Il monologo del Generale Donatelli Carmine Crocco

Giudicarci … Vorreste giudicarci,
liquidarci come volgari ladri ed assassini?
Come avremmo potuto sopravvivere nel fitto delle boscaglie,                                          nei ricoveri improvvisati delle notti d’inverno,
braccati come lupi, sempre in fuga
da una sorte segnata, alla disperata
ricerca di una terra di sole!
Stranieri nei nostri paesi, oltraggiati
dalla storia e dal tempo, sembrava
giunto il momento del riscatto…
Fatale illusione… Con me uomini
e donne che non vollero piegare la
fronte dinanzi al sopruso, gelosi di
usanze e costumi, uomini che non
vollero vendere l’onore di mogli e
giovani figlie; molti costretti alla
macchia per accuse false, vittime
d’odio, e anche soldati di un re,
spodestato e deriso.
Un grappolo di uomini che divenne un esercito.
E intorno a noi il timore e la
complicità di un popolo.
Quel popolo che disprezzato da regi
funzionari ed infidi piemontesi
sentiva forte sulla pelle che a noi era
negato ogni diritto, anche la dignità di
uomini. Dignità negata a loro, popolo dei cafoni.
E chi poteva vendicarli se non noi,
accomunati dallo stesso destino.
Cafoni anche noi, non più disposti a
chinare il capo. Calpestati, come
l’erba dagli zoccoli dei cavalli,
calpestati ci vendicammo.
E contro di noi in questa sporca
guerra un’infinità di uomini armati.
Nei nostri villaggi, saccheggi, incendi,
rapine. Per noi un solo
destino – briganti o emigranti.
Molti, molti si illusero di poterci
usare per le rivoluzioni.
Le loro rivoluzioni.
Ma libertà non è cambiare padrone!                                                                                       
Non è parola vana ed astratta.
È dire, senza timore, “è mio” e
sentire forte il possesso di qualcosa,
a cominciare dall’anima.
È vivere di ciò che si ama.
Vento forte ed impetuoso in ogni
generazione rinasce.
Così è stato, così sempre sarà.

DCC
Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne comandante di un esercito di duemila uomini, e la consistenza della sua armata fece della Basilicata uno dei principali epicentri del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale. Dapprima militare borbonico, disertò e si diede alla macchia. In seguito, combatté nelle file di Giuseppe Garibaldi, poi per la reazione legittimista borbonica e infine per sé stesso, distinguendosi da altri briganti del periodo per chiara e ordinata tattica bellica e imprevedibili azioni di guerriglia, qualità che vennero esaltate dagli stessi militari sabaudi.
Alto 1,75 m, dotato di un fisico robusto e un’intelligenza non comune,fu uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario, guadagnandosi appellativi come “Generale dei Briganti”, “Generalissimo”, “Napoleone dei Briganti”, e su di lui pendeva una taglia di 20.000 lire.
Arrestato nel 1864 dalla gendarmeria dello stato pontificio, ove aveva tentato di trovar riparo, venne processato nel 1870 da un tribunale italiano. Fu condannato a morte e poi all’ergastolo nel carcere di Portoferraio. Durante la detenzione, scrisse le sue memorie, che fecero il giro del regno e divennero oggetto di dibattito per sociologi e linguisti. Benché una parte della storiografia dell’Ottocento e inizi del Novecento lo considerasse principalmente un ladro e un assassino, a partire dalla seconda metà del Novecento iniziò ad essere rivalutato come un eroe popolare, in particolar modo da diversi autori della tesi revisionista.
Durante la detenzione, il brigante iniziò la stesura della sua autobiografia, realizzata in due manoscritti (in realtà furono tre, ma uno di essi, in possesso del professor Penta, venne da questi smarrito). Il più noto è quello elaborato con l’ausilio di Eugenio Massa, un capitano del regio esercito, interessato a farsi raccontare gli avvenimenti di cui era stato protagonista.
Massa, che riconobbe le sue brillanti capacità di leader e pubblicò il racconto di Crocco, allegando l’interrogatorio di Caruso, in un libro denominato Gli ultimi briganti della Basilicata: Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso (1903). L’opera fu ripubblicata più volte nel dopoguerra da diversi autori quali Tommaso Pedio (Manduria, Lacaita, 1963), Mario Proto (Manduria, Lacaita, 1994) e Valentino Romano (Bari, Adda, 1997). L’altra versione autobiografica, che non subì alcuna revisione linguistica, venne pubblicata dall’antropologo Francesco Cascella nell’opera Il brigantaggio: ricerche sociologiche ed antropologiche (1907), con la prefazione di Cesare Lombroso.
Come già accennato, le memorie di Crocco trascritte con il capitano Massa sono tuttora oggetto di dibattito e sono stati avanzati dubbi sull’autenticità dei suoi scritti. Secondo Tommaso Pedio, alcuni episodi raccontati non rispondono al vero o non vengono fedelmente ricostruiti, Benedetto Croce ritenne che le memorie fossero «bugiarde».
Del Zio considerò il brigante quale autore del documento, data «la narrativa, la conoscenza esatta di persone, luoghi, paesi, campagne, e le iniziali di molti nominati», ma definì poco veritiera la storia raccontata; per costui, infatti, Crocco «mentisce in molti punti, esagera in altri, occulta quasi sempre e costantemente le sue brutalità, le sue lordure». Indro Montanelli dichiarò che si tratta di un componimento «viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma non privo di spunti descrittivamente efficaci sulla vita dei briganti, e abbastanza sincero».

 

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