«Vi fu, o signori, un tempo di corruzione, di decadimento, di barbarie, in cui poté credersi virtù evangelica il ritirarsi dal guasto secolo all’ombra d’un romito chiostro. Ma ora, o signori, quei tempi sono trascorsi. Ora non è più sotto un bianco o bigio mantello che si serve il vangelo. E noi intanto osiamo consumare così preziosi giorni ad argomentare, a distinguere, a sottilizzare per sapere quale diversità esista tra un gesuita, un gesuitante, un gesuitino, un gesuitastro; io voterò per quanti più oblati, e paolini, e monaci, e frati di tutti i generi e di tutti i colori vorrà abolire la Camera». A parlare così è Angelo Brofferio (1802-1866), scrittore benemerito di casa Savoia, in un intervento pronunciato alla Camera dei deputati il 19 luglio 1848, mentre è in discussione il provvedimento di soppressione di Gesuiti e ordini affini, genericamente definiti «gesuitanti». Ma come è potuto Angelo Brofferio, finire nel Parlamento di uno Stato ufficialmente cattolico un uomo così profondamente anticattolico? Ce lo racconta Roberto D’Azeglio (1790-1862), fratello del più noto Massimo, scrivendo al figlio Emanuele, diplomatico: «Da informazioni sicure siamo fatti certi come a Busca e Caraglio per allettare i paesani a votare Brofferio si faceva loro credere che era un uomo eminentemente religioso, assiduo ai sacramenti, amico della pace e dell’ordine, nemico della repubblica e il più perfetto onest’uomo del paese perseguitato per causa della sua pietà e del suo realismo». Questo piccolo fatto, tutt’altro che isolato, è esemplare ed emblematico: il Risorgimento è stato realizzato anche facendo sistematico uso di propaganda menzognera, diffusa ad arte tra la popolazione cattolica, ingenua e credulona. Vecchie polemiche che rispolverano tesi ultraconservatrici: così è stato definito l’articolo comparso nel numero di luglio-agosto di Studi Cattolici. La Massoneria ha voluto la scomparsa dello Stato della Chiesa e di conseguenza l’unità della penisola, e la riduzione di Roma da caput mundi a caput Italiæ. L’unico modo per farlo è analizzare le fonti dell’epoca. La visione del mondo della Massoneria ottocentesca è interamente costruita intorno a due presupposti. Il primo è che la Rivelazione non esiste: rifiutando la Rivelazione i massoni ritengono spetti all’uomo in totale autonomia e col solo aiuto della ragione stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile. Questo è anzi il compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: ancora il 10 febbraio 1996 una pagina intera di pubblicità su Il Corriere della Sera ricorda che i massoni «hanno la responsabilità morale e materiale di essere guida di altri uomini». Il secondo presupposto è che la natura dell’uomo è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane.
La Massoneria ritiene possibile raggiungere la tangenza uomo-dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura, ed in questo contesto teorico che Giosuè Carducci (1835-1907) compone L’Inno a Satana («Salute, o Satana, O ribellione, O forza vindice De la ragione»!). Quindi la Chiesa cattolica è la negazione della bontà e verità (nonché praticabilità) del credo massonico. È chiaro pertanto che, al di là delle parole, il Papa e la Chiesa sono i nemici naturali e mortali di ogni massone: «La Massoneria avrà la gloria di debellare l’idea terribile del papato, piantandovi sulla fossa il suo vessillo secolare verità, amore». L’appoggio internazionale all’unificazione italiana (appoggio che non consiste solo nella copertura politica data ai Savoia, ma anche in concretissimi prestiti e ingenti fondi investiti nell’impresa) è quindi da vedersi in relazione all’obiettivo prioritario della Massoneria: la lotta di giuseppe mazzini al papato e la convinzione che la fine del potere temporale avrebbe fatalmente comportato anche quella del potere spirituale. Il Bollettino esprime questa realtà con molta chiarezza nell’aprile del 1865: «Le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la Massoneria si propone; al quale da secoli lavora, attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli».
«A Roma sta il gran nemico della luce. Lo attaccarlo ivi di fronte, direi quasi a corpo a corpo, è dover nostro». Dall’attacco alla Roma pontificia la comunione massonica italiana si ripropone, oltre all’obiettivo comune a tutto l’Ordine, il raggiungimento di un suo fine particolare. I massoni italiani si ripromettono infatti di far risorgere la potenza e la forza della Roma pagana e imperiale: è il mito della Terza Roma tanto cara a Giuseppe Mazzini (1805-1872).Per realizzare il suo programma, la Massoneria deve neutralizzare la resistenza dei cattolici, ma come evitare che i cattolici di tutto il mondo insorgano in difesa dello Stato della Chiesa che da più di un millennio difende il Papa dalla prepotenza di prìncipi e sovrani ed è l’orgoglio e il gioiello di tutta la cristianità? Per scongiurare questo pericolo la Massoneria organizza una più che decennale campagna internazionale basata sull’uso sistematico della calunnia e della menzogna in cui si dipinge lo Stato della Chiesa come il più sanguinario, retrogrado e mal amministrato di tutta la Terra. Contro ogni ragionevolezza e contro ogni verità storica, l’Ordine cerca di convincere i cattolici che la semplice esistenza di uno Stato pontificio è contraria all’insegnamento di Cristo, vissuto povero e morto in croce, e assicura che rinunciando alla sua visibilità la Chiesa avrebbe guadagnato in spiritualità e purezza. In questa campagna anticristiana, un posto di rilievo spetta, a Massimo D’Azeglio (1798-1866), che parla da cattolico e può indirizzarsi ai «cattolici più devoti» senza suscitarne la diffidenza. Calunniatore dell’amministrazione pontificia, che denuncia pessima davanti al mondo intero, arriva a mettere in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato della Chiesa (di gran lunga il più antico Stato dell’Occidente e quindi di gran lunga il più legittimato a esistere). La Massoneria dipinge lo Stato della Chiesa come luogo di rapina, di barbarie e di violenza (dimenticando che si tratta dell’unico Stato al mondo a non avere la violenza come madre perché non è frutto di conquista) e si contrappone alla Chiesa anche a questo riguardo presentandosi come l’incarnazione della benevolenza, della mitezza, della fratellanza, del desiderio di pace. Il 3 febbraio 1861, mentre viene ultimata la conquista dello Stato della Chiesa, il Generale Ferdinando Pinelli (comandante la colonna mobile degli Abruzzi e dell’Ascolano) detta il seguente proclama: «Un branco di quella progenie di ladroni ancor s’annida fra i monti; correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino […]. Sono i prezzolati scherani del Vicario non di Cristo, ma di Satana»; «Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotale vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda sua bava, e da quella cenere sorgerà più rigogliosa la libertà anche per la nobile provincia Ascolana». Ma le menzogne massoniche infangavano anche il cattolicissimo Regno delle Due Sicilie, come quelle che sparse il Poerio, esule napoletano, graziato da Ferdinando II, sui giornali che auspicavano l’abbattimento del Regno del Sud a causa del regime tirannico che vi sarebbe stato praticato. E una volta che l’unità d’Italia era stata fatta, si potevano impunemente far uscire gli scheletri dall’armadio. Ed ecco le ammissioni di Petruccelli della Gattina, deputato del neonato Regno d’Italia: “Poerio è un’invenzione convenzionale della stampa anglo-francese. Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borbone di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori di un’Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile che quell’orco di Ferdinando divorava ad ogni pasto. Inventammo allora il Poerio, fu creato da cima a fondo”. Insomma, quelli che hanno voluto l’unità d’Italia hanno preso sul serio la massima di Voltaire: “Calunniate, calunniate: qualcosa rimarrà”. Le calunnie, si sa, sono dure a morire. Quelle contro il Regno delle Due Sicilie sono sempre lì, sui libri di storia che gli studenti italiani subiscono senza che i loro professori, generalmente, facciano un minimo sforzo per aggiornarsi. Leggendo, per esempio, lo studio di Spagnoletti, pubblicato da una casa editrice italiana tutt’altro che “revisionista”, si scopre che “Re Bomba”, nomignolo affibbiato a Ferdinando II, era amatissimo dai suoi sudditi che, in occasione di ogni calamità naturale, lo vedevano presente in mezzo a loro. Un re “galantuomo”, lui sì, non certo Vittorio Emanuele II, e clemente. Paolo Mencacci è uno storico serio e cita dei fatti che parlano da sé: dopo la rivoluzione del 1848, nel Regno delle Due Sicilie, unico caso in Europa, non vennero effettuate condanne a morte. Le 42 pene capitali per delitti politici furono tramutate in punizioni più blande da Ferdinando II. Il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II mandò a morte, nel solo quinquennio 1851-1855, 113 condannati. Fatta l’unità, l’amministrazione piemontese si abbattè sul Meridione come un flagello, con ruberie ed espropri dei terreni civili ed ecclesiastici. Furono imposte tasse che affamarono la popolazione, in tutto il territorio del Regno, come la famigerata “tassa sul macinato”. E dopo aver dilapidato le ricchezze accumulate dal buon governo borbonico, nel ripartire la spesa per le opere pubbliche, lo Stato “unitario” distinse tra figli e figliastri. Dal 1862 al 1897, tanto per fare un esempio, furono spesi 458 milioni per bonifiche idrauliche. Al Nord e al Centro andarono 455 milioni, 3 al Sud. (Questo andazzo no è mai terminato!). La gente era esasperata. Si ribellò. Nel 1866 a Palermo, al grido di “Francesco II”, anche i siciliani fecero capire che cosa pensassero di quella colonizzazione a cui erano stati sottoposti. Il generale Cadorna sparò a cannonate. Alla carneficina si aggiunsero le misure vessatorie contro i sacerdoti che sostenevano la protesta dei poveri. Fu uno degli ultimi atti della resistenza del Sud.

A metà agosto i giornali di regime stampavano con enfasi le vittorie militari dell’esercito sabaudo e fecero passare per una grande battaglia la scaramuccia di Castelfidardo, mentre calavano una cortina di silenzio sugli eccidi perpetrati dai generali piemontesi contro cittadini inermi.
Cannoni contro città indifese; fuoco appiccato alle case, ai campi; baionette conficcate nelle carni dei giovani, dei preti, dei contadini; donne incinte violentate, sgozzate; bambini trucidati; vecchi falciati al suolo. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. In dieci anni dal 1861 al 1871 circa novecentomila cittadini furono uccisi su una popolazione complessiva di 9.117.050. Mai nessuna statistica fu data dai governi piemontesi. Nessuno doveva sape

Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno. Il terrore imperava, il genocidio di massa fu regola e legge. Si doveva distruggere un popolo la cui colpa era quella di essere cattolico e fedele al suo re, al papa e alla sua terra, che da sempre considerava la sua patria.