La pagina più nera della storia d’Italia é ancora celata, coperta dal segreto della vergogna da oltre 160 anni, per quegli avvenimenti che condannarono a morte 5.212 persone, con più di 500.000 persone arrestate. Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l’intero tragitto), fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord. Una storia taciuta, insabbiata, distorta. E tale sarebbe rimasta se negli anni la tenacia di ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica politica, decisero di far conoscere vicende sepolte sotto la densa polvere del tempo, e la coltre della vergogna. E’ venuta fuori così un’altra storia, diversa, inedita, sorprendente: la prima pulizia etnica dell’età moderna. Deportazioni, facile reclusione, persecuzione alla Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari e ben 62 paesi furono rasi al suolo!
Una pagina che non si vuole scrivere è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”. Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, e di 1700 ufficiali dell’esercito borbonico.
Il Risorgimento è stato sempre visto e narrato come ha voluto la parte vincitrice: questa dei buoni, l’altra, la perdente, dei cattivi. Ma c’è un altro Risorgimento fatto di lutti, di sangue, di fango, dolore, crudeltà, ferocia. Non vi si sottrassero i piemontesi e neanche i meridionali. Fu il tempo dei briganti: banditi o guerriglieri? Combattenti di una rivolta contadina, partigiani ante litteram, movimento di liberazione contro l’invasore o banditi spinti da generici impulsi delinquenziali?
Nel 1860, alla caduta del regno borbonico, sconfitto dall’esercito di volontari garibaldini, il Meridione veniva annesso agli altri stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all’appuntamento unitario in condizioni di grande squilibrio sociale. La distribuzione della ricchezza, che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola, era iniquamente spartita tra un ristrettissimo numero di latifondisti, mentre la massa dei braccianti agricoli era ridotta alla fame. I borbone erano caduti anche per l’iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l’espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza tra i ricchi possidenti del nord e proprietari terrieri del sud, eludendo la promessa garibaldina della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. Le strutture economiche e sociali rimasero immutate, le condizioni per i più deboli finirono addirittura per peggiorare. Questo è il motivo per cui i briganti godevano dell’incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, paladini di una giustizia che prendeva la spada contro i soprusi dei ricchi e contro le autoritarie imposizioni del nuovo padrone: il Regno d’Italia.
Fin dai primi mesi del 1860 il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i Piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 22.000 a un contingente di 50.000 nei 1861, aumentato a 105.000 l’anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 uomini nel 1863. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell’esercito regolare in cinque anni fece un’ecatombe di vittime, assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che fra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento, o passati per le armi, 5.212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5.044. Occorsero misure severissime per stroncare definitivamente il brigantaggio: venne proclamato lo stato d’assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti. Spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri, pagando con la distruzione di interi villaggi, con le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti fiancheggiatori dei briganti. Vicende che si ripeteranno nel corso della storia della Resistenza fino al Vietnam. Per crimini così aberranti, la verità storica è riuscita a emergere ed ha fatto sapere come effettivamente sono andate le cose. Gli accadimenti della nostra storia post-unitaria sono stati, invece, artatamente occultati, nascosti, sepolti sotto una spessa coltre di oblio, quasi cancellati. Nessuno realmente conosce, la triste sorte riservata a migliaia e migliaia di meridionali rinchiusi nel campi di concentramento del nord Italia dopo il dissolvimento dello stato borbonico e l’avvento dei Piemontesi nel Sud. Eppure in tanti sono morti fra gli stenti, le privazioni, i maltrattamenti, le esecuzioni sommarie, nei lager allestiti dai Savoia che, sicuramente, assai poco diversi dovevano essere da quelli approntati, meno di un secolo dopo, dagli aguzzini nazisti.
Una storiografia di parte, scorretta e compiacente, che si è impegnata, per tanti lunghi interminabili decenni, a tenere nascosta una verità scomoda. In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”, i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie. Quelli deportati a Fenestrelle, una fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, ufficiali, sottufficiali e soldati borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi, subirono il trattamento più feroce. Le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati e non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica. Furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità.
Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. Non era più gradevole il campo impiantato nelle “lande di San Martino” presso Torino per la “rieducazione” dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli “liberati”, maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli “liberatori”. Altre migliaia di “liberati” venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all’Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d’Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell’epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti. Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: “Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte… Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?”.
Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula! Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all’estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: “Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano”, ammettendo, in tal modo, l’esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana, non dimentichiamo che molti di loro non erano che ragazzi.
Questa è stata l’unità, fatta con la politica della criminalizzazione del dissenso, con il rifiuto di ammettere l’esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai “liberati” di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell’ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, adempiendo fedelmente al proprio compito fino in fondo, opponendosi ai sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire!
