Giosafatte Talarico, un po’ brigante e un po’ Robin Hood

Giosafatte Talarico, rubava ai ricchi per donare ai poveri, nato da famiglia contadina il 20 marzo 1807 a Panettieri, un villaggio della provincia di Cosenza, studiò nella scuola parrocchiale e quindi  Diritto, Teologia, Storia e Filosofia al Seminario Vescovile di Cosenza, con notevole profitto. Nel 1820 abbandonò gli studi seminaristici per studiare farmacologia, divenendo praticante del farmacista don Gaetano Rimola. Quindi si iscrisse all’Universita di Napoli. Ma una domenica di fine novembre del 1823 ritornò precipitosamente al suo paese natale per affrontare il signorotto locale don Luigi Sperandei, colpevole di aver violentato sua sorella Carmela. Gli intimò di sposare la ragazza, ma inutilmente, infuriatosi alle risposte beffarde dell’uomo, lo colpi  con un coltello davanti la parrocchia del paese, uccidendolo.  Dopo aver pulito l’arma dal sangue strofinandola sul viso del morto, si diede alla macchia riparando sulla Sila, dove entrò nella banda del brigante Boia, che aveva combattuto contro i francesi. L’indole cavalleresca e il rispetto per i religiosi di Giosafatte Talarico non poteva uniformarsi a quella del feroce capobanda e durante una rissa lo uccise con il suo stesso coltello. Talarico, quindi assunse il comando di 12 briganti, quasi tutti ex pastori e braccianti agricoli. La banda prese a taglieggiare così gli arroganti signorotti prepotenti, nobili, borghesi autoritari e ricchi, ma la regola era che metà del bottino venisse dato ai poveri dei vari villaggi. Inoltre le ragazze indigenti venivano fornite di doti di maritaggio. Pur essendo un capobrigante Giosafatte impose delle regole severe: non si dovevano uccidere coloro che venivano rapinati ed era proibito molestare e violentare le donne. Divenne così  la vittima designata di varie imboscate, ma riuscì sempre a farla franca, catturando gli aggressori e mettendoli in ridicolo: li legava agli alberi lasciandoli in mutande. Ma si dimostrò più volte uomo di principio:  nel 1830 una sera si presentò da solo a casa del parrocco Giuseppe Riparelli e lo costrinse a restiuire i 500 ducati estorti con inganno alla contadina Filomena, e si incaricò di restituirli alla donna come dote, che fece sposare e trasferire a Palermo, lontano da eventuali ritorsioni. Gli diedero la caccia guardie urbane, doganieri, guardie forestali e gendarmi al comando del colonnello borbonico di Gendarmeria Francesco Saverio Del Carretto, ma non fu mai preso e così la sua banda, protetti come erano da religiosi e dal popolo. Nel 1831 la taglia per la sua cattura aumentò da 1000 a 2000 ducati. Ad inseguirlo in quel tempo erano gli uomini del maggiore Giuseppe De Liguori del comando di Gendarmeria, Intendente regio di Catanzaro e di Crotone, ma  era imprendibile. Nonostante avesse l’esercito alle spalle, Talarico continuava ad aiutare le persone in difficoltà: protesse e rifornì di denaro e viveri gli operai e forzati che lavoravano alla ricostruzione del terremoto calabrese dell’8 marzo 1832. La leggenda del brigante Talarico cresceva: era il paladino non solo dei poveri, ma anche dei vecchi, donne e bambini, persino degli di animali maltrattati!.. Era anche temeraio: nel 1835 andò al teatro di Cosenza per assistere travestito da nobile all’esibizione del famoso soprano Caterina Longoni, passando davanti al nuovo Intendente regio di Catanzaro, colonnello Zola. L’Intendente era considerato esperto di briganti, essendo stato un sandefista nel 1799 e poi tra i guerriglieri calabresi dal 1806 al 1815. Quella sera Talarico si mescolò agli invitati alla cena tenuta dopo la rappresentazione, rapì la Longoni davanti a tutti e  la portò con sé sulla Sila per 8 giorni. Ai gendarmi del colonnello Zola si unirono quelli del maggiore Salzano di Crotone, ma anche così la caccia all’uomo non ebbe esito. Allora Del Carretto portò la taglia su Talarico a 6mila ducati, più una promozione cavalleresca e avanzamento di grado per i militari. Il maresciallo d’Alloggio della Gendarmeria di Cosenza Francesco Spezzaferri, grasso e ubriacone ma che era stato il terrore di molti briganti e camorristi, fu ingolosito da questa ricompensa: con 5 gendarmi si posizionò nella taverna di Mico il Guercio, vicino una vecchia torre abitata dalla fidanzata di Talarico, una bella e brava giovane orfana di padre. Mentre era a tavola Spezzaferri fu avvicinato da un eremita, in realtà Giosafatte, che lo mise fuori combattimento insieme con i suoi soldati. Poi li legò agli alberi dopo averli spogliati di armi, orologi, anelli, soldi e vestiti lasciandoli seminudi e con i capelli rapati a zero … Adirati dell’affronto, il colonnello Zola e il maggiore Salzano gli inviarono contro un reparto speciale di gendarmi al comando del tenente siciliano Salvatore Maniscalco, ma fu tutto inutile: era una vera e propria volpe e riusciva a sfuggire sempre alla cattura. Tutte le Forze dell’Ordine erano in costante stato d’allarme, ed oltre ai gendarmi furono inviati anche reparti dell’esercito! Nel marzo 1846 venne, accerchiato dagli uomini al comando del capitano Galluppi, ma anche questa volta riuscì a fuggire, lasciandosi dietro 3 compagni e 8 gendarmi morti, e il Galluppi gravemente ferito, che morì di lì a poco. A questo punto il Maresciallo di Campo, generale di divisione don Nicola duca de Sangro, intendente regio di Cosenza, propose al ministro Del Carretto di promettere salva la vita a Talarico: sarebbe stato inviato al confino in un’isola del Regno, accompagnato dalla sua fidanzata e persino mantenuto dal governo. Il ministro, sentito il re, accettò la proposta. Su controproposta del Talarico la garanzia, tramite il suo confessore e l’avvocato barone Barraco, fu estesa anche ai 9 compagni di banda .Giosafatte Talarico si consegnò a Cosenza: era a cavallo con i suoi briganti. Venne scortato dai gendarmi del maggiore Salzano fino a Salerno, dove fu imbarcato su una fregata da guerra. Sbarcato il 29 giugno 1846 a Ischia Porto e venne alloggiato in una casa di pescatori, ricevette 6 ducati mensili di rendita vitalizia per sé e per i suoi uomini. Il confino era a vita. Nel maggio 1860 Talarico,  su proposta segreta del capo della Polizia borbonica in Sicilia, Salvatore Maniscalco, fu prelevato da una fregata e sbarcato a Palermo. Trasvestito da garibaldino, il suo compito era uccidere Garibaldi, raggiunse il dittatore a Palazzo Reale, ma non lo fece, non se la sentì di uccidere un uomo a sangue freddo, era stato un brigante ma non un criminale. Non sappiamo come andarono le cose, ma il brigante Giosafatte se ne tornò a Ischia, dove visse tranquillamente con sua moglie. Invano nel 1861  il deputato Luigi Settembrini tentò di  farlo processare, ma il governo sabaudo preferi non trovarsi un altro brigante tra i piedi. Ci riprovò il deputato e scrittore Francesco Mastriani nel 1863: propose, almeno, di far sospendere i benefici, ma il governo ritenne che non c’erano fatti attuali di delinquenza reiterata per proccessarlo. Giosafatte Talarico morì serenamente ad Ischia a più di ottant’anni. La sua romantica leggenda continua: Giosafatte vive ancor oggi nella memoria collettiva del suo paese, Panettieri, e dei paesi vicini, come il vendicatore dei torti, il romantico difensore dei deboli! Giosafatte fu un brigante solitario e particolare: uccideva solo per vendetta o per ridare ai poveri quello che l’arroganza dei baroni aveva loro tolto! La sua abilità nel travestimento, la sua cultura e soprattutto l’accortezza di non legarsi per troppo tempo a bande numerose, ma avere solo due amici fedeli: Felice Cimicata di Taverna e Benedetto Sacco di Castagna, fecero di lui un imprendibile fantasma, una leggenda vivente! Solo un patto con il monarca borbonico lo stanò dalle selve silane. Nel 1845 il re Ferdinando II, desideroso di dare all’Europa un’immagine pulita del suo regno, constatato che con la repressione non riusciva a venire a capo del fenomeno e insensibile alle tematiche sociali, vero scoglio insito nella sua mente e insuperabile dalla sua mentalità, propose a Giosafatte e ad altri briganti di arrendersi in cambio di una nuova e libera vita lontano dalla Sila. Giosafatte così venne esiliato nell’isola di Ischia dove ebbe casa e stipendio. Aveva allora 40 anni e altri 40 visse in completa tranquillità davanti al mare!

Giosefattetalarico
Banda di Giosafatte
Giosafatte Talarico
Di Giosafatte Talarico lo scrittore calabrese Nicola Misasi ebbe a dire: “Il certo è questo, che il suo nome, nome di malfattori, qui da noi è ricordato con lode più che con biasimo, come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte
Giosafatte
Una sorta di brigante gentiluomo, feroce quando le circostanze lo rendevano necessario, ma anche generoso; giusto, ma anche spietato, un brigante inafferrabile forse proprio perché protetto dal popolo, ma anche dalle classi abbienti.  La zona teatro delle sue gesta brigantesche fu quella compresa tra le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, da Panettieri a Camigliatello, a Petronà, a San Giovanni in Fiore.

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