CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER BORBONICI

Dopo la caduta repentina dell’ormai consunto apparato borbonico, minato, per di più, da tradimenti e defezioni, specialmente nelle alte sfere governative e dell’esercito, il neonato governo sabaudo si trovò, tra le altre cose, a dover fare i conti con una massa davvero ingente di militari napoletani sbandati. L’esercito borbonico, infatti, con un provvedimento che ben presto dimostrerà tutta la sua inefficacia, era stato sciolto e in tanti si erano trovati disperati e senza lavoro. Né le varie campagne di arruolamento varate dal governo piemontese si rivelarono fruttuose: nelle ripetute chiamate alle armi, infatti, si registrò, sempre e comunque, un altissimo numero di renitenti. Il contadino meridionale proprio non se la sentiva di prestare servizio militare sotto una bandiera che non riteneva sua. E, soprattutto, non reputava giusto andare a combattere, per lunghi anni, in luoghi lontani, abbandonando la terra e la famiglia, al servizio di una dinastia regnante che si esprimeva, peraltro, in una lingua che lui proprio non riusciva a capire. Così, in pochi mesi, a quei militari che erano stati fatti prigionieri nel corso degli eventi bellici della seconda metà del 1860 e a quelli delle fortezze che avevano resistito ad oltranza all’assedio dei piemontesi, si aggiunsero tutti coloro che, per non sottostare alla leva obbligatoria, dopo essersi rifugiati sulle montagne trasformandosi in briganti, erano stati catturati nel corso dei vari rastrellamenti. Un numero davvero ingente di prigionieri, difficilmente quantificabile con matematica precisione: di certo, però, essi ammontavano a parecchie decine di migliaia. Il governo sabaudo, trovandosi di fronte ad una vera e propria emergenza che rischiava di esplodere da un momento all’altro (tutto il meridione era, infatti, infiammato dalla rivolta brigantesca), in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane e insufficienti carceri del sud Italia. Subito dopo, però, intuendo la pericolosità della situazione, escogitò un “piano di evacuazione” trasferendo, specialmente via mare, gli ex soldati napoletani al Nord, lontano, quindi, dai focolai di rivolta. Il porto di arrivo dei bastimenti carichi di prigionieri era soprattutto Genova: da qui subito venivano smistati nelle varie località di destinazione. Le principali erano: Fenestrelle, piccola località della valle del Chisone, ad un centinaio di chilometri da Torino, dove esisteva una imponente fortezza; San Maurizio Canavese, alle porte di Torino; e poi Alessandria, Milano, Bergamo e così via di seguito. Qualcuno fu anche rinchiuso a Genova, nel forte di San Benigno. Migliaia di altri meridionali, poi, dalla variegata composizione (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi), vennero confinati in varie isole della Penisola: Gorgona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza. Più di 12.000, soprattutto ufficiali e veterani borbonici, che si erano rifiutati di continuare la loro carriera militare nell’esercito sabaudo, furono trasferiti in Sardegna, sulle isole napoletane o nella Maremma toscana, sottoposti al regime del domicilio coatto, come prevedeva la famigerata “legge Pica”. Nei campi di raccolta e nelle prigioni costrette ad accogliere molte più persone di quante ne potessero contenere, le condizioni igienico-sanitarie e ambientali in genere, erano disastrose e, molto spesso, ben al di là di ogni decenza. Non a caso, riferendosi a tale situazione, “Civiltà Cattolica”, in quel periodo, così scrive: “Negli Stati sardi esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Finestrelle; un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio…”. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, tenuti senza cibo e acqua per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti ostinatamente fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre sconosciute, fredde, in campi di concentramento inospitali e, soprattutto, lontano dai loro affetti e dai loro cari. Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e il disagio e così decidevano di mettere fine alla loro grama esistenza ricorrendo al suicidio e gettandosi in mare. La circostanza è attestata da un altro giornale dell’epoca, “L’Armonia”, che così scrive: “A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi”. Per quelle migliaia e migliaia di sventurati, quindi, si prospettava una esistenza difficile e assai problematica. Così, al riguardo, ancora “Civiltà Cattolica”: “Per vincere la resistenza dei prigionieri in guerra, già trasportati in Piemonte o in Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Finestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno”. Da queste testimonianze inequivocabili si puó comprendere quale fu la sorte che il governo piemontese volle riservare ai soldati e ai contadini napoletani che, nel breve volgere di pochi mesi, in maniera repentina, avevano visto dissolversi, come neve al sole, la loro amata patria. Sulla “Gazzetta di Napoli” del 5 dicembre 1862 è riportata una petizione di un gruppo di detenuti napoletani indirizzata al deputato Ricciardi affinché potesse riferire in Parlamento la infima e pietosa situazione delle carceri di Napoli che, poi, era pressoché identica a quella delle altre dislocate, in lungo e in largo, sul territorio della Penisola. Attenzione al dato temporale: siamo, infatti, alla fine del 1862, a quasi due anni, quindi, dall’avvenuto processo di annessione del meridione al resto d’Italia. “Signori, in nome dell’umanità supplichiamo giustizia per poveri chiusi in questo serraglio di Napoli come tante fiere. Da che è venuto il soprintendente de Blasio credevamo d’essere trattati meglio; ed invece stiamo peggio di prima. Questo superiore ha organizzato una camorra spaventevole. Pochi favoriti e favorite hanno il letto, e la maggior parte dei poverelli reclusi sono ignudi e cenciosi, pieni di pidocchi, sulla paglia.. Quel poco di pane nerissimo e quel poco di polenta che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva a quattro o cinquecento al giorno; e se qualcheduno parla, o minaccia di ricorrere, è attaccato di mani e piedi per più giorni. Varii infelici compagni, risentiti del mal governo, sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto, ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato col sangue; e molti altri non si trovano più né vivi né morti. È una barbarie, Signori. Per Maria Vergine, metteteci la vostra mano; liberateci da questa setta di ladri. Il soprintendente de Blasio è un cane che divide con gli altri. Noi non abbiamo a chi ricorrere, né ci azzardiamo a ricorrere per non soffrire peggio. Se sapessero chi ha scritto questa carta, sarebbe ucciso, come capitò ad un altro povero giovinotto, che ricorreva ai superiori contro le infamità loro. Non posso riferirvi tutto ciò che si conta… dovrebbero parlare le muraglie! Tanto sperano i poveri del serraglio, e l’avranno a grazia… ”. E, come questa, di crude testimonianze su ciò che accadeva nelle prigioni del Regno d’Italia, in quel drammatico decennio (1860-1870), se ne possono riportare tantissime. Ma il tenore è sempre lo stesso. Ciononostante, pur costretti a subire una prigionia atroce, nella gran parte dei casi, essi seppero conservare un contegno e una dignità sorprendente, difficile da riscontrare in gente così semplice, di poca o nessuna istruzione, abituata, da sempre, a servire la patria e a chinare ogni giorno la schiena nel duro e a volte assai poco redditizio lavoro nei campi. Infatti, pur allettati da proposte ammalianti, in pochi decisero di entrare nell’esercito piemontese, specialmente per non venire meno a quel giuramento di fedeltà prestato al momento dell’arruolamento nelle forze armate di sua maestà borbonica. Tanti, anzi, quasi tutti, preferirono affrontare il duro e disumano regime carcerario, gli stenti, le umiliazioni, i maltrattamenti, i morsi della fame e della sete, le malattie e, persino, la morte, pur di non chinare la testa di fronte a quelli che consideravano solo crudeli usurpatori. Sempre “Civiltà Cattolica” racconta un episodio assai indicativo al riguardo: un avvocato e un ufficiale dell’esercito, un giorno, si recarono presso una prigione di Milano per visitare i reclusi napoletani e, soprattutto, per cercare di convincerli ad abbracciare la causa sabauda, arruolandosi nell’esercito piemontese. Ma quelli, i prigionieri, “recatisi in atteggiamento nobilmente altiero, che faceva singolare contrasto coi cenci ond’erano coperti, risposero recisamente: ‘Uno Dio ed uno Re…”. Con il passare dei mesi gran parte degli ex soldati napoletani vennero trasferiti nei lager dell’Italia settentrionale. In tal modo i governanti piemontesi speravano di aver risolto definitivamente il problema: avevano, infatti, allontanato dai focolai della rivolta migliaia e migliaia di persone, tenendoli distanti dai briganti che stavano infiammando con la loro sollevazione armata tutta la parte meridionale della Penisola. Non avevano però considerato un altro problema che, ben presto, si presentò come impellente e difficilmente risolvibile: i prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord, con il trascorrere del tempo, erano diventati in numero così ingente da rendere impossibile o quasi il mantenimento dell’ordine pubblico. Un po’ dappertutto, nelle prigioni, scoppiavano rivolte, sommosse, tentativi di fuga che a stento venivano repressi nel sangue, dalle poche truppe preposte alla sorveglianza. Persino nell’austera fortezza di Fenestrelle vi era stato un ammutinamento da parte di una cinquantina di prigionieri napoletani che avevano tentato di impadronirsi della stessa. E più o meno la medesima cosa si era verificata nel campo di San Maurizio, alle porte della capitale sabauda. La situazione per i piemontesi non era affatto semplice: non si puó ignorare, infatti, che, in quel periodo, gran parte degli effettivi dell’esercito sabaudo si trovava dislocata nell’Italia meridionale, nel tentativo di soffocare la rivolta brigantesca che si faceva sempre più audace. Basti pensare che nell’inverno 1862-63 il VI Gran Comando di Napoli che dirigeva le operazioni contro il brigantaggio, poteva disporre di 17 reggimenti di fanteria, 51 reggimenti di granatieri, 22 battaglioni di bersaglieri, 8 unità di cavalleria, oltre ad artiglieria e genio, per un totale di oltre 105.000 uomini. E allora cosa ti inventa la fervida mente dei governanti sabaudi? Una sorta di “soluzione finale” che ricorda molto da vicino quella che, qualche tempo più tardi, rese tristemente famoso Hitler e i gerarchi nazisti. Nel tentativo di sgombrare le prigioni del Regno da quella massa pericolosa di ex soldati borbonici, renitenti alla leva, nostalgici, prigionieri politici, briganti o pseudo tali, si pensò bene di “sistemarli” in un posto dove non avrebbero dato più fastidio. Il progetto era quello di riuscire ad ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno. Per fortuna, però, i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto. Nel novembre del 1862 l’ambasciatore italiano a Lisbona, tale Della Minerva, relazionando al ministro degli Esteri Durando che seguiva da vicino il progetto, così scriveva: “… la divulgazione di un dispaccio telegrafico… ove si parla… di un negoziato fra l’Italia e il Portogallo per la cessione di un’isola dell’Oceano al fine di deportarvi i galeotti, ha suscitato una tale ripugnanza nell’opinione pubblica e nella stampa che il ministero ha già fatto smentire questa notizia. Penso che per il momento sarà meglio soprassedere a questo progetto per potere avere più appresso una maggiore possibilità di successo”. Parole chiarissime che attestano, senza pecca, l’abnormità del progetto che persino l’opinione pubblica di un paese straniero, per niente coinvolto negli accadimenti italici di quel periodo, ebbe modo di considerare “ripugnante”. Ma se tale era il progetto per il governo portoghese, non così stavano le cose per i governanti piemontesi, sempre fermamente intenzionati a procedere con la “soluzione finale”, malgrado le grida di disapprovazione che si levavano sempre più alte in tutta Europa e, persino, in seno al Parlamento italiano. E così, qualche tempo dopo, nel 1868, dopo altri analoghi tentativi tutti infruttuosi, in un momento in cui, tra l’altro, la rivolta brigantesca era sul punto di esalare il suo ultimo sussulto, le grandi “menti” savoiarde tornano alla carica per sbarazzarsi, e in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nelle putride galere della Penisola. Questa volta Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, affidò ai suoi funzionari il compito di contattare la Repubblica Argentina. Era stata persino individuata la regione nella quale sarebbe dovuto sorgere lo stabilimento penale: la Patagonia, una landa desertica e inospitale che si prestava meravigliosamente alla bisogna. La scelta non era stata operata a caso. L’Argentina, infatti, aveva un debito di riconoscenza nei confronti del nostro paese dal momento che numerosi volontari italiani avevano preso parte alla guerra civile; senza dimenticare, poi, che Giuseppe Garibaldi, l’invitto capo dei Mille, aveva comandato, per qualche tempo, la flotta di quel paese. Ma, ancora una volta, il progetto naufragò prima ancora di nascere: alla fine del 1868, infatti, l’ambasciatore Della Croce comunicò a Menabrea la decisione del governo argentino di non poter venire incontro alla singolare richiesta italiana. Un po’, sicuramente, per non consentire l’ingerenza di un altro stato su un territorio che apparteneva alla nazione argentina; e poi, aggiungiamo noi, per non andare incontro alla generale disapprovazione dell’opinione pubblica, come già era accaduto, del resto, qualche anno prima, al tempo dei contatti italiani con il governo portoghese. E così, nonostante gli sforzi e i reiterati tentativi, la questione rimase irrisolta. Le migliaia e migliaia di prigionieri napoletani rimasero stipati nelle luride carceri italiane in condizioni di vivibilità disumane e raccapriccianti.

Difficile, se non impossibile, stabilire con precisione il numero di meridionali coinvolti in questa massiccia ondata di deportazione verso l’Italia settentrionale. Le cifre sono ballerine e fanno riscontrare, a volte, differenze anche sensibili. Si possono, però, fissare dei paletti o, meglio, dei parametri numerici ben precisi e quindi, movendosi all’interno di essi, argomentare il ragionamento con discreta possibilità di fare, più o meno, centro. Tenendo presente, ovviamente, che le cifre di cui daremo conto non si riferiscono solamente ai prigionieri indirizzati verso il Nord ma, più in generale, ai meridionali che ebbero la sventura di transitare nelle orride carceri della Penisola dopo il 1860. Nel gennaio del 1861, riprendendo fonti del ministero della guerra, il già citato giornale “L’Armonia” parla di 1.700 ufficiali borbonici prigionieri e 24.000 militari di truppa. A questi vanno aggiunti i soldati catturati dopo la capitolazione delle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto che raggiungevano, più o meno, il numero di 17.000. E poi le migliaia di soldati sbandati che alla fine delle ostilità si trovarono di colpo senza lavoro: di essi molti ritornarono a casa cercando disperatamente di trovare un’occupazione o un campo da coltivare per mandare avanti la famiglia; tanti altri, invece, salirono sulle montagne, si diedero alla macchia e si trasformarono in briganti. Per dare anche qui dei riscontri numerici veritieri, basti ricordare che nel 1860, nel momento in cui Garibaldi compie la sua mirabolante impresa “volando” da Quarto al Volturno, l’esercito napoletano di Francesco II di Borbone, poteva contare su ben 97.000 uomini! Per non parlare, poi, dei moltissimi renitenti alla leva che alimentarono, per anni, il brigantaggio nel sud d’Italia. Anche qui i numeri risulteranno molto più significativi di qualsiasi commento. Nel gennaio del 1861 la chiamata alle armi, organizzata in tutta fretta dai governanti piemontesi nelle province meridionali (si aveva un disperato bisogno di impinguare l’esercito per non correre il rischio di sguarnire pericolosamente altri fronti caldi, specie nel nord Italia), fruttò soltanto l’arruolamento di 20.000 persone mentre negli elenchi della leva ne erano iscritte più di 72.000. Ciò significa che oltre 50.000 meridionali disertarono, imboccando, nella gran parte dei casi, una strada che li conduceva al di fuori della legalità. Infine, in tale elenco, per forza di cose incompleto e lacunoso, vanno inseriti tutti coloro che incapparono nei rigori della legge Pica che, varata dal governo sabaudo il primo settembre del 1863, restò in vigore fino al 31 dicembre 1865. Tra le altre misure particolarmente spietate nei confronti dei briganti o presunti tali (molti, soltanto in base ad un sospetto o a un determinato tipo di abbigliamento, vennero sommariamente fucilati sul posto), si dava al governo la possibilità di assegnare a domicilio coatto, per un tempo non inferiore ad un anno, oziosi, vagabondi, sospetti, manutengoli e camorristi. Ciò comportò che, in quel tempo, una gran massa di poveracci, senza lavoro e di diseredati, finisse negli ingranaggi mostruosi e perversi di questo provvedimento, andando incontro a misure restrittive della libertà che, spesso e volentieri, non avevano ragione alcuna di essere.

Cercando di tirare le somme, quindi, furono decine e decine di migliaia i meridionali che incapparono nei metodi repressivi dei piemontesi, sempre più desiderosi di normalizzare con le buone ma, soprattutto, con le cattive, una situazione che rischiava di sfuggire loro di mano. Molti, anzi, moltissimi di essi furono trasferiti come bestie nel nord Italia dove vennero ammassati, senza ritegno, nei centri di raccolta, nei campi di concentramento, una sorta di “lager” ante litteram. E se la “soluzione finale” escogitata dal governo sabaudo in un’isola sperduta dell’Atlantico o nella inospitale Patagonia, non andò in porto, fu soltanto perché qualcuno, intuendo l’abnormità della richiesta, pensò bene di opporvisi. E costoro non furono, di certo, i governanti della neonata nazione italiana. Eppure, nei loro proclami, riferendosi ai napoletani, li chiamavano “fratelli”! Ecco, quindi, delineata, sia pure per sommi capi, una triste vicenda che per tanto, troppo tempo, è stata completamente rimossa dalla storiografia ufficiale, sempre più smaniosa di far risaltare l’inclita epopea risorgimentale. Questa sistematica operazione di “damnatio memoriae” che storici compiacenti e partigiani hanno messo in atto con ferrea determinazione e inappuntabile dedizione, non ha tenuto conto, però, della esigenza di verità che accompagna ogni umano anelito. E così ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica politica e di schieramento, desiderosi di far conoscere e di rendere note vicende sepolte ad arte sotto la densa polvere del tempo, hanno, pian piano, scalfito quella dura e quasi impenetrabile corazza, iniziando ad estrapolare dagli archivi documenti inequivocabili che aspettavano soltanto di essere tirati fuori e di essere letti con rigorosa obiettività. È venuta fuori, in tal modo, un’altra storia, una storia diversa, inedita, sorprendente, forse meno fulgida di quella ufficiale, sicuramente ancora poco conosciuta, considerata di serie B, ma che, nonostante tutto, inizia a farsi largo un po’ dappertutto, persino negli ingessati “sancta sanctorum” del mondo accademico, ancora troppo sospettoso di fronte a realtà che sfuggono al suo rigoroso controllo. Tali documenti, tali carte, parlano chiaro e, soprattutto, possiedono una forza, un’energia che non sarà facile debellare né piegare a perniciose logiche di parte: quella della verità, verità che per tanto tempo è stata negata, bandita e che, invece, ora, sempre più prorompente e inarrestabile, sgorga copiosa e cristallina. Qui non si vuole mettere in discussione alcunché né sminuire la tempra di personaggi che hanno fatto la storia del nostro Paese e che, proprio per questo, meritano imperituro rispetto e ammirazione. Né si sente il bisogno di inseguire sogni nostalgici o anacronistiche restaurazioni. Si tratta, invece, di raccontare gli accadimenti così come si sono verificati, di piegarsi alla realtà dei fatti senza avere più timore di soffermarsi su episodi che oggi possono apparire anche spiacevoli o discutibili. È questa la vera forza di un paese, questa la più pura connotazione di una democrazia che aspira a definirsi compiuta.

Furono circa 30-40 mila i soldati napolitani catturati e deportati in campi di prigionia in nord Italia. Tra i primi vi furono quelli della guarnigione di Capua, imbarcati a Napoli, sbarcati a Genova e da lì trasportati in treno fino a Pinerolo. Erano destinati alla fortezza di Fenestrelle, un complesso fortificato di tre forti e sette ridotte ai confini con la Francia che arriva fino alla quota di 1800 metri. Sui 1300 prigionieri circa del primo contingente partiti da Napoli, ne giunsero a Fenestrelle la sera del 9 novembre 1860 solo 1186, dopo una lunga marcia sulle tortuose strade alpine (che fine avevano fatto gli altri?). Di questi, uno morì subito e 178 furono ricoverati in cattive condizioni in ospedale, dove ne morirono altri quattro. Erano uomini in uniformi leggere e lacere, affamati, prostrati dall’assedio, dal lungo viaggio e da una navigazione di tre-quattro giorni stipati sottocoperta come schiavi, detenuti nei freddi cameroni della fortezza alpina. Un articolo della rivista dei gesuiti “La civiltà Cattolica” pubblicato nel 1861 descrisse le condizioni di vita di quei prigionieri, parlando di uomini stremati dalle fatiche, nutriti con mezza razione di pane e con una ciotola d’acqua sporca chiamata minestra dall’ufficiale di rancio della fortezza: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano[…] Quei meschinelli coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar dì fame e di stenti tra le ghiacciaie».

Le vicende dei campi di deportazione dei soldati napoletani e pontifici all’indomani della campagna per l’Unità, rappresentano un’altra tessera – completamente rimossa della memoria e dagli archivi – che serve a svelare il vero volto del Risorgimento. Argomento fastidioso per il buon nome del nostro paese e dei suoi padri fondatori, sottaciuto per decenni, definito “revisionismo-spazzatura” o, a proposito di chi critica gli autori dell’Unità italiana, si è parlato di “patologie autolesioniste”, tanto fastidioso che generando una controversia sulla fortezza tristemente famosa che hanno fatto scomodare il prof. Alessandro Barbero per smentire le ricerche effettuate. Ma lo storico ha dimenticato che la verità purtroppo viene sempre a galla: “Lo studio sulla storia dei prigionieri napolitani dei Savoia realizzato dal professore Giuseppe Gangemi dell’Università di Padova, il quale ha effettuato una minuziosa ricerca presso l’Archivio di Stato di Torino. Dopo aver analizzato migliaia di biografie e ruoli matricolari, è giunto a ipotizzare un numero impressionante di morti in prigionia: circa 16.000. Una tragedia non riconosciuta dalla storiografia ufficiale, emersa con una ricerca ostacolata dal dirigente dell’Archivio e dagli impiegati, è narrata nel saggio In punta di baionetta – 1860-1870: le vittime militari della Guerra Meridionale nascoste nell’Archivio di Stato di Torino. 

Deportazioni, l’incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari.
Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”. Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell’esercito borbonico e 24.000 soldati. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”.
(ricorda molto la scritta dei lager nazisti). Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l’astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione savoiarda. Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l’esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai “liberati” di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell’ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo “spirito del tempo”.

Una ricerca analitica sui caduti e sui prigionieri napolitani è stata realizzata dallo studioso Massimo Cardillo, il quale ha prodotto degli elenchi non definitivi. In questi, l’ultimo napolitano deceduto in prigionia a Fenestrelle risulta in data 01-01-1867. Ciò significa che la deportazione dei soldati, dei renitenti alla leva e dei disertori meridionali ebbe una lunga durata che si prolungò anche oltre la III guerra d’indipendenza. Le decine di migliaia di prigionieri napolitani furono detenute in vari campi, tra cui quello citato di Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Genova, Alessandria, Milano e altri. Qui subirono durissime pressioni da parte delle autorità savoiarde per accettare l’arruolamento nel nuovo Regio Esercito Italiano. Furono usati strumenti come il freddo, la fatica, la fame, la pressione psicologica, ma, nonostante ciò, furono migliaia quelli che rifiutarono, rispondendo «Uno solo Dio, uno solo Re, uno solo giuramento».

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