SE FENESTRELLE FU’ UNA VERGOGNA PER IL TRATTAMENTO ATTUATO DAI PIEMONTESI AI MILITARI BORBONICI LA DEPORTAZIONE E IL DOMICILIO COATTO DEI CIVILI MERIDIONALI FU’ UNA SCHIFEZZA DEGNA DEL NAZISMO!

Dopo il 1860 il carcere a Finalborgo (Finale Ligure) fu una opportunità irrinunciabile per la popolazione che sarebbe, così, rimasta in paese. La enorme macchina di deportazione al domicilio coatto attivata dopo la dichiarazione del Regno d’Italia da Silvio Spaventa ebbe l’effetto immediato di riempire tutti i luoghi di concentramento per i domiciliati coatti e di reclusione esistenti di ogni ordine e grado fino all’inverosimile tanto da doverne cercare dei nuovi. Alla fine del 1863 i numerosi luoghi di relegazione dei coatti approntati sulle isole Tremiti, Eolie, Pontine, Toscane, Sarde e Liguri: la Palmaria e la terraferma, inclusa Finalmarina, oltre a numerosi altri luoghi quale Andora, Porto Maurizio, queste le località, dove furono stipati i domiciliati coatti.

Civili mai giudicati e condannati da alcun tribunale erano inviati al domicilio coatto con determina ministeriale del ministero Interni, furono reclusi anche nei bagni penali, carceri giudiziarie, lazzaretti, locali e case locate a privati; negli atti parlamentari dell’epoca si parla di più di 70 luoghi di relegazione. Stando ai documenti dell’allora ministero dell’Interno la quantità è Imponente. Il numero di deportati oggi sarebbe rintracciabile nei documenti che furono inviati al ministero degli Interni dove, per Regio decreto n. 2918 del 21.05.1866 fu proseguita la misura di polizia dell’assegnazione del domicilio coatto. La deportazione era stata messa in atto a partire dal 15.08.1863 con l’art. 5 della cosiddetta legge Pica, fu proseguita con decreto n. 2918, nell’ art. 2 è sancito: Presso il Ministero dell’Interno è istituita una Giunta consultiva composta di tre magistrati per rivedere i pareri emessi dalle Giunte consultive provinciali.

A Finalborgo il 25 luglio 1863, un mese prima dal varo della legge 1409 del 15.08.1863 (legge Pica), sulla repressione nelle province meridionali, la giunta municipale stimò conveniente destinare a carcere l’ex convento di S. Caterina ed altri locali attigui. Il ministero dell’Interno s’era mosso in anticipo per individuare le strutture e l’apparato della relegazione inviando il geografo Felice Cardon in tutti gli arcipelaghi dove c’erano fortezze e castelli.

Il 25 luglio 1863 La Giunta Municipale presidente e relatore Cav. Luigi Bergalli sindaco delibera: Signori nei rivolgimenti di Stati quando le loro membra già sparse, e disgregate per antica sostenuta prepotenza di fuori, il carcere era una opportunità irrinunciabile per arginare lo spopolamento per l’emigrazione in atto. Ritenuto che l’impianto in città di uno stabilimento di pena gioverebbe al doppio scopo di dare un’eccitamento all’industria, e di aumentare considerevolmente il numero dei Comandatori, avuto riguardo specialmente al personale di custodia, ciò che produrrebbe l’ottimo effetto di accrescere le risorse comunali mediante i maggiori prodotti dei dazii di consumo. La proposta del Dir. Della Cassa Ecclesiastica di concedere i locali al canone annuo di £. it. Seicento è tale da doversi ravvisare accettabile. La cessione al Comune venne fatta per mezzo del regolamento d’attuazione della legge 21 agosto 1862 n. 794 (Quintino Sella) che trasferì al demanio i beni immobili spettanti alla cassa ecclesiastica. Con le delibere 28 luglio, 18 e 30 novembre 1863 il Presidente Desciora offriva gratuitamente al Ministero di Marina tutti i locali costituenti il già Convento e Chiesa dei Domenicani, il contiguo Oratorio dè Disciplinati con adiacenze, e del primo piano e fondachi del Palazzo municipale Ricci all’oggetto che detto Dicastero possa impiantarvi un’Ergastolo, o Bagno con tutti gli stabilimenti di lavoro, alloggi di guardiani, ed uffici che sono l’indispensabile conseguenza. Inoltre mise a disposizione l’intero palazzo detto l’antico Collegio delle Scuole Pie per alloggiare le truppe spedite a presidio del nuovo Stabilimento. Il 10 agosto 1864 entra in funzione il carcere. Bergalli vide l’affare per le entrate delle casse comunali non l’inferno che Silvio Spaventa, dal ministero dell’Interno aveva attuato. La cupidigia e la sete di potere, mai doma nel carattere umano avrebbero trovato con la deportazione al domicilio coatto di civili inermi nuova linfa economica ma anche nuovi orrori di carcere e deportazione di civili.

È incredibile come sia stato tutto nascosto e taciuto, purtroppo oggi sconforta l’inerzia che pervade in questo periodo storico il sud che non si interessa non sa ricordare e commemorare la prima deportazione di civili nella storia d’Europa moderna e contemporanea. In questo momento manca la consapevolezza dell’operato di Silvio Spaventa e della enorme tragedia dei nostri avi da lui deportati nei campi di concentramento denominati ministerialmente “luoghi di relegazione”, dove molti meridionali furono utilizzati come schiavi nei lavori forzati dei campi, nei tabacchi e saline, nelle ferrovie, porti e miniere.

Alle discussioni che si svolsero in Italia sul tema della questione meridionale tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli antropologi di ispirazione lombrosiana diedero un contributo rilevante, si interrogarono sulle ragioni del divario tra Nord e Sud, mescolando, non senza incoerenze e contraddizioni, discorsi sulle “razze“, indagini criminologiche e analisi sociopolitiche. Nell’articolo si intende ricostruire un momento di tale dibattito, concentrandosi sul decennio compreso tra il 1897 e il 1907 e su tre protagonisti, tutti e tre siciliani: lo statistico e criminologo Alfredo Niceforo, l’economista e uomo politico Napoleone Colajanni e l’antropologo e psicologo Giuseppe Sergi. Proprio Sergi fu il vero centro di questo dibattito, dal momento che le sue teorie sulla stirpe mediterranea, sulla sua provenienza africana e sul suo ruolo nel popolamento e soprattutto nel processo di civilizzazione del continente europeo furono usate da una fazione e dall’altra: Niceforo se ne servì per sostenere l’arretratezza della popolazione dell’Italia meridionale (i meridionali erano impulsivi e inclini al crimine proprio a causa della loro origine africana) Uno dei casi di atavismo più importanti, e soprattutto più gravidi di conseguenze per il futuro, fu quello che nel dicembre del 1870 Lombroso – allora primario del reparto di malattie nervose dell’ospedale Sant’Eufemia di Pavia – riferì di aver individuato nel cranio del brigante calabrese Giuseppe Villella: l’autopsia rivelò che tra i due emisferi cerebrali, al posto di una cresta occipitale, si trovava una fossetta. La presenza di questo particolare anatomico, tipico dei lemuri, delle scimmie platirrine e dei roditori, ma assente in tutte le scimmie superiori e in molte di quelle inferiori, denotava un arresto di sviluppo allo stadio fetale, data la corrispondenza ammessa da Lombroso tra la conformazione cranica e l’evoluzione del cervello. Ciò permise di stabilire un nesso tra delinquenza e atavismo e di affermare che nei criminali riapparivano caratteri primitivi e animaleschi: era l’atto di nascita dell’antropologia criminale in Italia. Richiamandosi proprio a queste idee lombrosiane, Niceforo sosteneva che gli abitanti della „Zona delinquente“ erano affetti da una forma di atavismo insieme fisico, psichico, morale e sociale: in loro si ripresentavano i tratti fisici delle popolazioni nomadi premoderne, così come i loro comportamenti aggressivi, bellicosi e vendicativi. L’antica sovrapposizione tra mediterranei e arii era ancora visibile nelle differenze fisiche, psicologiche e comportamentali che esistevano tra gli abitanti del Nord e gli abitanti del Sud dell’Italia: la popolazione settentrionale, influenzata dalle invasioni indoeuropee, aveva un profondo senso della comunità e del dovere ed era incline al lavoro (qui agiva evidentemente una „libera“ rilettura delle descrizioni delle tribù germaniche presenti nella „Germania“ di Tacito); la popolazione meridionale, invece, di origine mediterranea, era individualista e apatica ma al contempo creativa e geniale (qui il riferimento implicito era alle immagini dell’Italia del Sud lasciate dai viaggiatori europei del Grand Tour tra Seicento e Ottocento). Niceforo accettava la concezione sergiana delle „due Italie“, abitate da due stirpi differenti, ampliandone però il campo di applicazione e aggiungendo un ulteriore, decisivo tassello, ovvero la diversa predisposizione dei due gruppi umani alla criminalità. Al Nord, dove prevalevano i discendenti della stirpe celtica o aria, sobria nei costumi e fedele al principio di autorità, i crimini erano meno numerosi che al Sud, dove invece vivevano i discendenti della stirpe mediterranea, che avevano ereditato i propri spiccati istinti delinquenziali dalle tribù africane, alle quali erano genealogicamente legate. La provenienza africana dei mediterranei. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si afferma in Italia la teoria razziale dell’inferiorità del Mezzogiorno. questa teoria si diffuse come linguaggio funzionale all’ideologia dei ceti dominanti italiani e stranieri. Ma il pregiudizio antimeridionale non è scomparso e anzi alimenta ancora oggi, in vecchie e nuove forme di razzismo. La spiegazione razziale dell’inferiorità morale e sociale dei meridionali, che si richiamava alle teorie di Niceforo e di Lombroso, costituì l’esito più paradossale di una continua e sistematica negazione dell’altro. La teoria della “razza maledetta” fu denunciata da numerosi meridionalisti come un “romanzo antropologico” e una comoda scorciatoia per spiegare le differenze tra Nord e Sud. Questa narrazione influenzò le posizioni di magistrati, medici, psichiatri, politici e, più in generale, l’opinione pubblica del Nord. Essa finì col generare un sentire comune e diffuso, all’origine di stereotipi ancor oggi operanti. Nell’aspro dibattito, documentato nel volume, tra studiosi di matrice positivista e meridionalisti (Niceforo, Sergi, Colajanni, Rossi, Ciccotti, Lombroso, Salvemini, Fortunato) affiorano termini e problemi che tornano oggi a segnare l’attualità sociale e politica.

Accanto a criminali comuni, il penitenziario di Finalborgo ospitò un gran numero di detenuti politici, figure progressiste ostili alla politica del Regno d’italia.

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