LO STRISCIANTE RAZZISMO ANTIMERIDIONALE

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli].

Con i “discorsi biologico-razzisti” degli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo, si ammetteva una differenza tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale, dove la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al delitto passionale, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione che i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano un radicamento socialista. Il rapporto tra enunciazioni e pratiche di potere riproduce una retorica paternalistica del Nord che per costruire un impero è convinta di essere la parte buona che protegge la parte debole, “cattiva”, (il sud), invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico, infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni, con il potere suscita gli effetti desiderati: “La morale di base di una società arretrata da un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come  “lazzaroni” che mangiano con le mani la pasta e si dilettano al sole, adagiandosi nell’ozio. L’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio”.  Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata, ma invece diviene un buon cibo per inchieste giornalistiche, fiction, documentari televisivi e nel suo interno si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto. Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali, la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche. L’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano». D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930). Esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo.

A tutt’oggi non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti.

Lascia un commento