprecazione che alla preghiera. “Le prefiche dunque ebbero a sostenere colla chiesa la stessa lotta che i mimi, ma, come questi, riuscirono a penetrare nei misteri e li trasformarono in commedia, e, spesso in farse, così le “repitatrici” resistettero e vinsero; e se di poi mancarono, ciò non avvenne per guerre loro mosse, ma pel cangiare dei costumi”. Ne riuscì a ridurle al silenzio il grande e terribile Innocenzo III che, sottomessa all’autorità papale tutta l’Europa scomunicando l’incipiente libertà inglese, non riuscì a sottomettere le prefiche ai decreti dei concilii. Nè più fortunate delle ecclesiastiche furono le podestà civili. Re Federico III minacciò di frusta le donne che seguissero il feretro urlando e strepitando; ebbene, quando egli morì, lo piansero e lo accompagnarono al sepolcro le repitatrici più note! In modo molto clamoroso piangevano anni fa le repitatrici di Pizzo, tanto che attirarono su di loro la collera dell’autorità municipale. Nel 1875, infatti, il sindaco di allora Comm. Marcello Salomone pensò di ridurle al silenzio con un’ordinanza che vietava tali manifestazioni. Ma anche il suo tentativo fu vano poiché le “ciangiulini “ a Pizzo perdurarono fino alla metà degli anni cinquanta. Fissiamo, dunque, ricordo dei loro canti prima che si disperdano irreparabilmente e vadano perduti i concetti, le immagini, le similitudini generali ed indefinite di ciò che costituiva l’uso della “conclamatio” napitina. Bello nella sua tetraggine è questo canto di Pizzo edito dal Mele, nel quale parla un giovane marito, morto di recente, che si rivolge nell’oltretomba al padre.

Nei paesi del Salento, era possibile incontrare, durante lo svolgimento dei riti funerari, coloro che la tradizione popolare chiamava “rèpute” o, termine più appropriato, “chiangimorti” A Castrignano dei Greci, fino a qualche anno fa, era ancora in vita una di queste donne, anche se, da diverso tempo, prima che passasse a miglior vita, non veniva più chiamata a svolgere la sua mansione, perché tali usi si erano persi fra le pieghe del tempo. Il suo nome era Concetta. Divenuta una dolce e nota vecchietta, concesse un’intervista alla RAI, il cui staff giunse nella cittadina per filmare una cerimonia funeraria, organizzata appositamente per l’occasione. Anche se, di fatto, il morto non c’era, la scena fu così drammatica, e la “chiangimorti” talmente convincente, che i presenti si commossero, facendosi scappare qualche lacrima. “Noi prefiche”, dichiarò Concetta, “non piangevamo mai, facevamo piangere le altre donne, quelle della famiglia del morto. Conoscevamo le strofe a memoria e poi inventavamo secondo i casi”. Era consuetudine, infatti, recitare delle cantilene, tramandate oralmente, con voce triste e sommessa, accompagnandole con lunghi lamenti e singhiozzi e, molto spesso, con un gesto del fazzoletto.

“I CIANGIULERI”. Un vero e proprio mestiere… un pianto a pagamento! Erano donne vestite con abiti scuri e con un velo nero sul viso, educate sin dalla tenera età ad esternare il proprio dolore verso i defunti, che prendevano parte ai riti funerari per piangere la dipartita del defunto. Questa figura quasi del tutto scomparsa, raggiungevano la dimora del defunto, si stringevano intorno al feretro e lo compiangevano con filastrocche, pianto, grida, gesti di disperazione… le cantilene (tramandate oralmente) erano accompagnate da singhiozzi, lamenti e a volte anche con un gesto del fazzoletto. Ma quale compito avevano queste donne? Far commuovere l’anima… erano in grado di far piangere le altre persone. Che il loro dolore fosse sincero o simulato, la loro rappresentazione raggiungeva alti livelli di drammaticità a cui non si poteva rimanere indifferenti. E comunque, grazie a loro, anche chi non aveva una famiglia poteva essere compianto. In Sardegna, c’erano invece le “lamentatrici”, chiamate in Sicilia reputatrici, donne molto povere, che, almeno fino agli anni Cinquanta del Secolo scorso (oggi raramente), con lo scopo di sfamare se stesse e i propri figli, si facevano assoldare per piangere i morti degli altri e per intonare nenie funebri che inneggiassero alle gesta e alle virtù dei cari estinti. Le reputatrici si lanciavano in performances estreme, gridando, disperandosi, percuotendosi il petto e la testa, battendo i piedi per terra, lacerandosi le vesti, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto. Il piagnisteo s’intensificava nel momento in cui la bara veniva portata fuori di casa per il corteo verso il cimitero, come a voler sottolineare la terribile sofferenza del distacco, e ricominciava durante “lu cunsulatu”, il banchetto di ristoro per i parenti e i partecipanti, e durante le visite di condoglianze, che arrivavano a durare fino a nove giorni, tra finestre sbarrate e semichiuse o nella penombra delle candele. Si ricordavano con strazio le disgrazie della malattia e le conseguenze inconsolabili della perdita, cui seguiva un’esplosione di urla e pianti per esorcizzare la morte, per creare un contro altare al rischio incombente della follia a causa della sofferenza provata e per rievocare catarticamente la vita.
Il silenzio più assoluto invece calava alla morte di un bambino, annunciata dall’espressione Gloria e paradisu!
Il bimbo defunto non si piangeva mai, nessuno sapeva cosa fare o dire e nessuno osava parlare. Il bambino era considerato un angelo puro richiamato in Cielo da Dio.
https://youtu.be/8VevOqMPP5Y

Vale sempre ed ancora lo stesso infallibile detto.” ‘O guaio è di chi more, chi resta s’acconcia sempre”, ossia Chi resa: menesta!.

GAETA

7 settembre 1860 – 13 febbraio 1861

Solo. A prendere decisioni che avrebbero dovuto salvare il trono dove nel 1734 si era seduto, per primo, il suo avo Carlo III. Solo, a 24 anni, a tentare di salvare il regno e il futuro della dinastia“. Solo, ma non del tutto. Aveva accanto la moglie, Maria Sofia di Baviera, sorella della leggendaria Principessa Sissi. Il 5 settembre il Re incaricò il Primo Ministro di scrivere l’annuncio della partenza per Gaeta, poi andò in girò per Napoli con la Regina, su una carrozza scoperta, con al seguito un paio di gentiluomini. La solita passeggiata quotidiana, come se l’avanzata di quel Generale col poncho – che Re Francesco chiamava familiarmente “il nostro Don Peppino” – non avesse tolto ai Sovrani neanche un quarto d’ora di serenità, come se nulla li potesse privare del dominio di sé, neanche la più pietosa delle scene, proprio sotto i loro occhi.

Francesco II era salito al trono il 22 maggio 1859, “nel punto in cui ferve in Italia una delle più difficili crisi che abbia mai offerto la storia“, si legge nel “Fondo Borbone” dell’Archivio di Stato di Napoli (f. 1691, n. 160). Le circostanze e i tempi non gli avevano permesso di imparare il mestiere di Re, di conoscere i suoi consiglieri, di mettere a fuoco le situazioni, di acquisire la maturità necessaria a padroneggiare quella caotica fase di conflitti ideologici, politici e militari. La Costituzione, l’amnistia, il rientro degli esuli e la riforma delle istituzioni siciliane sono tutti meriti snaturati dalle contingenze, privi di efficacia. Il Regno è debole e miope. La politica estera delle Due Sicilie aveva una tradizione di stretta neutralità e l’aggressione di uno Stato straniero sfuggiva a ogni previsione. La classe politica era totalmente impreparata a una “guerra ingiusta e contro la ragione delle genti“, come Francesco l’avrebbe definita nel Proclama del 6 settembre. Ingiusta e conto la ragione, perché orfana della figura centrale che sin allora aveva sostenuto la retorica romantica e giustificato l’azione bellica: lo straniero invasore e usurpatore di una terra destinata a ritornare unita. Nelle Due Sicilie non c’erano gli Asburgo, i Lorena o gli Este. Nelle Due Sicilie regnava la dinastia dei Borbone, da 127 anni. “Non so cosa voglia dire l’indipendenza italiana” – avrebbe detto Re Francesco – “io penso soltanto all’indipendenza napoletana“.

L’alternativa tra Napoli e Torino – tra la difesa di un Regno secolare e la partecipazione alla formazione di un nuovo Stato – sfuma da scelta ideologica a calcolo di convenienza, attiva antagonismi e ambizioni personali, favorisce riallocazioni di potere e aspirazioni di carriera, mette in crisi la fedeltà alla dinastia, i legami col territorio, il sentimento di appartenenza, le tradizioni. E’ il  contrappasso alla straordinarietà di Re Ferdinando II. La continuità dinastica – l’assenza di fratture tra la scomparsa dell’antico Sovrano e l’avvento del suo successore – sconta per la prima volta incertezze e perplessità. La formula il Re è morto, lunga vita al Reil Re è morto, viva il Re – la versione aristocratica del più popolare morto un Papa se ne fa un altro – è messa sotto pressione dall’impietoso confronto tra i due Re. La sacralità costruita intorno a Ferdinando fatica a rimodularsi su Francesco. La Monarchia borbonica – privata di una figura mitizzata, che aveva accentrato tutti i volti del potere – si ritrova esposta a una perdita di fascino e mordente. La legittimità ereditata lascia il posto al consenso da conquistare, con l’audacia, il carisma, la forza. Francesco non era Ferdinando, i suoi stessi familiari – i fratelli minori e la Regina Maria Teresa – continuarono a trattarlo con sufficienza, a tenere atteggiamenti informali, e al fondo non ne riconobbero mai l’autorità. Persino la presa di potere – per lo smisurato rispetto verso Ferdinando, della famiglia reale prima, e dell’intero Regno poi – non si accompagnò subito a feste e tripudi: le celebrazioni per Re Francesco iniziarono soltanto il 24 luglio – ben tre mesi dopo la morte di Re Ferdinando – e si protrassero solo per tre giorni.

C’era tutto un corpo politico e militare fedele alla persona del Re, più che alla storia del Regno, legato alla figura del Sovrano, più che all’idea di Nazione napoletana. Gli elementi della triade Re-Esercito-Territorio – che sotto Ferdinando avevano raggiunto rispettivamente il massimo livello di legittimazione, efficienza e radicamento – non solo scontavano un calo fisiologico, ma subivano l’urto di una nuova ondata rivoluzionaria. I nemici dei Borbone avevano gioco facile nel ribaltare il significato della continuità dinastica, nell’enfatizzarne il lato speculare. Francesco II era figlio di Ferdinando II, nipote di Francesco I, pronipote di Ferdinando I, ultimo anello di una catena simbolo di una maledizione perpetua, ultimo esponente di una stirpe di vili tiranni, un “nemico giurato d’Italia, un Re che giura solo per poter spergiurare“, avrebbe detto Carlo Poerio, esule napoletano. Gli assi portanti della dinastia iniziano a sfilarsi. I rappresentati della vecchia guardia si rivelano traditori, disertori, e a loro dire rivoluzionari o patrioti. Francesco non ha fatto in tempo a conoscerli, e già se li ritrova schierati contro. Dietro i cambiamenti epocali, dietro lo stravolgimento dei regimi e delle istituzioni, ci sono pur sempre gli uomini, singoli individui, protagonisti in carne e ossa della storia, a cui le rivoluzioni offrono straordinarie e irripetibili occasioni per realizzare carriere fulminee. Perché sudarsi galloni e promozioni, se tutto poteva aversi semplicemente con un cambio di casacca e di padrone, per di più giustificato dalla più nobile delle motivazioni? Perché impegnarsi in una partita già in mano all’avversario, soprattutto se a reggere il banco era Cavour, il maggiore statista dell’epoca? Perché combattere, se tutto era già scritto, e l’alternativa era così allettante? “Ma se l’Europa non lo vuole, perché dobbiamo farci ammazzare per lui?“, si racconta protestasse un alto Ufficiale borbonico, ad agosto, riferendosi a Re Francesco. Spicca un nome su tutti: Alessandro Nunziante, uomo dei Borbone, amico intimo e consigliere storico di Re Ferdinando, consultato di continuo anche da Re Francesco. E’ la figura da esibire a Torino, come simbolo dell’implosione delle Due Sicilie, e da usare a Napoli, per far passare l’esercito borbonico dalla parte del Piemonte, prima dell’arrivo di Garibaldi. Invia le dimissioni il 2 luglio, senza ricevere risposta. Scrive una seconda lettera, due settimane dopo, col colpo a effetto: la restituzione in blocco delle onorificenze ricevute negli anni, le più prestigiose del Regno. Non può portare sul petto – dice – le decorazioni di un Governo che “confonde uomini onesti, retti e leali con quelli che meritano disprezzo“. Inviterà i suoi uomini a divenire “soldati della gloriosa patria italiana” e la moglie lascerà l’incarico di dama di corte. La perdita più grave, però, non è in un singolo nome, mai in un intero corpo militare: la Marina. “Possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana“, scriveva l’Ammiraglio Persano al Conte di Cavour. E ancora: “Gli Ufficiali Napoletani son pur devoti alla politica di V.E. ed a me. Conservo corrispondenza con quelli di Napoli, non compromettente, ma tale però che ce li assicura senza fallo. Mi scrivono che se si tratta di venire sotto il mio comando son pronti quando che sia“. E poi: “Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni“. Il vile trasformismo della Marina è oggi unanimemente riconosciuto, come apparve evidente già allora. “Rispetto alla Marina Napoletana, era impossibile riconoscere le ultime promozioni fatte da Garibaldi, ch’io non esito a qualificare scandalose” – scriveva Cavour a Vittorio Emanuele. “I contro ammiragli Vacca, Anguisolla, Scugli, ecc. erano capitani di fregata nello scorso luglio, sono di sei o dieci anni meno anziani dei nostri capitani; non si sono mai battuti, hanno navigato pochissimo; non hanno saputo né servire il loro Re, né dichiararsi per la loro patria, hanno sino all’ultimo cercato a tenersi la via aperta per approfittare degli eventi qualunque essi fossero“. Ma defezioni e tradimenti si erano avuti già in Sicilia, prima che Persano arrivasse a Napoli con armi per combattere, agenti per negoziare e denaro per corrompere. Francesco Cossovich, incapace di impedire l’arrivo delle navi garibaldine. Guglielmo Acton, con la sua ridicola opposizione allo sbarco di Marsala. Marino Caracciolo, in clamoroso ritardo nell’appoggiare il già debole contrasto ai “Mille”Amilcare Anguissola, pronto a consegnare la sua pirofregata Veloce a un imbarazzato Persano (che a sua volta la girò a Garibaldi che la ribattezzò Tuckory, il nome del soldato ungherese caduto a Palermo con le camice rosse). I fatti siciliani suscitarono sconcerto persino a Torino. “Le cose di Sicilia sono una gran lezione ai Governi” – scriveva D’Azeglio a Persano, il 28 maggio 1860 – “Pensare che quello di Napoli è arrivato a indebolirsi al punto che un uomo solo, con poche centinaia, sembra ormai sia bastato a rovesciarlo. Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese, o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re, con ventiquattro fregate a vapore non abbia potuto guardare tre o quattrocento miglia di coste. Una fregata ogni venticinque miglia faceva dalle dodici alle sedici fregate, e mai più bella occasione di servir bene. Basta: meglio così“.  Il voltafaccia delle forze di mare fu impressionante, ma altrettanto sconcertante fu l’atteggiamento delle forze di terra. La lista si apre con Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, luogotenente del Re in Sicilia. Inviò contro le camicie rosse soltanto la colonna del Generale Francesco Landi (anch’egli bollato col marchio di traditore, e se non lo fu nei fatti, lo rimase nella percezione diffusa: relegato a Ischia, retrocesso alla seconda classe e infine collocato in pensione). Non utilizzò la “Brigata Bonanno”, giunta da Gaeta a rinforzare le truppe. Rimase incerto, timoroso e indeciso in ogni circostanza. Re Francesco lo richiamò a Napoli dopo lo sbarco di Garibaldi, gli evitò il giudizio del tribunale, ma non gli risparmiò un giudizio personale – moralmente più pesante – di incapacità e codardia. Non lo incontrò né lo volle a Gaeta. Ferdinando Lanza sostituì il Castelcicala, su consiglio di Filangieri. Disponeva di 20.000 uomini e seppe solo asserragliarsi a difesa della capitale siciliana. Inviato anche lui a Ischia, in attesa di giudizio, fu poi assolto e messo in aspettativa, anche qui con una condanna morale di Francesco che oltrepassava ogni sentenza formale. Sarà tra i primi a recarsi a Palazzo d’Angri a ossequiare  Garibaldi, dopo la partenza del Re da Napoli. Giuseppe Letizia consigliò a Lanza di prolungare la tregua con i garibaldini, di affrettarsi a firmare la capitolazione, quando a Palermo c’erano ancora migliaia di soldati borbonici pronti a combattere. Gennaro Gonzales riuscì a perdere un’intera Brigata, prima a Messina e poi in Calabria, senza sparare un colpo. Francesco Bonanno, inviato in Sicilia in aiuto di Landi, sbarcò inspiegabilmente a Palermo anziché a Marsala, e poi, in Puglia, smarrì anche lui la sua Brigata. Il Maresciallo Filippo Flores non provò neppure a combattere e preferì sedersi subito a tavolo delle trattative col Generale garibaldino Stefano Turr. Tommaso Clary fu il principale responsabile della perdita definitiva della Sicilia, anche a causa delle infelici decisioni prese a Catania, dove i borbonici erano usciti vittoriosi, e anziché consolidare le posizioni favorevoli furono smembrati con l’invio di truppe a Messina. E poi Fileno Briganti, Nicola Melendez, Giuseppe Caldarelli, Giuseppe Ghio, tutti personaggi ambigui, in vario modo colpevoli dell’atto più ignobile: il rifiuto a combattere, l’accordo sottobanco col nemico, l’abbandono delle truppe. L’elenco della vergogna sarebbe interminabile, a volerlo esaurire. C’era una massa di imbelli e profittatori che quando fu chiaro chi fosse il vincitore “si dichiararono partigiani del nuovo ordine di cose e si sarebbero dichiarati anche sans culottes o maomettani se vi avessero trovato tornaconto” – scriverà il cappellano borbonico Giuseppe Buttà.

Possiamo gettare sale sulla ferita del tradimento e chiederci come mai il Regno Due Sicilie “avesse nei suoi quadri di vertice uomini vecchi e inoltre facilmente corruttibili o comunque pronti ad abbandonare l’ ‘amato’ sovrano“; ma sarebbe un’impostazione autoreferenziale, un voler tacere su modalità persuasive di stampo manifestamente corruttivo, un mettere in sordina il male fatto alla causa risorgimentale da una fedeltà divenuta merce di scambio; e di fronte a tradimenti e cospirazioni, a sotterfugi e manipolazioni, non può fare a meno di dare voce al pensiero dell’uomo della strada: “avrebbero agito allo stesso modo nei confronti di Re Ferdinando?“.

“Il mondo intero l’ha veduto, per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona.

I traditori pagati dal mio nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio;

ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere al tradimento”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

L’oro del Governo di Torino aveva comprato i militari di Napoli.

Francesco aveva portato poco a Gaeta. Non aveva ritirato i depositi personali, aveva lasciato intatto il tesoro dello Stato, e messo in salvo dalla Reggia solo oggetti di devozione e ricordi familiari. Il Governo italiano confiscò tutto, ma era anche pronto a una conciliazione, a restituire a Francesco il suo patrimonio, se solo Francesco avesse pubblicamente rinunciato a ogni pretesa sui territori delle ormai decadute Due Sicilie.  Francesco oppose sempre un fermo e dignitoso rifiuto. Non accettò mai di ritirarsi in cambio di un’onorevole sistemazione, anche quando stretto da condizioni economiche precarie. Ancora nel 1870, all’indomani della partenza da un agonizzante Stato Pontificio, così rispondeva al diplomatico austriaco, Barone von Hubner, che si offriva di mediare per il recupero di almeno una parte delle ricchezze: “La restituzione del mio non mi adesca. Quando si perde un trono, poco importa il patrimonio. Se l’abbia l’usurpatore o lo restituisca, né quello mi strappa un lamento, né questo un sorriso. Povero sono, come oggi tanti altri migliori di me. Il mio onore non è in vendita.

Il traditore aveva permesso la supremazia dei nemici – interni e esterni – ma aveva anche offerto le motivazioni ad agire ai lealisti borbonici, e “giammai il Regno di Napoli ricorda soldati così fedeli alla bandiera” – scriverà Cesare Morisani, un intellettuale militante – come quelli chiamati a far da controcanto ai vili e ai disertori. Chi fu obbligato a seguire le scelte opposte dei diretti comandanti – come i marinai delle navi sequestrate da Persano – espresse il suo dissenso con azioni di sabotaggio. Non si mossero le navi a cui Vincenzo Criscuolo – fedelissimo della dinastia – aveva ordinato di accompagnare il Re in partenza. Lo seguì la fregata a vela Partenope, stracarica di uomini. I capitani traditori Vacca e Vitagliano recuperano sì le loro navi, ma le trovano vuote: gli equipaggi erano scesi a terra, per raggiungere Francesco a Gaeta. La resistenza di Gaeta – fiera, orgogliosa, accanita – mirava a suscitare una reazione diplomatica all’espansionismo corsaro dei Savoia, ma si alimentava anche con la speranza di un revival del miracolo del 1799, quando un’azione lampo, supportata dal popolo, aveva riconsegnato il Regno al bisnonno di Francesco II. “Quella gloriosa e sventurata campagna del 1860-1861” – come la definì il Generale Giosuè Ritucci, comandante del fronte del Volturno, memoria storica dell’Armata delle Due Sicilie – coagulò la rabbia per la prepotenza dello straniero, il disprezzo per il tradimento dei profittatori, la lealtà delle truppe rimaste accanto alla dinastia e l’eroismo dei popolani. Nasceva il mito unificante della resistenza borbonica.  “Chi restò fino all’ultimo, fra quelle mura di sasso, rimase orgoglioso della scelta atta al punto da scriverlo sui biglietti da visita. Difficile comprendere che cosa spingesse tanta gente a combattere su quell’estremo baluardo di una guerra ormai definitivamente compromessa. Odio per il nuovo corso? Desiderio di non darla vinta ai prepotenti? Senso dell’onore? La storia, talvolta, regala atteggiamenti razionalmente incomprensibili che maturano in un clima irripetibile, esaltato, anche se appare del tutto evidente – agli stessi protagonisti – che il risultato finale non può che essere un massacro […]. I borbonici legittimisti sapevano di non avere un briciolo di speranza. Il loro atteggiamento poteva sembrare il rimasuglio di una romanticheria ottocentesca. Forse qualcuno sperava ancora nella rivolta del popolo e nella guerriglia nelle campagne, ma la maggior parte non poteva non rendersi conto che Francesco II e i brandelli di corte rimasti con lui avevano le ore contate. Viverle eroicamente era il tributo che ciascuno pagava al proprio orgoglio. […]. Francesco II e la regina Maria Sofia si comportarono con orgoglio e dignità. Lui riscattò l’immagine del mollaccione che gli era piombata addosso e lei fu donna di straordinario fascino che trascinò l’entusiasmo dei giovani nobili d’Europa. Si distinsero sugli spalti, incoraggiarono i soldati, curarono i feriti e si dichiararono comprensivi con gli uomini della guarnigione, condivisero il razionamento del cibo e, anzi, si privarono del pranzo per favorire gli abitati civili della cittadella. […]. Sembravano preparati – e forse rassegnati – al peggio e lo dimostrarono in modo quasi incurante, come fosse un dovere della regalità“.

Lorenzo Del Boca ci ricorda che gli eroi sono eroi, non perché vincono o perdono, ma perché si comportano da eroi.

I giorni di Gaeta – a prescindere dall’esito – rimangono una pagina di epica. Lontani dalle ipocrisie e dagli intrighi, in un’atmosfera irreale, tra fragore, polvere e grida, Francesco e Maria Sofia riacquistano il loro spazio e la loro gloria, costruiscono una regalità esaltante, attraverso il contatto quotidiano con i soldati, la condivisione dei pasti, la sfida alla morte, sorretti dalla semplicità delle loro abitudini di vita. “Che il nostro destino sia presto deciso o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido di Viva il Re!“: è il messaggio degli Ufficiali nella Fortezza di Gaeta, un mirabile esempio di valore militare e fedeltà politica, che riscatta l’onore dei Borbone e salva la storia delle Due Sicilie.

“Sire, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, 
di cui la tristezza dei tempi ci à fatto spettatori afflitti ed indegnati;
noi sottoscritti, uffiziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una ferma volontà,
rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono,
reso più venerabile e splendido dalla sventura.
Cingendo la spada, giurammo che la bandiera affidataci da V.M.
sarebbe difesa da noi, a costo del nostro sangue.
E’ a questo giuramento che intendiamo restar fedeli;
quali che siano le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi,
sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e tutt’altro bene
per il successo o pei bisogni della causa comune.
Gelosi custodi di quest’onor militare che distingue solo il soldato dal bandito,
vogliamo mostrare a V.M. ed all’Europa intera
che se molti fra noi ànno col tradimento o viltà macchiato il nome dell’Armata Napolitana,
grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono
di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità”.
(Messaggio degli Ufficiali a Re Francesco II,
in risposta al termine ultimo del 31 dicembre 1860
dato dal Re a chi avesse voluto lasciare Gaeta)

“Militi dell’armata di Gaeta, da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio.

Il tradimento interno, l’attacco della bande rivoluzionarie di stranieri,

l’aggressione di una Potenza che si diceva amica,

niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza.

In mezzo a sofferenze di ogni genere, traversando i campi di battaglia,

affrontando il tradimento, più terribile che il ferro e il piombo, siete venuti a Capua e Gaeta,

segnando il vostro eroismo sulle rive del Volturno, sulle sponde del Garigliano,

sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico,

che disponeva di tutte le risorse d’Italia. 

Grazie a Voi è salvo l’onore dell’Armata delle Due Sicilie;

grazie a Voi può alzar la testa con orgoglio il vostro Sovrano;

e sulla terra di esilio, in che aspetterà la giustizia del Cielo,

la memoria dell’eroica lealtà dei suoi Soldati,

sarà la più dolce consolazione delle sue sventure”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

I partigiani del dopo occupazione

Nell’autunno del 1866 finisce la guerra di Francesco II, l’ex re scioglie il governo esule e il corpo diplomatico. Gli unitari italiani diedero anche un altro colpo alla Chiesa cattolica, l’unico alleato restato al re, abolendo i conventi ed eliminando le chiese di patronato laicale.

I vescovi napoletani pubblicarono l’ennesima protesta, il giornale “Legittimo

Conciliatore” raccolse 26.000 firme contro l’abolizione, ma fu inutile.

Il 6 dicembre il cardinale Sisto Riario Sforza tornò a Napoli. Il capo politico e spirituale della Chiesa meridionale, vicino a Pio IX e tra i più intimi amici di Francesco II, in esilio dal 1861. Nella riunione della Sacra Penitenziaria, pochi prima giorni, chiese di rinnovare la strategia rispetto alle istituzioni italiane e al problema del voto.

Alcuni mesi dopo, alle elezioni comunali di Napoli, notabili conservatori cattolici iniziarono a lavorare all’interno delle liste moderare. Re Francesco II resta a Roma altri quattro anni, coltivando nostalgie e cercando di riavvicinarsi alla moglie Maria Sofia (dopo le complicate vicende degli anni passati). Nel suo archivio affluiscono testimonianze dai collaboratori che restati al suo fianco continuarono a raccogliere dati e documenti utili ad un «Lavoro statistico sul Regno delle Due Sicilie durante l’occupazione piemontese».

Il fratello Alfonso e qualche ufficiale partecipano alla campagna contro i garibaldini a Mentana. L’altro uomo forte a lui vicino, Pietro Calà Ulloa, nel 1867 pubblicò un volume proponendo una federazione italiana, divisa in tre grandi regioni. Nel 1870, caduta Roma nelle mani degli unitari, torna a Napoli, separandosi dal re e dalla regina, a cui sconsigliò di continuare la guerra giudiziaria con lo Stato italiano per il recupero dei propri beni. Aveva ragione, le cause intentate in tribunale furono tutte perse, come l’ultima voluta da Maria Sofia ad inizio secolo. Il conte di Caserta, Alfonso di Borbone, partecipò alla Terza guerra carlista, dove fu al comando dell’esercito del nord, incarnando l’anima militante del legittimismo napoletano. La resistenza borbonico-cattolica non ere spenta. Napoli torna ad essere il centro della lotta politica, in diretta continuità con il patriottismo di guerra dell’esilio e del brigantaggio. I vinti si identificarono nel ricordo dell’esperienza dell’estrema difesa del regno, includendo e sviluppando le narrazioni a cui avevano dato origine fino al 1866. La loro causa perduta diventa la rivendicazione di una dignità nazionale distrutta ma anche la sua consacrazione. Disimpegnatosi Ulloa, spesa la passione militante di Francesco II, il cardinale Riario Sforza fu protagonista della prima fase di questa storia, iniziando a tessere una rete politica di ampio respiro. Resisteva un cerchio di borbonici fedeli, anche a livello popolare. Quando il re Vittorio Emanuele II tornò a Napoli nel 1869, per la nascita del nipote, fu l’occasione per una dimostrazione di fedeltà dell’opposizione borbonico-cattolica. Il circolo della Filarmonica tenne un concerto e, ostentatamente, non invitò la corte, provocando l’intervento della polizia. Il cardinale si rifiutò di benedire il nipote del re, festeggiato in pompa magna dagli unitari meridionali. Tra i vari segni di dissenso, nella provincia pugliese, fu distribuita una protesta contro il titolo assegnato: «un’oltraggio a tante nostre miserie, imponendosi il titolo di Duca di Puglia al neonato figlio di un principe straniero… È un’ipocrita allusione all’osare il legame tra Casa Savoja, e la nostra vetusta grandezza, per ribadire sempre più le nostre catene». La Chiesa napoletana si mobilitò per contrastare l’Anti concilio organizzato da Ricciardi a Napoli, finito male per i litigi tra italiani e francesi e poi sospeso dalla stessa questura. Pio IX, poco dopo, ad aprile aprì il Concilio, l’evento più importante del suo pontificato. Gli scopi erano l’approvazione del Sillabo, il principio dell’infallibilità del pontefice, la difesa del potere temporale. Un posto d’onore, mentre sfilavano in processione quasi ottocento vescovi di tutto il mondo, fu riservato a Francesco II. Il borbonismo napoletano era diventato parte integrante dell’unica resistenza possibile all’unificazione, quella cattolica. Del resto, già negli anni della guerra al brigantaggio, solo Pio IX gli aveva dato amicizia e protezione. Anche se confinato in un circuito minoritario, si diede comunque vita ad una combattiva battaglia politica, animata da aristocratici, alto clero, ex militari, preti e popolani. Era, secondo Croce, una piccola società, presente in circoli della ex capitale e del Mezzogiorno. Non mancarono episodi capaci di emozionare, come il duello d’onore tra il borbonico conte Statella ed un ufficiale meridionale delle guide, il capitano Basile. Quando nel1869 il duca di Casacalenda, fece un intervento di apertura allo Stato italiano, una parte importante della nobiltà napoletana pubblicò una durissima protesta perché «abbassandosi a ratificare l’usurpazione» aveva tradito la patria e la classe sociale.

L’aristocrazia borbonica rivendicò la bandiera della dinastia che aveva reso grande ed indipendente la nazione napoletana, contro chi «la cara Patria allo straniero aveva asserviva», mentre essa «saputo per nove anni conservarsi illibata» rispetto a chi era passato nel campo del vincitore.

Poi c’erano ex combattenti come Carlo Corsi e Luigi Gaeta, che diventarono i principali organizzatori di iniziative associative e pubblicistiche, il conte Anguissola, Giuseppe Buttà, i vecchi sostenitori francesi il giornalista Charles Garnier. Spiccarono soprattutto uomini rispettati nell’alta aristocrazia, come Nicola Caracciolo duca di Torella, personaggio rigoroso e combattivo, Francesco de Mari duca di Castellaneta, Pietro Caracciolo di Brienza. Carlo Capece Galeota duca della Regina, colto e raffinato, restato a lungo come rappresentante ufficiale di Francesco II presso il Papa. Tornato a Napoli fu una specie di portavoce dell’ex re e della casa reale. C’erano anche altri familiari di riduci, come il nipote del generale Casella, il capo del governo di Gaeta, Enrico Casella. Convivevano due club,esclusivi quanto ammirati, quello del Whist e la Società Filarmonica, presieduta dal duca di Bivona e poi dal Duca di San Cesario. I giornalisti legittimisti napoletani, attivi tra il 1867 e i primi anni del Novecento, furono il principale punto d’incontro di questo variegato movimento. Secondo la questura, nel1871-72 tiravano una media tra 9.000 ed 11.000 copie. La Libertà cattolica, fondata nel 1867 dall’abate Geronimo Milone, era su posizioni di difesa del potere temporale del papa, intransigentismo elettorale, polemica contro gli unitari e borbonismo, diventò il giornale quasi ufficiale dell’episcopato napoletano, stessi toni ebbe il Contemporaneo di Napoli. Ritornò in campo Ercole Ragazzini, che nel 1861 era stato tra i più aggressivi legittimisti, con La cronaca cattolica, un appassionato foglio che gli costò anche il carcere (morì nel 1871). Queste pubblicazioni si moltiplicarono dopo le elezioni del 1872. Il Galiani, fondato quell’anno (si fuse poi con L’Italia reale), diretto dal duca di Castellaneta e con Calà Ulloa tra gli scrittori di punta si presentò definitivamente come assoluto intransigente. I suoi animatori non vollero partecipare alla campagna amministrativa che, portò alla vittoria della lista del cardinale (nel 1875 solo per evitare polemiche con altri legittimisti attenuò le posizioni). Quando Luigi Tosti, un colto religioso romano, pubblicò un’opuscolo a favore della conciliazione tra Chiesa e Stato italiano, il direttore del giornale rispose con un volumetto, affermando che “il romano Pontefice resterà sub ostili dominatione”. Una sola cosa potrebbe menomare la sua grandezza: il riconoscersi suddito e cittadino italiano! La Discussione fu la principale testata legittimista napoletana, dopo aver raccolto un cospicuo numero di azionisti, l’assemblea che fondò il giornale fu presieduta da Francesco Proto, duca di Maddaloni, che aveva denunciato alla Camera la politica italiana nel 1861 ed era stato tra gli uomini di più vicini all’ex re durante l’esilio. Francesco Scamaccia Luvarà, nipote del comandante delle bande irregolari del 1860-61, era uno dei suoi combattivi animatori.

Il giornale seguì le battaglie dei legittimimisti europei come i carlisti in Spagna o gli chambordiani in Francia. Giovanni de Torrenteros, ex militare e collaboratore di Francesco II, insieme al fratello, mantenne sempre il giornale sulla linea di netto rifiuto della partecipazione al voto politico e intransigente fedeltà ai principi cattolici borbonici. Quando fu formato il Circolo cattolico, in vista delle elezioni del 1892, la Discussione, spiegò il suo appoggio alla nomina del presidente, il marchese di Sangineto, sottolineando che questi era «genero del principe di Bisignano e figliuolo del migliore amico e servitore del nostro nostro Re, il barone di Miglione.

Anche il suo successore, Nicola Montalbò, mantenne una posizione antiunitaria e separatista fino alla chiusura del giornale, nel 1903. Vincenzo Manzione (che ancora alla fine degli anni novanta subì un breve arresto per la sua attività), fondò il Guelfo e poi Il nuovo Guelfo, anche questo su posizioni di rigida lealtà cattolico-borbonica. Il 1872 rappresentò idealmente il passaggio dalla fine della resistenza armata alla battaglia politica. Il cardinale Riario Sforza seguì una linea scelta dallo stesso Pio IX per le amministrative di Roma, con la costituzione dell’Unione romana

Per la prima volta si decise di partecipare alle elezioni a Napoli. I consigli provinciali e comunali non prevedevano l’atto di giuramento al re e alle leggi italiane, considerato un ostacolo insormontabile dal Vaticano; erano quindi un terreno di battaglia possibile. Questa valutazione tattica non modificò la scelta intransigente dell’astensionismo politico. Il Concilio Vaticano del 1869-70 aveva proclamato il dogma della infallibilità pontificia. Fu seguito dalle disposizioni del 1874 della Sacra Penitenziaria Apostolica che sancì il divieto formale ai cattolici di partecipare alla vita pubblica italiana (era Riario Sforza un alfiere di questa linea). Le chiese di Napoli spesso registrarono prediche «anti-italiane». La Discussione contrastò brutalmente tentativi di ambienti conciliaristi con la realtà unitaria, come la riunione di casa Campello (1878-79) o le posizioni del conte Del Pezzo e di altri cattolici conservatori, in favore della partecipazione alle urne dopo la riforma elettorale del 1882. La compenetrazione dei partigiani duo-siciliani nella battaglia cattolica era completa. Il cardinale Riario Sforza, in vista delle elezioni amministrative, fondò una organizzazione, chiamata; Associazione degli interessi economici.

I legittimisti cattolici borbonici ampliarono una rete di mobilitazione capillare sperimentata con la raccolta delle firme per le ventuno petizioni inviate a Francesco II nel 1862-63. Per la prima volta le sagrestie di Napoli si mobilitarono, furono creati comitati operativi nelle 12 sezioni elettorali in cui all’epoca divisa la città, ognuno aveva tre strutture locali. Furono raccolte, undicimila iscrizioni. Il 25 giugno il cardinale inviò una circolare con cui invitò i cattolici a votare compatti e ai parroci a mobilitarsi. Le sedi della Chiesa, compreso l’episcopio, diventarono centri elettorali. Per qualche giorno la battaglia conquistò le prime pagine nazionali, la sinistra napoletana denunciò un tentativo di cambiare la direzione politica del Paese, Ruggero Bonghi chiamò a raccolta gli italiani, il ministro degli interni Giovanni Lanza inviò una circolare per chiedere ai liberali di presentarsi compatti alle urne. Senza esito perché non si superarono le divisioni tra i gruppi unitari. Il repubblicano Giorgio Asproni nel suo diario annotò i timori per questa frammentazione. Anche le liste cattoliche non mancarono di trascinare al proprio interno le faide tra i legittimisti, ma in proporzioni minori. Il principe di Torella, Nicola Caracciolo, fu posto al vertice del comitato elettorale e pose il veto sulla candidatura di Cognetti a cui non furono perdonate presunte debolezze verso gli unitari. Asproni prese atto che anche preti e monaci erano in campagna elettorale. Così nel 1872 i cattolici e borbonici vinsero le elezioni amministrative di Napoli (dopo 11 anni di egemonia unitaria), eleggendo 43 consiglieri su 80 (tra questi 19 nella lista iperlegittimista-borbonica del principe di Torella, gli altri in formazioni concordate, 14 insieme a gruppi moderati), poi in un complicato quadro di accordi, un cattolico liberale, il conte di Acerra, Francesco Spinelli, fu nominato sindaco. Asproni scrisse che le divisioni tra unitari avevano rialzato «il cadavere del clericume, l’hanno rimesso in potere e in onore». La maggioranza durò poco, ma il comune di Napoli restò al centro della battaglia politica. I legittimisti vi concentrarono tutte le loro forze, con l’obiettivo della buona e corretta gestione, cercando di depoliticizzare, nella rappresentazione pubblica, questa versione dell’impegno militante. In una città rilevante demograficamente e culturalmente, dove il grande intervento per il

Risanamento ebbe come protagonista il loro spietato nemico degli anni del brigantaggio, l’ex questore Nicola Amore, la vita politica aveva dimensioni rilevanti ed era un palcoscenico nazionale. Le elezioni successive (1873 e 1874) non diedero buoni risultati ai legittimisti, che ebbero invece una parziale rivincita nel 1875, in alleanza con gruppi moderati. Nel 1880-81 proposero liste che portarono in consiglio una nuova generazione di cattolici ed esponenti della tradizionale nobiltà borbonica. Nel 1885, invece, i liberali fecero blocco e la lista del Comitato cattolico ne uscì completamente distrutta (ebbe un solo consigliere). Cognetti, che sin dal 1867 si era battuto contro l’intransigentismo elettorale, spesso trovò con la sinistra originali contatti (nel 1876 sostenne l’amministrazione del duca di Sandonato).Un cambiamento si annunciò dopo la morte di Riario Sforza (1877), quando giunse al vertice della Chiesa napoletana Guglielmo di Sanfelice, dei duchi di Acquavella, meno radicale. Ma il clima cambiò lentamente, nacque un comitato elettorale distinto da quello fondato da Sforza. Ma vennero pure violentemente critiche verso il nuovo cardinale perché accettò di benedire le case aperte con il Risanamento alla presenza dei reali di casa Savoia. A partite dagli anni ottanta, con l’introduzione dell’Opera dei congressi (a Napoli nel 1879) e soprattutto con il I° Congresso Cattolico di Napoli (1889-1890) ci furono segnali diversi, spinti anche dalla sequenza di sconfitte elettorali registrati nelle comunali fino agli anni novanta, seguite dallo scioglimento delle organizzazioni per creare dopo la morte di Sforza, il Comitato Napoletano e poi l’ Unione Napoletana.

La militanza dei vinti non si limitò alle battaglie dei cattolici meridionali, perchè la causa perduta borbonica raccolse l’esperienza del primo decennio di resistenza rielaborandola, e consolidando temi ed argomenti degli anni del patriottismo di guerra in una propria rappresentazione mitica. Pietro Calà Ulloa continuò ossessivamente a lavorare pubblicando a getto libri, dal brigantaggio calabrese alla biografia di Carlo Filangieri. Questa, uscita nel 1877, fu una sorta di testimonianza conclusiva della sua storiografia napoletana. Per Ulloa il Decennio francese fu epoca di stragi, guerre civili, fratture drammatiche, invece la Restaurazione fu una stagione di ritmo e consolidamento dello Stato. La biografia del principe di Satriano riassumeva questa sua valutazione della storia nazionale, Ulloa concluse il volume scrivendo che Filangieri «era vanto di patria» per questo «i napoletani, per lunghe età, lo ricorderanno». Morì nel 1879, ma questa rielaborazione, mise nell’angolo il suo antico rivale letterario, Giacinto De Sivo, anche lui morto, e non considerato da una parte dei borbonici. Ma i suoi libri torneranno in auge solo tempo dopo. Il maresciallo Giosuè Ritucci, ultimo comandante in capo dell’ex re, scrisse sullo storico che «dei maligni lo avevano indotto a credermi l’efficienza delle sventure toccate al il nostro esercito sulla linea del Volturno; e più a pormi fianco in vista di tradire». Ma anche Giovanni De Torrenteros motivò i suoi scritti come necessità di difendere il suo onore dalle necessità del libro «nel quale spesso si è fatta menzione di me con oltraggio alla verità e alla giustizia». I legittimisti si batterono per la loro versione della storia napoletana e della fine del regno. L’ex cappellano militare Giuseppe Buttà che era stato tra gli assolutisti intransigenti a Roma, nel 1877 pubblicò tre volumi sui Borbone di Napoli. Era la raccolta delle dispense che la Discussione aveva venduto insieme al giornale. Buttà divide la storia dell’antico Stato in due parti, «una di ricostruzione praticata in questo regno da due Re di Casa Borbone, l’altra di lotta tra il vero progresso e la rivoluzione. La prima epoca comincia dal 1734 e finisce nel 1793; la seconda da quest’anno sino al 1860». I volumi erano presentati con un richiamo all’orgoglio nazionale napoletano, fatto di grandi tradizioni tali da «fare esclamare a molti di voi: anche noi apparteniamo a quelle belle contrade». Qualche anno dopo Francesco Scamaccia Luvarà riannodò le fila di questo passato collegando la resistenza anti-repubblicana del 1799 a quella del Decennio francese, l’epopea di Ruffo e le rivolte del 1806-8. Nell’introduzione al libro di Angelo Insogna su Francesco II, tracciò una storia in cui la dinastia borbonica e l’indipendenza napoletana erano strettamente connesse. Le guerre di Carlo III, la politica di Ferdinando IV, la lotta contro gli invasori francesi e i liberali traditori avevano unito una parte del napoletano per «per il RE e per la PATRIA». Questo inedito patriottismo maturò un passato epico e glorioso, denso di primati, sereno e legalitario, il capitano Tommaso Cava disse che Ferdinando II abolì di fatto la pena di morte; talchè in 12 anni di perenne cospirazione contansi appena due sole esecuzioni capitali. Anche se la spudorata setta lo ha dichiarato un Nerone che popolava di cadaveri il suo Regno, mentre oggi si tace quanto tutti sanno che in soli 3 anni sono stati sgozzati 12 mila individui, oltre allo scempio di Pietrarsa, altro nuovo genere di empietà inaudita. Per l’ex colonnello Giovanni Delli Franci le istituzioni duo-siciliane erano «le migliori che mai si cercano tra le più incivilite nazioni di Europa, opera delle elucubrazioni di Ferdinando II.

Così la denuncia della spoliazione delle ricchezze fu affiancata ad una patria distrutta che cercò di coltivare i sentimenti e frustrazioni. La protesta diffusa nelle province pugliesi descrisse un mondo di prosperità finito «dopo nove anni di concussioni, e di soprusi; dopo le sofferte espoliazioni, e rapine di ogni genere,dopo tante leggi di sangue, i brogli del plebiscito, scrisse Cava, utilizzando «mezzi violenti e repressivi». Per Filippo Pisacane il regno non sarebbe caduto senza inglesi e francesi, le «due Potenze i cui rappresentanti erano i più forti sostegni del Piemonte».

Il nucleo concettuale del neo patriottismo duo-siciliano combinò la fedeltà dinastica con l’epopea della difesa della libertà nazionale, anche con il brigantaggio. Bisognava fare i conti però con la spaccatura radicale del regno che aveva visto buona parte delle sue élite, aderire al nuovo Stato italiano. I ricordi dei sacrifici sopportati tra il 1860 con base epica, delle settimane del Volturno e di Gaeta, e l’esilio riempirono comunque saggi storici e articoli dei giornali, mentre continuarono ad uscire i volumi dei combattenti. Luigi Gaeta motivò la pubblicazione delle sue memorie dell’assedio di Messina con l’esigenza di difendere «il nome dell’esercito napolitano», la «vera gloria nazionale» delle Due Sicilie.

Ritucci scrisse che «molti generali avevano vilmente tradita la causa del Re e perciò del Regno, ed altri l’aveano abbandonato. Dovevo volgergli anch’io le spalle nell’estremo bisogno di fidi al suo trono?».

Ludovico Quandel, ultimo dei tre fratelli combattenti, diventato una icona borbonica, ricordò quando la guarnigione di Gaeta salutò per l’ultima volta il re e la regina. Era alla testa della colonna che uscì dalla fortezza per accogliere l’onore delle armi dei piemontesi prima di consegnarsi: «l’ordine di marciare è dato, e man mano i Corpi cominciano il loro movimento prima di uscire dalla piazza. È questo l’ultimo atto della monarchia e dell’Esercito delle Due Sicilie: fra pochi minuti l’uno e l’altro passeranno nel dominio della storia».

Così il legittimismo recuperò il re eroe, il disprezzo per lo straniero invasore, il tradimento dei generali, gli eroi e i soldati. Diede l’esempio lo stesso Buttà, che raccontò la difesa del regno a cui aveva partecipato dal primo scontro in Sicilia fino a Gaeta. E i concetti,che evocavano i valori patriottici napoletani del 1860-66, furono sviluppati e finirono per avvicinarsi alla morfologia del discorso unitario italiano allo stesso tempo rinnovarono i materiali della nazione perduta. I giornali pubblicarono una edizione in legittimo dialetto napoletano del libro di Garnier sull’assedio di Gaeta. Delli Franci, uomo di spicco in tutte le operazioni del 1860, fu autore di una fortunata Cronaca della campagna d’autunno. Nel suo volume il re e i soldati napoletani lottarono con coraggio per la libertà delle Due Sicilie e il controllo dell’infranta l’autonomia. Anche per Ritucci, il Volturno aveva affermato la volontà di resistenza dei napoletani. Questa intensa lotta ebbe sempre tra i suoi obiettivi i traditori, coloro che avevano consentito il crollo del regno. Filippo Pisacane, in esilio con la famiglia reale a Roma e poi a Nizza fino alla sua morte, sostenne che fu la scelta della costituzione voluta da una minoranza il crollo del regno.

Carlo Corsi, ufficiale di artiglieria a Gaeta e attivissimo organizzatore del reducismo borbonico, sfidò a duello l’ex ministro di Francesco II e ora potente generale italiano, il «traditore» Giuseppe Pianell. La sua campagna contro i rinnegati del vecchio esercito duosiciliano, combattuta insieme all’ex capo di Stato maggiore di Messina, Luigi Gaeta, durò mezzo secolo. Quando la vedova di Pianell annunciò la pubblicazione di lettere e ricordi del marito curata da un suo attendente, il capitano Corsi pubblicò un primo libro di confutazioni per «tenere alto il nome napolitano tanto oltraggiato ed avvilito», smontando pezzo per pezzo, con documenti e ricordi, l’azione di ministro della guerra di Pianell nel 1860. Ancora nel 1899, mentre furono organizzate grandi celebrazioni ed eventi per l’anniversario della Repubblica napoletana, il Nuovo Guelfo propose di sostituire la stele ora in Piazza dei Martiri, con una colonna infame dedicata a Romano, Spinelli, Pianell e Nunziante, i traditori della patria. Nella leggenda nera della causa perduta duo-siciliana erano lo specchio rovesciato del patriottismo autentico. Il capitano Cava fece il caso di Antonino Nunziante, fratello del traditore per eccellenza, il generale Alessandro Nunziante, «che determinamente disse che l’onore suo era legato al suo dovere», partecipando a tutte le battaglie egli scontri dell’estrema difesa del regno, anche in presenza di accusare infamanti. Anche il nemico interno era racconto Enrico Cosenz, scrisse Buttà, era stato«antico uffiziale napoletano, disertore del 1848, assaltò con gente straniera i suoi antichi connazionali e compagni d’armi». Per il colonnello Delli Franci, la responsabilità della guerra civile era dei rivoluzionari napoletani «che sciogliendo il freno alle idee, ruppero in eccessi di smodate aspirazioni verso nuove forme governative», provocando la disgregazione delle istituzioni:

Il parlamento nazionale degenerò in aperta cospirazione, con atti che simulano un carattere di legalità; al tempo stesso che cominciava una sanguinosa lotta fra ribelli e milizie nazionali, la città divenne teatro di quelle orrende scene di sangue cittadino, che nelle guerre intestine si versa in olocausto ai capricci di una falso ed esagerato amor patrio.

Erano stati loro opere un successo in queste belle contrade faziose, come quelle dei fratelli Bandiera nei lidi di Cosenza, di Pisacane a Sapri ed altre di simil natura.

La monarchia resta l’unica vera bandiera. In tutte le occasioni dei compleanni del re si continuarono a stampare manifesti che, a nome della «maggioranza dei napoletani», auspicavano che la restaurazione di Francesco II li liberasse del «dominio sabaudo». Nella protesta pubblicata dall’aristocrazia borbonica napoletana nel 1869 il re «per l’indipendenza della Patria à combattuto».

Continua a rappresentare un riferimento simbolico anche per la nobiltà legittimista europea. Tra gli altri, il club aristocratico di Marsiglia, Sauvéteurs du Midi, lo nominò presidente onorario nel 1868 e una città laziale, Cori, lo elesse nella sua società letteraria.

Quando nacque la figlia nel 1869 (morta subito dopo) vi giunsero numerose lettere dalle ex province, conservate in parte nel suo archivio: un sacerdote napoletano gli scrisse commosso per «il tanto aspettato avvenimento» e un gruppo di curati di Caltanissetta, «eco fedele della nazione siciliana», si dissero disposti a dar la vita per la difesa del Regno.

Francesco Spinelli, Conte di Acerra, nacque a Napoli, di nobile famiglia. È stato sindaco di Napoli dal 1872 al 1874. Fu eletto senatore del Regno d’Italia dal 1892 al 1897, anno della sua scomparsa.
Fu membro di diverse istituzioni, come del comizio agrario di Napoli, del consiglio direttivo degli educatori femminili di Napoli, soprintendente dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Fu anche presidente generale dell’Esposizione di Belle Arti di Napoli. Possedeva vaste proprietà fondiarie nella storica tenuta di famiglia, la contea di Acerra.

I legittimisti borbonici, dopo il 1861 combatterono contro i piemontesi anche con i giornali, che ebbero vita assai difficile, e con circoli e associazioni. Era membro del circolo Gennaro Pisacane, duca di San Giovanni, nipote di quel Carlo Pisacane, eroe dell’impresa di Sapri ucciso a Sanza nel luglio del1857 dai contadini. Filippo, fratello di Carlo, fu invece sempre un fervente e coraggioso legittimista, seguì Francesco II in esilio, poi si stabilì a Parigi e non tornò mai più in Italia. Il figlio Gennaro ereditò da lui e conservò intatta la fedeltà ai Borbone. Una figura importante nel mondo del legittimismo borbonico fu il conte Enrico Statella di Cassaro, figlio del generale Antonio Statella, che seguì in esilio Francesco II. Il conte Enrico, “gran signore, carattere fiero e generoso”, che aveva combattuto nell’esercito di Francesco II come ufficiale degli ussari, ebbe come cognato il marchese Antonio di Rudinì, che fu sindaco di Palermo, convinto “savoiardo”, prefetto di Napoli e ministro dell’Italia unita. La polizia napoletana, sebbene sapesse della sua stretta parentela con il di Rudinì – o forse, come sospettarono i maligni, proprio per ordine del cognato filopiemontese – sottopose il conte Enrico e la sua casa a numerosi e rovinosi controlli, e durante una di queste visite i poliziotti osarono ordinare al conte di spogliarsi nudo, per controllare se nascondesse armi. Nel maggio del 1876 il principe ereditario Umberto e la moglie Margherita, che due anni dopo sarebbero diventati Re e Regina d’Italia, visitarono Napoli, accolti dalla nobiltà amica con feste e banchetti. Un giorno, in via Caracciolo, che dame e “galantuomini” affollavano per la consueta passeggiata, il conte Enrico Statella passò accanto alla carrozza della principessa Margherita, e non si inchinò, né salutò. Anzi, due ufficiali “italiani” raccontarono poi che il conte, in segno di disprezzo, si era “calcato il cappello sulla testa”. Uno dei due ufficiali, il tenente Basile, lo sfidò a duello. Lo scontro, al primo sangue, si svolse in una villa a Fuorigrotta, mentre una folla enorme, in piazza Vittoria, aspettava di conoscere l’esito del confronto. Il Basile venne ferito al braccio quasi subito, e i suoi padrini riconobbero immediatamente che la vittoria era dello Statella. Il quale dichiarò, cavallerescamente, che sebbene non gli facesse piacere vedere i Savoia seduti sul trono dei Borbone, egli non aveva offeso in alcun modo la principessa Margherita, poiché, in quanto nobile siciliano e ufficiale dell’esercito napoletano, egli sapeva come comportarsi nei confronti di una Signora.

Carlo Corsi, nato a Napoli, il 24 maggio 1830, da Luigi Corsi, colonnello d’artiglieria, e direttore della prima officina meccanica e fonderia, detta di “Pietrarsa”, che sorge ancora nella località Croce del Lagno sita dove il paese di S. Giovanni a Teduccio diventata Portici. (Oggi sede del museo ferroviario)
Seguendo l’esempio paterno, all’età di nove anni, entra «a mezza piazza franca» nel Real Collegio militare della Nunziatella. Completata la formazione, il 9 ottobre 1849, esce dalla Scuola con il grado di alfiere d’artiglieria, ed è incorporato nel Corpo d’Artiglieria dell’esercito borbonico. Prestando servizio nel Reggimento Reale Artiglieria, dove prosegue la carriera. Dopo undici anni, da capitano ottiene il suo primo comando di batteria, dove sostituisce il traditore Nicola Di Somma, che aveva abbandonato la sua batteria e al Volturno trovandosi in riserva nella piazza di Capua fu chiamato dal Re in persona a coadiuvare l’attacco sul paese di S. Tammaro fortificato dai garibaldesi. Al comando del generale Sergardi appoggiò la cavalleria è con molta intelligenza e coraggio altissimo distruggendo molte barricate fino ad occupare il paese. Per questa sua esemplare azione fu decorato con la Croce di diritto di San Giorgio. Il 29 ottobre 1860, la sua batteria fu la prima ad aprire il fuoco contro gli invasori che furono respinti con grandi perdite. Sconfinato con la sua batteria nello Stato Pontificio, in dicembre raggiunse Gaeta, partecipando così all’ultima difesa del Regno. Il 17 gennaio 1861, viene promosso maggiore: «… per il valore ed il coraggio dimostrato per la difesa del regno». Dopo la resa di Capua, il 2 novembre 1860, con il meglio delle forze dell’esercito napoletano, passa alla difesa di Gaeta, assediata dalle truppe garibaldine e piemontesi. Durante l’assedio, combatte con indomito coraggio nei nefasti eventi bellici, tanto da poter gloriarsi di aver servito il suo re fino all’ultimo e di essere uscito da Gaeta nel 1861 «con le micce accese», segno di riconoscimento per l’onorata resistenza da parte delle truppe assediate. Caduta la piazzaforte, si ritira in esilio a Roma per alcuni anni. Tornato a Napoli, «impugna la penna» per difendere il Reame, fondando il quotidiano Il Contemporaneo di Napoli, che si pubblicò dal 1871 al 1876.
Se con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, molti ufficiali borbonici passano nell’esercito sabaudo, fedele al suo unico giuramento, si rifiuta di entrare nell’esercito piemontese con lo stesso grado di maggiore. Torna alla vita civile, e per il resto della sua vita, si occupa di difendere la causa duosiciliana, come redattore del più diffuso quotidiano legittimista “La Discussione”, e prima ancora fondatore del quotidiano “Il Contemporaneo di Napoli”. Sulle pagine del quotidiano La discussione, si firma «… Carlo Corsi, maggiore delle artiglierie borboniche, capitolato di Gaeta», e descrive le vicende militari della caduta del regno, pubblicando a puntate “Le memorie di un veterano”.
Rimasto senza parenti e con l’unico aiuto di una misera pensione di ex ufficiale borbonico, si vide costretto a vendere uno dopo l’altro tutti i suoi beni, fra i quali la bella villa Corsi di Portici, all’angolo del Largo della Riccia.
Nel 1861, ha scritto l’opuscolo dal titolo Cenno biografico di Giuseppe Salvatore Pianell, destinato a fare passare delle spiacevoli giornate al generale prezzolato grande traditore del regno.
Una copia dell’opuscolo, la invia allo stesso generale Giuseppe Salvatore Pianell (Palermo, 9 novembre 1818 – Verona, 5 aprile 1892), ex ministro della guerra del Regno delle Due Sicilie, trasmigrato nell’Esercito italiano, accompagnata da una nota a termine che diceva: “Và che la maledizione della Patria ti perseguiti fin nelle viscere dell’inferno con tutti i Traditori tuoi compagni”. Nel 1887 diede alle stampe l’opuscolo Il commendatore Luigi Corsi e lo stabilimento di Pietrarsa, per difendere dagli attacchi de “Il Pungolo”, giornale liberale, la politica protezionistica del governo borbonico.
Nel 1903, oramai settantaduenne, diede alle stampe «… un libretto che ebbe addirittura due edizioni, intitolato: “Confutazione alle lettere del generale Pianell”, nel quale rispondeva alla sua maniera, alle affermazioni contenute nelle memorie del generale voltagabbana da poco pubblicate».
Autore di altri testi storici e traduttore dal francese di alcuni libri come “Lettere napoletane” di Calà Ulloa e della biografia di Francesco II a cura di Angelo Insogna.
Nello stesso anno, per difendere l’operato e le azioni dell’esercito delle Due Sicilie (anche detto esercito Napoletano e non Borbonico, in quanto sin dal 1744 esercito nazionale e non milizia mercenaria familiare) nella campagna militare del biennio 1860-1861», pubblica il volume “Difesa dei soldati napoletani”. Il maggiore d’artiglieria Carlo Corsi muore a Napoli, il 2 febbraio 1905.

Esempio di impavido uomo e grandissimo soldato, a te tutti gli onori per quel Regno che con ardore hai cercato di salvare.
Sono questi gli uomini che andrebbero ricordati intitolandogli strade e piazze, invece per essi solo l’oblio.

Pietro Calà Ulloa, acque a Napoli nel 1801, dal Duca di Lauria Francesco e da Donna Elena O’Raredon, nobildonna irlandese. È il primo di tre fratelli fedelissimi alla dinastia borbonica (gli altri due sono Girolamo e Antonio).
Frequentò il Real Collegio Militare della Nunziatella, ma si dedicò solo per brevissimo tempo alla carriera militare. Successivamente si dedicò allo studio, con una imponente produzione di saggi di argomento storico e letterario. Dopo aver svolto le funzioni di avvocato nel 1836 fu assunto alla Corte suprema di Napoli.
Esercitò dapprima le mansioni di magistrato in Sicilia e Procuratore del Re a Trapani, ove nei suoi rapporti descrisse il fenomeno della mafia in Italia. Costituzionalista, fu tra coloro che parteciparono al progetto di dettato costituzionale, approvato da Francesco II.
Fedele ai Borbone, Pietro Ulloa fu l’ultimo Primo Ministro napoletano di Francesco II, carica che gli venne conferita da Francesco II quando aveva già lasciato Napoli. Durante l’Assedio di Gaeta, fu responsabile dei dicasteri dei Lavori Pubblici, Istruzione pubblica, Affari ecclesiastici, Grazia e Giustizia, Interno e Polizia. Ricoprì l’incarico di Primo Ministro anche nel governo in esilio a Roma.
Ritornato a Napoli nel 1870 vi rimase sino alla morte; si dedicò agli studi storici, tra i quali i più noti sono: Intorno alla storia del reame di Napoli di Pietro Colletta (1877) e l’opera in gran parte ancora inedita Sulle rivoluzioni del regno di Napoli. Le sue numerose opere sono interessanti per la luce che gettano sull’ultimo periodo storico visto da parte borbonica. Ulloa è considerato inoltre uno dei padri dell’idea confederativa meridionalistica: furono infatti particolarmente apprezzate le sue argomentazioni in materia, secondo alcuni di origine neoguelfa (tesi peraltro dimenticate per oltre un secolo e solo recentemente riscoperte) su una possibile unione confederativa della penisola italiana, alternativa alla unità d’Italia.

Ludovico Quandel, avviato alla carriera militare dal padre, come i fratelli Pietro, Giuseppe e Federico, entrò il 21 aprile 1855 nel Real Collegio Militare della Nunziatella da cui uscì il 19 ottobre 1858 alfiere del Real Corpo di Artiglieria delle Due Sicilie. Col grado di primo tenente, il 28 luglio 1860 prese parte alla battaglia di Capua, alla battaglia del Volturno e alla battaglia del Garigliano, al comando della Batteria nº 5.
Successivamente fu tra i protagonisti della difesa dell’ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie al comando di due batterie sul fronte di mare.
Per il valore dimostrato, fu promosso capitano sul campo e gli fu conferita la croce di Cavaliere di Merito dell’Ordine costantiniano di San Giorgio.
Dopo la resa di Gaeta, fu imprigionato a Capri e successivamente a S. Maria.
Come altri suoi colleghi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, una volta scarcerato fu invitato ad entrare nel neonato esercito del Regno d’Italia. Preferì ritirarsi a vita privata a Monte di Procida con la moglie, la cugina Giuseppina Vial.
Nominato vice sindaco della borgata Monte del comune di Procida, con atto del 27 novembre 1901, incominciò a svolgere un’opera di cura amministrativa della piccola comunità, all’epoca frazione del comune di Procida.
Grazie al suo contributo, il 27 gennaio 1907, il re Vittorio Emanuele III firmava il decreto, controfirmato dall’allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti, di distacco della borgata dal comune di Procida. Non volle mai concorrere alla carica di Sindaco del neonato Comune per non giurare fedeltà alla monarchia sabauda, essendo rimasto sempre fedele a Francesco II di Borbone.

LA STORIA DI NAPOLI RACCONTATA DAI CANTI POPOLARI: “In galera lì panettieri”

I napoletani hanno da sempre cantato in ogni situazione, e non solo per raccontare l’amore, la bellezza, il dolore, la gioia, ma anche per vantare la merce che vendevano, per esprimere la loro devozione alla Madonna, per comunicare con i carcerati, e per commentare eventi storici, motteggiare un personaggio, rivendicare, protestare…

Ripercorrendo rapidamente la storia di Napoli, ci si accorge che dal XII secolo in poi, i canti scandiscono le epoche. E non è detto che, prima del suddetto periodo, non si sia cantato a Napoli: è solo che gli archivi prima di allora rimangono muti.

Il più antico canto del genere è indubbiamente quello delle “Lavandaie del Vomero” che, intonando Tu m’aje prummise quatte muccatora / oje muccatora, oje muccatora!, reclamano al regnante di turno le terre promesse (muccaturo, sta per fazzoletto, fazzoletto di terra). Il canto risale al XII-XIII secolo e si cantava ancora nel secolo XV, tant’è che molti scrivono che fosse diretto ad Alfonso d’Aragona. Agli inizi del ‘400, si commentava nelle strade l’assassinio di Gianni Caracciolo, il troppo potente amante della regina Giovanna II. Nel periodo vicereale, nonostante i divieti, le vie e viuzze echeggiavano di meravigliose villanelle ma anche di ritornelli satirici sulle avventure di Palazzo. E’ alla fine del ‘500 che risale “In galera li panettieri”, rielaborata da Roberto De Simone. Nacque a causa di una famosa serrata dei panettieri come risposta al mancato aumento del prezzo del pane da ‎ parte del Viceré, che si era opposto per paura di tumulti popolari:

In galera li panettieri
mò ca s’erano arreccuti
tutti s’erano resoluti
deventare cavalieri
in galera li panettieri
Deventare cavalieri In galera li panettieri. Mò ca s’erano ingranduti

Nun vedevano li paput Ca turnavano comm”a ieri In galera li panettieri. Se credevano già baroni D’affamà la pupulazione Nun se devano penzieri In galera li panettieri. Oh che spasso che bellu sfizio Quanno venne la giustizia Ca diceva: “mò che ne spieri” Pave hoggi chello d’ajeri

In galera li panettieri.

Napoli ha una storia ricca di sommosse popolari, legate all’ingiusta distribuzione delle ricchezze e quindi alla miseria di una gran parte degli abitanti. La canzone (una Villanella) “In galera lì panettieri” risale addirittura al 1577, quando durante una carestia la folla si scagliò contro i fornai, accusandoli di speculare sul prezzo del pane. I panettieri vengono accusati di essersi voluti arricchire alle spalle della popolazione: si credevano già importanti come de nobili (“cavalieri” e “baroni”) quando, con grande soddisfazione dei poveri affamati, vennero arrestati.

Ma la descrizione di questa quasi ‎‎“rivolta del pane”, una delle tante accadute in Italia, dall’assalto ai forni milanesi del 1628, ‎descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”, alla “Strage del pane” a Palermo nel 1944, potrebbe ‎anche tranquillamente riferirsi proprio alla rivoluzione dei lazzari napoletani guidati da Masaniello ‎contro le gabelle spagnole e le imposte sui beni di prima necessità…‎

Alla fine del 500, in pieno vicereame spagnolo, l’amministrazione del potere in città era affidata agli eletti dei seggi nobili (con sei rappresentanti) e a quello del seggio popolare (un solo eletto). Il rapporto, dunque, era di cinque voti a uno, decisamente sbilanciato a favore dei nobili, che delle istanze popolari se ne fregavano allegramente. Nel 1585 la sciagurata decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il conseguente aumento del prezzo del pane, provocò una drammatica carestia che sfociò in una violenta insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell’Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace. Che in quell’occasione indossò i panni del perfetto caprio espiatorio.
Il poveretto, al termine di un’assemblea imposta da una moltitudine tumulante, fu giudicato colpevole per aver dato il suo assenso, con gli altri eletti della città, all’esportazione di grano. Ma sarebbe meglio dire per non essere riuscito a evitarla. Né riuscì ad evitare la «beffa del pane». Gli eletti dei seggi nobili, infatti, avevano decretato la riduzione del peso del pane (da 28 a 24 once) lasciando tuttavia inalterato il prezzo: 4 grane. A difesa di Starace bisogna dire che in quei giorni era bloccato a letto da una malattia debilitante. A ogni modo, pur malato e privo di forze, l’Eletto provò a mediare, ma non fece in tempo a far valere le sue ragioni. E pagò con la vita i suoi errori.
Un luogo, più di altri, ci riporta a quegli anni, a quel clima, a quell’insurrezione che precedette di sessant’anni la rivolta di Masaniello. Quel luogo è Sant’Agostino alla Zecca, dove si tenevano le adunate popolari e dove aveva sede il Seggio del Popolo. Qui l’Eletto Starace, che aveva cercato (senza riuscirci) di rimediare alla scellerata decisione del viceré, fu trascinato dalla folla inferocita e accusato pubblicamente di non aver tutelato gli interessi del popolo. Tra insulti, sputi e bestemmie, il capro espiatorio fu condotto alla gogna. Per sottrarsi al linciaggio cercò di nascondersi in una cappella della chiesa, ma fu raggiunto dai manifestanti più scalmanati, ferito con una stoccata al petto e rinchiuso, ancora vivo, in una tomba della cappella. Poi, agonizzante, fu tirato fuori dal sepolcro, portato di peso, ormai morente, in piazza della Sellaria (oggi Piazzetta Archivio di Stato, all’epoca uno dei quartieri più popolari della città) e finito a colpi di pietra. Infine fu squartato, mutilato del cuore, delle budella e definitivamente smembrato. I resti vennero sparsi per le vie della città. E tanti saluti al rappresentante del popolo.
L’uccisione di Starace fu carica di macabri rituali simbolici: «strascinamento», mutilazione ed evirazione del cadavere, ostentate minacce di cannibalismo, antropofagia, vendita della carne «cristiana» (vedi Rosario Villari, Un sogno di libertà). Il sangue di Starace chiamò altro sangue. Contro i panettieri, accusati più o meno subdolamente dalle autorità di speculare sulla carenza di grano, si scatenò la vendetta della plebe.

La rivolta del pane mostrò una notevole capacità di mobilitazione degli strati subalterni della popolazione. Il duca d’Ossuna stroncò l’insurrezione alla maniera sua (e della Corona di Spagna): con un bagno di sangue. Da un lato si rimangiò le disposizioni sul pane: anzi, fece importare farina. Dall’altro, per vendicare l’Eletto del Popolo, organizzò una delle più terribili cacce all’uomo della storia del vicereame. Le vittime furono decapitate e i loro corpi dilaniati come quello del povero Starace. Mani e teste mozzate, a futura memoria, furono appese in una gabbia di ferro alla Sellaria, dove abitava l’Eletto. Il duca d’Ossuna, un viceré megalomane e sanguinario, sarebbe passato alla storia per aver completato il restauro del famoso acquedotto della Bolla. Tolse il pane ai napoletani, ma non gli fece mancare loro l’acqua. Un anno dopo il massacro, fu sostituito dal conte di Miranda Juan de Zunica.
Il martirio dell’Eletto Starace è ricordato oggi da una strada che porta il suo nome: via Eletto Starace, appunto. È la traversa che dal numero 128 del corso Umberto conduce, dopo una breve rampa di scale, in via Ferri Vecchi e in via Lucrezia d’Alagno, nei pressi della fontana della Sellaria. È la strada attraverso la quale l’uomo del popolo fu condotto al martirio. Piazza della Sellaria e Sant’Agostino alla Zecca erano a quei tempi tra le zone più popolari dela città. La Sellaria, oggi piazzetta Archivio di Stato, è stata fino alla metà del 400 sede del Seggio del Popolo. Quando il Seggio fu abbattuto la sede fu trasferita proprio a Sant’Agostino alla Zecca.
La chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, teatro del supplizio dell’Eletto Starace, fu chiamata così perché, nel 1681, vi fu edificato accanto l’edificio della Zecca. In tempi remoti in questa zona della vecchia Napoli, fuori porta Forcellese, era stato eretto un cenobio di suore benedettine. Carlo I d’Angiò, che ampliò la città portandone le mura fino a piazza Mercato, aveva talmente a cuore il benessere delle nobildonne napoletane in ritiro nel vecchio cenobio da far ampliare il convento, dotandolo di ricche rendite.
A Napoli c’è un vicoletto che, più di altri, ricorda l’antica e nobile categoria dei panettieri. Si snoda parallelamente a via Duomo, inerpicandosi da via San Biagio dei Librai a piazza Girolamini. È il «vico nero» che «non finisce mai» e che ispirò il celebre brano Carmela, frutto del sodalizio tra due geni, il poeta Salvatore Palomba e il maestro Sergio Bruni. Vico Panettieri è chiamato così fin dal XIV secolo per la presenza, nelle vicinanze, di numerosi forni pubblici. Vi sorgeva il Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, poi divenuto seminario arcivescovile. Attualmente ospita le suore di Madre Teresa di Calcutta, che da anni mettono a disposizione i locali dell’antico convento, a due passi dalla chiesa dei Girolamini, per accogliere chi non riesce a garantirsi neanche un pasto al giorno.

Giovan Vincenzo Starace era un ricco figlio di commerciante di drappi e seta, forse nativo di Piano di Sorrento, che nel 1576, fu nominato, grazie alle sue fortune personali, “eletto del Popolo napoletano” governandolo per due anni; rieletto poi nel 1583, per la sua insaziabile ambizione e dall’ansia di nobilitazione, cominciò a firmarsi come “Storace” per mascherare le sue origini “borghesi”. Altezzoso e tronfio, passò alla storia non per essere riuscito a nobilitare la sua “casata” facendo sposare il figlio Marzio con la nobile Diana d’Afflitto tant’è che il nome dei loro discendenti divenne, appunto, Storace d’Afflitto, ma per la drammatica rivolta popolare del maggio del 1585 causata dalla penuria di grano a Napoli a seguito della spedizione in Spagna da parte del Vicerè Pedro Girón duca d’Osuna, su richiesta del Re Filippo II, di 400.000 tomoli di grano che avrebbe dovuto porre fine ad una terribile carestia che stava mettendo in ginocchio l’intera Spagna. Per fronteggiare il problema che questa infausta decisione creò a Napoli, in una riunione del Parlamento dei Sedili i cinque Deputati dei Seggi nobiliari proposero di diminuire il peso di vendita del pane, con aumento del prezzo. Due delegati del Popolo, in sostituzione di Starace assente per malattia, si opposero a questa assurda proposta e la decisione pertanto fu rinviata. Incominciò a serpeggiare in Città, una protesta nei confronti di Starace, ritenuto, ingiustamente, fautore della proposta, solo perché “uomo di molto ricapito, ricco, buon parlatore, bianco e pieno di carne”. Per arginare queste calunnie, Starace convocò per il giorno seguente un’assemblea del Popolo, invitando i rappresentanti ufficiali: 29 capitani del popolo e 10 consultori, oltre altri due delegati per ogni ottina (quartiere). Nel frattempo si diffuse la voce in Città che non c’era più pane ed a questa assemblea si presentarono migliaia di popolani del ceto “basso” inferociti che iniziarono ad insultare ed a cercare di aggredire fisicamente Starace che, invano, cercò di calmare la folla giurando che non aveva mai detto di voler aumentare il prezzo del pane, né di volerne diminuire il peso per mandare il grano in Spagna! Sciolse pertanto l’assemblea e propose di recarsi in delegazione, il giorno dopo, dal Vicerè per manifestargli la volontà popolare. Forse perchè il luogo era più vicino al Palazzo Vicereale, fu scelto di riunirsi a Santa Maria La Nova; era il 9 maggio ma la moltitudine che si presentò era impressionante! Starace era arrivato su una sedia (perché sofferente di gotta), portata a mo’ di portantina da due uomini. Questa scena indispettì ulteriormente la folla che incominciò ad urlare che il Parlamento dove il Popolo era uso riunirsi era a Sant’Agostino alla Zecca e non un altro! Starace rispose che non si stava facendo “Parlamento” ma la folla allora lo sollevò di peso sulla sedia, portandolo a S. Agostino «sospeso con le spalle voltate, senza baretta» ed Il trasportarlo così, di spalle, rispetto alla direzione di marcia e senza berretto, simboleggiava dispregio e negazione dell’autorità. Il corteo si gonfiava sempre di più di esagitati che, al grido di Serra! Serra! insultavano l’Eletto e gli lanciavano sul viso ogni genere di sporcizia. Giunti a Sant’Agostino, Starace tentò di mettersi al sicuro in una cappella ma fu raggiunto alla fronte da un mattone; si buttò allora in una sepoltura ma fu tirato fuori a viva forza. Due gendarmi accorsi per aiutarlo, furono scacciati con minacce ed armi improvvisate. A Starace fu messo un cappio al collo e trascinato a faccia per terra per le vie della Città, venne smembrato e fatto a pezzi mentre il tumulto della prima ora ormai era diventata una vera e propria rivolta che infiammò tutta la Città. La folla con il cadavere smembrato dell’Eletto Starace giunse a Palazzo e dopo due giri intorno al Palazzo, gli tagliarono, infine, la testa buttandola ai piedi del Vicerè gridando : “ecco il malgoverno”! il duca d’Osuna, rispose: “Viva il Re” ma il popolo reclamò il pane!”. La rivolta si era ormai diffusa in tutta la Città.

Alcuni popolani saccheggiarono la casa di Starace fino a sera. La rivolta continuò per settimane e cominciarono a vedersi cartelli che incitavano a sollevarsi in armi per il giorno di San Giovanni. La protesta infine si placò grazie anche all’intercessione di un sacerdote teatino, Lancillotto Avellino (conosciuto poi come Sant’Andrea Avellino) che organizzò una solenne processione penitenziale che durò tutta una notte, passando per tutte le chiese cittadine, compresa la Cattedrale, dopo aver distribuito ai poveri, il poco pane che c’era nel convento. Ma Il regime, spaventato per possibili nuove ribellioni, mentre nelle Fiandre un’analoga rivolta già aveva messo in crisi il Governo vicereale, reagì nella maniera più dura; oltre ottocento processi; esecuzioni capitali di massa, centinaia di torturati e condannati alle galere o all’esilio; la casa del principale capo della rivolta, il capitano del Popolo, Giovan Leonardo Pisano che era riuscito a fuggire, fu rasa al suolo ed i ruderi furono cosparsi di sale! Fu innalzato, al suo posto, un macabro monumento con delle nicchie dove vennero esposte, per diversi mesi, 24 teste mozzate di altrettanti condannati per ribellione.
Di quel tragico monumento, ci resta una stampa coeva ed a memoria della estrema crudeltà umana, una targa in una piccola via, intitolata ad un Eletto che il suo stesso popolo elettore odiò fino alla morte. Pochi, passando per quella strada, conoscono questa storia vera e non sanno cosa possa significare la denominazione “Eletto Starace”.

NEL REGNO DELLA MAFIA

Pietrò Calà Ulloa, nel 1838, all’epoca Procuratore del Re a Trapani, scrisse a proposito della mafia, già presente allora in Sicilia, al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli: “…Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti…”. Insomma, la mafia c’era già allora, ma come sottolinea Pietro Calà Ulloa era “senza colore o scopo politico”. Essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici”. La mafia come reazione a uno Stato che non garantiva giustizia ai cittadini, i quali la giustizia la cercavano in altri modi: o facendosi giustizia da sé, o rivolgendosi alle persone che in lingua siciliana si definiscono ‘ntise’, ovvero persone che godono del rispetto generale, in parte perché si sostituiscono alla giustizia in parte perché sono delinquenti che godono di grande fama, anche fama di imprendibili, sia perché sono abili, sia perché sono protetti dallo stesso Stato. Questo malinteso senso della giustizia viene illustrato in modo molto chiaro dallo storico Salvatore Francesco Romano nel volume Storia della mafia. “… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano – italiano del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3^ edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamos che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa”.

Tutto cambia con la cosiddetta unificazione italiana. “Se nel 1861 l’Italia non fosse stata unificata sotto i Savoia, la mafia non si sarebbe probabilmente sviluppata, almeno non per come la conosciamo noi. Il motivo? Non si sarebbe verificata quella graduale marginalizzazione del Sud Italia (trasformato in realtà periferica dalle politiche piemontesi), che lasciò ai mafiosi un’ampia libertà di azione. Prima dell’unificazione, infatti, la mafia era un’accozzaglia di criminali che agivano per conto di baroni e ricchi possidenti locali. Poi, con lo sbarco dei mille in Sicilia, molti mafiosi ingrossarono le file delle Camicie rosse facendo da scorta a quest’ultimo. Il passo successivo della mafia fu quello di penetrare nelle pieghe dello Stato, sfruttando il vuoto di potere seguito alla cacciata dei Borbone dalle terre del Sud. Già dal 1861 parecchi mafiosi si infiltrarono nei governi cittadini e non solo, finché il fenomeno assunse dimensioni tali da porsi quale alternativa alle stesse istituzioni nazionali”. Con il Borbone la mafia era contro lo Stato e fuori dallo Stato; con l’avvento della vera o presunta unificazione italiana la mafia entra nelle pieghe del nascente Stato, con sfumature che cambiano a seconda del momento storico.

Probabilmente di ciò si rese conto anche Napoleone Colajanni, ex garibaldino siciliano e deputato parlamentare tanto da scrivere il primo libro sulla Mafia: “Nel Regno della Mafia” del 1900. Il Colajanni aveva ben capito che lo stato “dialogava” con la mafia già prima dell’Unità d’Italia e denunciò le connivenze tra mafia, politica ed autorità statali in relazione al clamoroso omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo (1893). Il 1º febbraio 1893, durante il tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, fu ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, entrambi mafiosi di Villabate, e il suo cadavere gettato giù dalla carrozza all’altezza del ponte Curreri, in agro di Trabia. “Dal processo (Notarbartolo) contro due ferrovieri, che man mano si trasforma in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!”

Le prime indagini portarono a sospettare della complicità di due ferrovieri e di un boss della cosca mafiosa di Villabate, Giuseppe Fontana, ma al termine della prima istruttoria furono rinviati a giudizio solo i due ferrovieri presenti sulla carrozza al momento dell’uccisione e quindi ritenuti correi degli assassini.

Nel 1899 si aprì quindi il primo processo che, per legittima suspicione, si celebrò a Milano. Durante lo svolgimento delle prime udienze nella città lombarda, Leopoldo Notarbartolo, il figlio della vittima, accusò pubblicamente in aula l’onorevole Raffaele Palizzolo di aver ordinato l’omicidio del padre. Subito, la Camera dei deputati, su pressione del Presidente del Consiglio Luigi Pelloux, concesse all’unanimità l’autorizzazione a procedere contro Raffaele Palizzolo, che venne dunque arrestato dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi insieme a Giuseppe Fontana, che stava trascorrendo la latitanza presso le tenute agricole del principe Pietro Mirto Seggio, dove svolgeva la mansione di campiere. Nel 1900 il secondo processo si aprì presso la Corte d’Assise di Bologna e furono chiamati a deporre ben 503 testimoni e tra di essi figuravano ex ministri, deputati, senatori, prefetti, questori e funzionari di Pubblica sicurezza. Le udienze vennero seguite con attenzione dai corrispondenti delle principali testate nazionali e colpirono profondamente l’opinione pubblica: per la prima volta si parlava apertamente di delitto di mafia, delle sue implicazioni politiche e dei tentativi di depistare le indagini, circostanze che furono pubblicamente denunciate dai deputati Napoleone Colajanni e Giuseppe de Felice Giuffrida. Nel luglio 1902 Palazzolo e Fontana vennero giudicati colpevoli e condannati a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza di Bologna per vizi di forma. Lo scandalo assunse proporzioni tali che si costituì addirittura un “Comitato Pro-Sicilia”, cui aderirono intellettuali quali Giuseppe Pitrè e Federico De Roberto, il quale mirava a difendere l’isola offesa dalle accuse lanciate nel processo, negando addirittura l’esistenza della mafia, ritenuta un’invenzione dei settentrionali per diffamare la Sicilia. Nel nuovo processo che si tenne a Firenze venne convocato un solo importante testimone nuovo, Matteo Filippello, un sicario di mafia il quale si era deciso a confessare il delitto e ad accusare l’ex compagno Fontana e il mandante Palizzolo ma venne trovato impiccato prima di testimoniare, ufficialmente “suicida”. Perciò nel luglio 1904 Palizzolo e Fontana vennero assolti dalla Corte d’Assise di Firenze per insufficienza di prove.

“La Mafia, quindi rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borbone; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borbone. I più noti mafiosi furono i più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo. Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specie nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

“Sotto l’aspetto amministrativo la mezza libertà dei cittadini e la mezza autonomia degli enti locali sotto i Sabaudi segnarono un vero peggioramento sulle precedenti condizioni sotto i Borbone. Municipi e provincie servirono a gravare enormemente le imposte, a ripartirle per fini individuali, senza unità collettiva, a scopo di nepotismo e di favoritismo, per preparare candidature politiche”.

Colajanni scrive che Alongi, funzionario di P.S. nel 1893 afferma: “Il 90% dei Comuni in Sicilia era amministrato con criteri e forme tali che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno perché allora si aveva il diritto d’inchiodare sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto l’intervento violento, ma pure sempre riparatore, del governo centrale”. Il giudice Rocco Chinnici, che conosceva bene storia e mondo della mafia, partiva da un assunto: “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia… La mafia… nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. In realtà, pur avendo Chinnici un buona parte ragione, nel senso che la mafia presente nello Stato comincia proprio con la nascita dell’Italia, tra il 1860 e il 1861, ma come abbiamo ricordato c’è un aspetto della mafia, precedente alla vera o presunta unità d’Italia, che merita di essere approfondita.

Le ultime righe del libro di Napoleone Colajanni sono fulminanti: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia».

“PER COMBATTERE E DISTRURRE IL REGNO DELLA MAFIA È NECESSARIO, È INDISPENSABILE CHE IL GOVERNO ITALIANO CESSI DI ESSERE IL RE DELLA MAFIA” Napoleone ColaJanni

Uno dei primi saggi mai scritti sulla mafia. Uno sconvolgente documento per capire che nulla in centosessanta anni è cambiato!

Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, banchiere e politico. È considerato la prima vittima eccellente di cosa nostra in Italia. Nel febbraio 1876 è nominato dal governo Minghetti direttore generale del Banco di Sicilia, cerca con la sua autorità di riorganizzare il sistema bancario siciliano, scosso dopo l’Unità d’Italia. Il Banco di Sicilia è sull’orlo del fallimento, e l’operato di Notarbartolo è orientato a evitare il collasso dell’economia siciliana. Crea una rete capillare di agenzie e opera una stretta sulle erogazioni di credito, da sempre effettuate senza garanzie e sulla base di principi clientelari, inimicandosi pertanto molti speculatori.
Il consiglio d’amministrazione del Banco è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. È affiancato in particolare dal parlamentare Raffaele Palizzolo, con il quale ha già avuto non pochi screzi a causa delle speculazioni avventate da lui messe in atto. C’è addirittura il sospetto che sia il mandante del sequestro messo in atto ai danni del marchese nel 1882 mentre si trova nei suoi possedimenti a Caccamo, per il quale Notarbartolo è costretto a pagare un riscatto di 50000 lire. Nel 1889 Notarbartolo provò a denunciare questa situazione in due lettere inviate al ministro dell’Agricoltura e del Commercio Luigi Miceli che però vennero trafugate dal tavolo del ministro e ricomparvero misteriosamente nelle mani di Palizzolo, il quale le mostrò agli altri consiglieri d’amministrazione.

Raffaele Palizzolo, fu nominato nel consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia in contrasto con l’allora direttore generale, il marchese Emanuele Notarbartolo. Azionista della Navigazione Generale Italiana, fu implicato in speculazioni di borsa realizzate mediante denari del Banco.
Il giurista palermitano Gaetano Mosca così lo descrisse: «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse».
Aveva rapporti con diversi mafiosi, fu incriminato come mandante dell’uccisione di Notarbartolo avvenuta il 1º febbraio 1893. Nel 1902 venne giudicato a Bologna colpevole e condannato a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza e, nel nuovo processo che si tenne nel luglio 1904, fu assolto dalla Corte d’assise di Firenze per insufficienza di prove. Dopo l’assoluzione, al suo ritorno a Palermo, fu acclamato come un eroe, vittima di un complotto per diffamare la Sicilia. Scrisse addirittura un libro autobiografico intitolato Le mie prigioni e nel 1908 compì un viaggio a New York per raccogliere voti presso le comunità di emigranti siciliani ma non venne rieletto e terminò così la sua carriera politica.

QUANDO ERAVAMO ‘IGNORANTI’ MA AVEVAMO LE UNIVERSITA’

Nel Settecento, sotto l’impulso dei sovrani meridionali che ne incentivarono fattivamente lo sviluppo, si assistette alla rinascita culturale delle Due Sicilie; il rigoglioso fiorire di studi filosofici, giuridici e scientifici si fregiò di illustri personalità le cui opere furono tradotte in diverse lingue, solo per citarne alcuni ricordiamo: Giovanbattista Vico, considerato una delle più grandi menti di tutti i tempi, Gaetano Filangieri, la cui “Scienza della legislazione” era tenuta sulla sua scrivania da Napoleone Bonaparte che non esitò a dichiarare “Questo giovane è stato il maestro di tutti noi” ; Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Giacomo Della Porta, Pietro Giannone, Mario Pagano.

Napoli era il centro di pensiero più vivace d’Italia e in Europa era seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo; lo splendore della Corte e della società napoletana era proverbiale ed erano poli di attrazione per le più importanti menti dell’epoca che spesso vi rimanevano a lungo; geni assoluti come Goethe riconobbero nelle classi elevate meridionali una preparazione non comune.

Ebbe a dire Stendhal: “Napoli è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione rafforzate“; era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro d’Europa, fu definita come: «la città più allegra del mondo, scintillante di carrozze, quasi non riesco a distinguerla da Broadway, la vera libertà consiste nell’essere liberi dagli affanni ed il popolo pare veramente aver concluso un armistizio con l’ansia e suoi derivati”.

Le Università del Regno, in un primo momento, furono tre: Napoli fondata da Federico II nel 1224, Palermo e Catania; invece, Messina era sede della Reale Accademia Carolina e dell’Accademia Peloritana di Scienze; successivamente, col Real Decreto del 29 luglio 1838, la Reale Accademia Carolina venne elevata al rango di Università. A Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870; al tempo della nascita dello Stato italiano, il numero degli studenti meridionali era maggiore di quello di tutte le università italiane messe assieme (9 mila su complessivi 16 mila).
Ogni Regia Università, con a capo un Rettore, aveva sei facoltà (Belle Lettere, Giurisprudenza, Medicina, Matematica e Fisica, Filosofia e Teologia) e alcuni “stabilimenti dipendenti” (biblioteche, musei, gabinetti, cliniche, etc.).
Con il Real Decreto del 14 gennaio 1817, nei territori “di qua del faro” vennero istituiti 5 “Reali Licei” a Napoli, Catanzaro, L’Aquila, Bari e Salerno, che resteranno invariati per i prossimi 30 anni; in ciascuna delle altre province, invece, vennero istituiti dodici “Reali Collegi”. In Sicilia, tra il 1815 ed il 1848 vengono istituite 3 scuole superiori: la Scuola Militare di Monreale (1823), l’Istituto Nautico di Trapani (1831) e il Regio Liceo di Trapani (1833), che solo dopo 5 anni verrà dotato di una biblioteca. Nell’isola, inoltre, c’erano le Accademie Maggiori di Messina, Siracusa e Trapani; le Accademie Minori di Acireale, Caltagirone, Nicosia e Piazza; i Collegi di Augusta, Bivona, Castrogiovanni (Enna), Corleone, Licata, Mazzara, Mazzarino, Mineo, Monreale, Monte S. Giuliano (Erice), Naro, Polizzi, Regalbuto, Rometta, Sciacca, Scicli, Termini e Vizzini.
Esistevano, inoltre, ubicati nella capitale, alcuni istituti di carattere par­ticolare, come la “Scuola dei sordomuti”, la Scuola di Bell e Lancaster” e lo “Stabilimento Veterinario”, ed altre istituzioni culturali pubbliche, concentrate, soprattutto, a Napoli e a Palermo e che contribuivano alla formazione ed all’educazione dei giovani: le Accademie, i Reali Istituti di Incoraggiamento con le connesse Società economiche, le Biblioteche, i Reali Educandati, i Conservatori di Musica.
Ogni Liceo e Collegio, con annesso un Convitto, aveva un rettore e un vicerettore; l’amministrazione dei beni e delle rendite era affidata a una Commissione composta dall’In­tendente della Provincia che la presiedeva, dal rettore e da due proprietari, col nome di amministratori; nel Liceo di Napoli la Commissione era presieduta, invece, dal rettore, quando non vi interveniva il Presidente della Giunta di Pub­blica Istruzione.
I licei conferivano i “gradi” di “approvazione e licenza” nella letteratura, giurisprudenza, medicina, matematica e fisica, filosofia, a seconda del particolare “ramo di istruzione”; la “licenza” in teologia era conferita nei seminari, mentre la laurea nel­le Università. Dal 1748 per volontà di re Carlo di Borbone fino al 1811 la città di Altamura, in Puglia, ha avuto la sua Università in cui si insegnavano materie letterarie e scientifiche. Come dire che non si studiava solo a Napoli o a Palermo, ma anche ‘in provincia’ e non studiavano solo i ricchi.

Dal 1748 al 1811 fu attivo in Altamura un Regio studio o università, creato da Carlo III di Borbone nell’ambito della politica riformista avviata per rendere il nuovo stato napoletano autonomo dalla Chiesa, partendo proprio dal togliere a quest’ultima il monopolio dell’educazione dei giovani. Fu attiva per 63 anni fu stroncata dalla “rivoluzione”

La nascita di questa istituzione si inserisce nel clima della cultura giurisdizionalista ispirata da Pietro Giannone, e fu voluta fermamente dall’arciprete della chiesa altamurana, mons. Marcello Papiniano Cusani, che del Giannone fu grande amico. Cusani è anche il primo rettore e come tale si dà da fare per istituire le prime cattedre. Nel giro di tre anni partono i corsi di lettere umane, eloquenza greca, eloquenza latina, filosofia, geometria, medicina, sacra teologia e giurisprudenza ecclesiastica e civile. Con il suo successore, mons. Gioacchino De Gemmis, protagonista dei fatti del ’99 ad Altamura, la cultura giurisdizionalista, a cui si ispiravano tutti gli insegnamenti impartiti nel Regio studio, lasciò spazio al riformismo illuministico-genovesiano. De Gemmis, infatti, sostituì alle Istituzioni civili e canoniche il Diritto naturale e delle genti ed introdusse l’insegnamento della medicina, della chimica e della botanica. L’università di Altamura divenne punto di riferimento per la gioventù pugliese e lucana, aiutati anche dall’apertura di una biblioteca a disposizione degli iscritti. Le nuove disposizioni obbligano anche i docenti a tenere almeno cinque ore di lezione al giorno e a non allontanarsi dall’ateneo senza aver corretto i compiti svolti in aula dagli studenti. I cambiamenti in atto portano alla formazione di classi composte da giovani e valorose menti provenienti da Puglia e Basilicata. Non si sa quanti fossero di preciso: grazie al ritrovamento di alcuni foglietti risalenti al 1788 siamo a conoscenza che la maggior parte di loro è di Altamura, Bari e Giovinazzo. L'”età dell’oro” finisce però nel 1799, quando sulla scia della Rivoluzione francese gli altamurani insorgono proclamando la repubblica. Le truppe fedeli alla famiglia reale soffocano subito la sollevazione e costringono all’esilio diversi ribelli, tra cui figurano alcuni docenti dell’università e lo stesso De Gemmis, il quale in realtà torna al suo posto nel 1806 ma la decadenza è ormai inarrestabile: le cattedre rimaste operative sono solo sei e dal 1809 al 1810 gli studenti passano da 100 a 70 unità. Infine la mancanza di fondi fa sì che nel 1811 venga decretata la chiusura ufficiale dell’Università, stroncata di fatto dalla rivoluzione. La “Leonessa di Puglia”, soprannome che la città aveva conquistato durante l’insurrezione, dice così addio per sempre al suo prezioso gioiello culturale, del quale oggi rimane ben poco nella memoria storica del comune barese. A Napoli furono istituite la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi (1754), “Napoletana fu la prima clinica ortopedica d’Italia prima dell’unità, napoletani furono i migliori ospedali militari che potesse vantare l’Europa; napoletano fu quell’atto rivoluzionario nella storia della psichiatria, che vide, per la prima volta in Europa, togliere nell’ospedale psichiatrico di Aversa, i ceppi ai dementi”392; notevole era l’Orto botanico che forniva le erbe mediche alla Facoltà di Medicina; nella facoltà di Giurisprudenza nacquero l‘Istituto della Motivazione delle Sentenze (Gaetano Filangieri, 1774), il primo Codice Marittimo Italiano ed il primo Codice Militare.

Nei primi anni del 1800, nel Regno delle Due Sicilie, l’educazione dei ragazzi era quasi sempre affidata alla Chiesa, che da secoli svolgeva questo delicato ed importante compito.
Dopo l’istruzione primaria, della durata di tre anni, seguiva l’apprendimento di un mestiere. I giovani figli dei contadini, per necessità, venivano da subito impegnati nei lavori agricoli e quindi erano pochi quelli che frequentavano la scuola primaria. Pochissimi erano poi, e quasi tutti figli di famiglie nobili, quelli che continuavano gli studi, sia perché erano i soli che se lo potevano permettere, sia perché erano i soli che potevano accedere, con un’adeguata preparazione, a governare la cosa pubblica.
Pure gli studi superiori erano affidati, quasi sempre, alla Chiesa.
Anche se il sistema di educazione borbonico non era né popolare e né proprio brillante, bisogna però riconoscere che, in quei tempi, assicurò al Regno un livello culturale qualitativamente più elevato rispetto agli altri paesi europei. Infatti, nel censimento del 1751, Napoli era la prima nelle accademie di scienze e lettere: i meridionali Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Giambattista Vico, Francesco Lomonaco, Pietro Giannone e tanti altri, fecero scuola in Europa. Poi, si svolse a Napoli, dal 20 settembre al 5 ottobre 1845, il congresso degli scienziati e nel 1856, nell’Esposizione Internazionale di Parigi. Tutto questo grazie ai principali settori industriali dell’epoca che erano la cantieristica navale, quella tessile e quella estrattiva. Degli stati preunitari del Nord, neanche l’ombra. In precedenza, nel periodo dell’occupazione francese (1806 – 1815), Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat tentarono di introdurre l’istruzione pubblica di tipo laico.
Nel 1848, il ministro della P. I. del regno delle due Sicilie, Paolo Emilio Imbriani, dopo aver disposto che la nomina e la vigilanza degli insegnanti fosse assegnata ad una commissione provinciale, introdusse l’obbligatoria dell’istruzione primaria per ambo i sessi (decreto del 19 aprile 1848).
Nel breve periodo in cui ricoprì l’incarico, il ministro, consapevole della portata politica – sociale del problema dell’istruzione e dell’alto tasso di analfabetismo che impediva la partecipazione delle masse alla vita governativa e ostacolava l’esercizio dei diritti civili anche di alcuni strati borghesi, abolì il decreto del gennaio 1843, sottraendo così l’istruzione primaria al controllo dei vescovi, sottoponendola alle dipendenze del ministero. Nella circolare, annessa al decreto, sollecitava i sovraintendenti locali affinché si adoperassero a diffondere l’istruzione elementare, anche nelle classi più povere.
Con l’annessione forzata, del 1860, del Regno delle Due Sicilie a quello dei Savoia, il sistema scolastico meridionale cambiò totalmente in quanto venne applicata la legge Casati (ministro, dal 19 luglio 1859 al 21 gennaio 1960, della Pubblica Istruzione nel governo Lamarmora), già in vigore dal 13 novembre del 1859 nel Regno di Sardegna.
La Legge, studiata per la realtà scolastica piemontese e lombarda, venne estesa gradualmente all’intero Paese, dopo la proclamazione del Regno d’Italia. La riforma, tendente a configurare un sistema in cui lo Stato doveva gestisce l’istruzione con la presenza delle scuole private, affrontò anche la “questione analfabetismo”, più elevato nelle regioni meridionali per i motivi detti in precedenza.
Con la Legge Casati l’Istruzione elementare venne divisa in due gradi:
1) Grado inferiore di 2 anni, istituito in ogni Comune, con frequenza obbligatoria e gratuita per quanti non ricorrevano all’istruzione “paterna”. L’iscrizione avveniva a 6 anni compiuti con un numero di allievi per classe oscillante tra 70 e 100.
2) Grado superiore di 2 anni, istituito in tutte le città in cui già esistevano istituti di istruzione pubblica e in tutti i Comuni di oltre 4000 abitanti.
Inoltre:
– I maestri dovevano essere muniti di una patente di idoneità ottenuta per esame e di un attestato di moralità rilasciato dal Sindaco.
– La responsabilità per l’istruzione elementare era affidata ai comuni, ai quali veniva peraltro vietato di istituire una tassazione di scopo.
I Comuni del Sud, che avevano seri problemi di cassa, si ritrovarono quindi in difficoltà nel garantire lo svolgimento delle lezioni.
Inoltre, era fatta in modo da mantenere e perpetuare le differenze sociali, infatti essa prevedeva:
– Una scuola di “serie A” che dal ginnasio – liceo avviava all’università, a cui poteva accedere solo l’aristocrazia e la nuova borghesia liberale;
– Una scuola di “serie B” destinata alla piccola borghesia, con i rami tecnico e normale, da cui derivarono poi l’istituto tecnico e l’istituto magistrale;
– Una scuola di “serie C” destinata alle classi umili, che forniva un apprendistato di lavoro.
In conclusione, la Legge Casati che poteva essere teoricamente una buona base di partenza per creare un sistema scolastico di “tipo pubblico – laico”, come tutte le altre leggi, essendo stata semplicemente estesa ed imposta dai Savoia ai popoli annessi, senza la minima considerazione per il loro passato e le loro peculiarità culturali, fallì nel Regno delle Due Sicilie.
Si affidò l’istruzione primaria ai comuni che dovevano organizzarla a proprie spese. Nel periodo in cui un fiume di denaro saliva la penisola per sequestri bancari o salassi tributari (sempre nel pieno rispetto del duopesismo) praticamente solo i comuni del centro-nord furono in grado di aprire bastanti scuole. Altrove, cioè da noi, assai raramente ciò fu possibile. Le classi meridionali sempre meno abbienti dovettero tenere i figli senza studio fin quando le condizioni della finanza locale migliorarono progressivamente. Passò quasi una generazione! Nel frattempo lungi dall’accelerare le difficoltà di risorse a sud, lo stato si preoccupò di censirvi le famiglie rilevando il famoso tasso di analfabetismo altissimo per i giovani a cui avevano negato l’apprendimento. Con una comoda retrodatazione si battezzarono quei dati al tempo delle Due Sicilie creando una mentalità terribile e perenne di superiorità dei colonizzatori sui colonizzati. Mentre era esattamente il contrario prima del 1861 per le scuole civili e religiose gratuite esistenti in tutti i comuni borbonici.

La scuola aperta a tutti, completamente gratuita, alla quale potevano iscrivere i propri figli anche le famiglie indigenti. Stiamo parlando delle “Scuole Pie” dei Padri Scolopi, le più diffuse nel Regno borbonico, ma anche nel resto degli Stati italiani preunitari e in Europa. Dalle scuole degli Scolopi, fin dalla fondazione, nel 1597, ad opera di San Giuseppe Calasanzio, sono usciti alcuni dei migliori talenti nelle lettere, arti e scienze: Mendel, Pascoli, Carducci, Haydn, Schubert, Lehár, per citare solo alcuni nomi. Furono le prime vere scuole popolari, in un’epoca in cui l’istruzione era affidata prevalentemente agli ordini religiosi. Il Regno delle Due Sicilie non faceva eccezione: il regio governo non istituiva scuole, ma garantiva la libertà scolastica, la possibilità di aprirne, e la libertà di insegnamento, la libera scelta di programmi e contenuti, e favoriva le condizioni perché la popolazione potesse beneficiarne.

Con una semplice istanza al Re, una famiglia bisognosa poteva ottenere una o mezza “piazza”, cioè la retta annuale di un collegio a pagamento, come quelli dei Gesuiti. La richiesta era smistata agli innumerevoli istituti benefici che provvedevano. Le scuole degli Scolopi erano l’eccellenza di un insegnamento non centralizzato, ma diffuso in modo capillare, perché univano formazione umanistica e scientifica, come si vede nel “Quadro di insegnamento”, un raro documento che pubblichiamo. Tre anni di elementari,sette di ginnasio e liceo, un percorso di apprendimento graduato sullo sviluppo cognitivo degli allievi, basato sull’idea che le conoscenze sono strumenti per esprimere le peculiarità dell’uomo, in relazione a sé, agli altri, alla realtà, a Dio. A 17 anni lo studente era pronto per l’Università. Gli Scolopi e gli altri ordini religiosi furono costretti a chiudere le scuole quando il Regno delle Due Sicilie fu invaso. Quando, anni dopo, le scuole riaprirono, ebbero programmi, libri, materie e contenuti di studio determinati dal nuovo regno italiano. Era nata la scuola statale.

Tutto ciò che era pubblico doveva essere abolito e così le scuole!! Nel 1734 il Sud andò a Carlo III di Borbone che, avendo in dote 28 milioni di ducati, pensò bene ricomporre lo Stato attraverso la cultura. Nacque così il ’700 napoletano. La scuola fu l’ istituzione realizzata per imporsi e per rinnovare il sapere della gente. Ogni città, ogni villaggio doveva essere provvisto di scuole pubbliche. Ogni provincia doveva avere una scuola per uomini ed una per donne, ove potessero apprendere le scienze primarie e le belle arti e, per i nobili, esercizi di colta società. Le spese per l’istruzione pubblica ammontavano a circa un milione di ducati all’anno.

Il Villardi, che era stato mandato nella capitale a smantellare l′apparato scolastico napoletano, così ricorda: “ Pareva che si volesse levar tutto a Napoli. Oggi per esempio, noi abbiamo sciolto l’Accademia delle Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l’istruzione secondaria, in una città di cinquecentomila anime, non abbiamo che un liceo di sessanta alunni e questo con un ministro intelligente e pieno di volontà… “.

Ecco come, il Regno delle Due Sicilie era finito nelle mani degli eredi di Vittorio Emanuele I, della dinastia più reazionaria d’Europa; quella cioè che, abolendo il Codice Napoleonico, ristabilì l’antica legislazione complicata e senza unità, i privilegi fiscali e l’antica legislazione penale con la fustigazione e, cosa più terribile, proibì i culti ai cattolici perseguitando anche mortalmente ebrei e valdesi e, cosa ancora più abominevole, ridiede tutta l’istruzione nelle mani delle scuole religiose a pagamento, abolendo quelle pubbliche istituite da Napoleone.