DENATALITA’ e SCOMPARSA di UN POPOLO

In molti ci avete domandato il perché del nome del blog: “Un Popolo Distrutto”; perché se il popolo del sud non è stato completamente distrutto? Ma se ci pensate sono i numeri e le statistiche a dirlo: all’indomani dell’Unità, la popolazione italiana ammontava a poco più di 28 milioni, poi la crescita della popolazione fu abbastanza lenta negli ultimi decenni dell’Ottocento a causa dell’elevato numero di persone che emigravano all’estero. Sotto il profilo demografico l’Italia si conferma uno dei paesi con il più basso tasso di natalità al mondo; nel 2016 il numero medio di nascite per donna è stimato a 1,34, in calo rispetto all’1,46 del 2010, che rappresentava il valore più alto dal 1984.
“..sono 3000, sono arrivati, sono tutti sulla banchina, stanchi, affamati, con in mano il “libretto rosso” (che li bollava come analfabeti) o il “foglio giallo” che dà qualche maggiore speranza; poi per tutti c’è ora la quarantena, un attesa lunga, snervante; e per alcuni che prima di partire hanno venduto case e podere, o si sono indebitati per fare il viaggio, non è solo stressante ma è un’attesa angosciante”. (da un cronista dell’epoca). L’unificazione della nazione, realizzata all’insegna del centralismo, evidenziò diverse entità economiche che vedeva le regioni del Nord proiettate in un processo di modernizzazione volto a sviluppare il settore industriale attraverso la meccanizzazione dei processi produttivi ed investimenti nel settore delle infrastrutture (ferrovie, strade, canali, ecc.). L’agricoltura padana si evolveva e le aziende venivano gestite da impresari capaci di integrare le coltivazioni con allevamenti di bestiame e caseifici.
Nelle regioni centro-appenniniche permaneva una distribuzione equilibrata della proprietà che, coltivata in mezzadria, si affidava a metodi tradizionali, corretti con procedimenti di coltivazione aggiornati ma sobri, e produceva quanto necessario.
Differente era la condizione nelle regioni del Sud. L’Unificazione del Meridione, non aveva portato alla pacificazione del territorio, ma dato avvio ad una lunga (oltre 10 anni) e sanguinosa occupazione militare volta a sedare la ribellione che, in opposizione al nuovo Stato occupante, aveva coinvolto in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione fino a trasformarsi nella protesta sociale che aveva alimentato il brigantaggio. Questo, sintomo di un male profondo ed antico, con tutto il carattere disperato che lo sosteneva, aveva trovato alimento nell’imposizione di tutte quelle norme e leggi piemontesi, estranee al sentire della gente e tra cui ebbero un impatto dirompente la proscrizione obbligatoria di cinque anni e la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva.
La guerra ad oltranza che, per quasi un decennio, il nuovo Stato combatté contro il brigantaggio con l’impiego di un esercito smisurato ed atrocità che coinvolsero indiscriminatamente comunità inermi, marcarono una profonda rottura tra le popolazioni meridionali ed il nuovo Stato, verso cui si manifestò una avversione maggiore di quella che qualcuno aveva contro il governo borbonico al punto che, secondo i cronisti del tempo, se un paese straniero avesse tentato di sottrarre la Sicilia all’Italia, avrebbe ricevuto il medesimo entusiastico appoggio di cui godette Garibaldi nell’impresa dei Mille. Tutto ciò, senza che i nuovi amministratori tentassero di arrestare la diffusa corruzione e di modificare i privilegi imperanti di cui godevano le poche famiglie vicine ai palazzi del potere, in grado di ripartire in ambito familiare le cariche gestionali con cui si poteva influenzare la somministrazione della giustizia ed usurpare impunemente le terre demaniali, facendo rinascere un nuovo feudalesimo.
Il Mezzogiorno si presentava con il volto di una società arretrata e dominata da una profonda inquietudine, assuefatta per secoli a ritmi indolenti, a sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie. I grandi centri cittadini erano pochi, il commercio scarso e lo sviluppo industriale che avevano voluto i vituperati Borbone era ormai distrutto. A parte alcune e limitate zone privilegiate coltivate ad agrumi, in agricoltura si evidenziavano i contrasti tipici del sottosviluppo dove, accanto ad immensi latifondi prevalentemente sterili, in cui l’agricoltura era incredibilmente misera, esisteva una piccola proprietà sminuzzata in inadeguati appezzamenti che utilizzavano i pochi concimi naturali, e mezzi rudimentali (aratro a chiodo) e, non applicando la rotazione agraria, ottenevano raccolti insufficienti anche nelle annate normali. L’abbandono del territorio per il dilagante fenomeno dell’emigrazione, dava origine a frane e smottamenti aggravati dai disastri arrecati da terremoti, alluvioni ed eruzioni.
L’analfabetismo era diffuso nelle comunità agricole e superava il 90% . Rispetto alle altre regioni, il Meridione preunitario era soggetto ad una moderata pressione fiscale ed i prezzi dei generi alimentari erano accortamente mantenuti bassi, perché compensati dalle rendite dei vasti beni demaniali in mano pubblica che contribuivano a mantenere a livelli trascurabili il debito di bilancio.
Nel Meridione in genere e, nella Sicilia in particolare, sopravvivevano residui feudali in cui i contadini, mal pagati e sfruttati, ammucchiati in alloggi dove trovava spesso riparo l’animale di sostegno, vivevano una condizione disagiata, dislocati lontano dalle valli acquitrinose e costretti a limitare la loro attività a colture che non necessitavano di interventi nei periodi a rischio di contagio malarico.
Le strutture industriali, tessile e siderurgico, erano concentrate rispettivamente a Salerno e nella provincia di Napoli (Pietrarsa) dove si costruivano caldaie a vapore per attrezzare locomotive e piroscafi che avevano potenziato la terza flotta mercantile più potente in Europa (dopo Inghilterra e Francia) per numero di navi e tonnellaggio. Nel Meridione infatti il trasporto di materie prime di estrazione o di coltivazione (frumento ed agrumi), favorito da un ampio sviluppo costiero e da un regime daziario protezionistico nei riguardi delle merci d’importazione, avveniva per via marittima.
La rete ferroviaria era circoscritta benché esistessero numerosi progetti di costruzione di nuove strade ferrate ma l’unità blocco questi progetti per motivi speculativi da parte degli imprenditori del nord e così nel frattempo, il Nord si era dotato di una rete di duemila chilometri. In molte zone, per la scarsezza di denaro (la banca d’italia aveva rastrellato tutte le monete circolanti), così gli scambi avvenivano in natura e si generalizzava la riluttanza agli investimenti in migliorie agricole ed altre attività produttive. Altrettanto non si differenziava il comportamento dei borghesi da quello dei nobili che, a condizione che fossero salvaguardate le loro prerogative, accettarono la subalternità del Meridione agli interessi socioeconomici degli industriali del Nord. Con l’Unificazione, le imposte volte all’assestamento del deficitario bilancio del nuovo Stato che si trascinava il debito pubblico più elevato d’Europa, accumulato dal Piemonte per la politica espansionistica di annessioni e per gli investimenti infrastrutturali, aumentarono vertiginosamente e si abbatterono sul contribuente meridionale oneri fino ad allora sconosciuti.
I governi della Destra storica che, dall’Unificazione si succedettero fino al 1876, oltre ad affrontare le questioni internazionali legate al completamento dell’unità nazionale, imposero un modello amministrativo di tipo centralista e dotarono tutte le regioni del nuovo Stato di una stessa struttura amministrativa, abolendo le barriere doganali interne ed unificando i sistemi di misura, monetario e scolastico.
Per reperire maggiori risorse volte a riequilibrare il bilancio, trascurando le ripercussioni sociali che ne sarebbero derivate, operarono (con Quintino Sella ministro delle finanze, 1862, 1865 e 1869-73) una severa ed impopolare stretta fiscale con l’imposizione di pesanti tributi , tra cui la più odiosa fu la tassa sul macinato (1868) che, malgrado gli scarsi vantaggi apportati all’erario e le rivolte popolari causate per l’aumento del prezzo del pane, venne mantenuta.
Quanto al commercio, era stato conservato il libero scambio per favorire l’esportazione dei nostri prodotti (frutta, vini, formaggi, solfo e seta) e consentire reciprocità di trattamento ai manufatti stranieri che l’Italia non era in grado di produrre.
Il deficit fu colmato con il raggiungimento del pareggio di bilancio (1875), favorendo il progresso della marina mercantile e dell’industria, ma, nonostante gli elementi evidenziati dall’inchiesta sul brigantaggio di Massari (1863), non affrontarono i problemi sociali di miseria ed arretratezza del Mezzogiorno.
Problemi che riguardavano anche i ceti rurali del nord, ma verso il Mezzogiorno maggiore fu il disinteresse della classe dirigente postunitaria che, per Rosario Romeo, riuscì a realizzare lo sviluppo industriale del paese soprattutto attraverso lo sfruttamento delle masse contadine del Sud.
Con la caduta postunitaria delle barriere doganali e l’abbandono del protezionismo industriale furono soppiantate le industrie siderurgiche di Napoli, dall’Ansaldo di Genova ed i cotonifici di Salerno da quelli liguri e lombardi che producevano a minor costo. Contribuendo ad una flessione del commercio (-16%) e ad aggravare il ritardo del Sud, perciò si può comprendere perché i Meridionali mal sopportavano di essere amministrati da funzionari piemontesi, che non comprendendo il linguaggio e riluttanti a comunicare, non coglievano le esigenze di comunità bisognose di rinnovamento e, soprattutto, erano mal guidati da una amministrazione centrale lontana ed incapace di fornire suggerimenti idonei ad affrontare, con gli scarsi mezzi a disposizione, le pressanti problematiche locali.
La Sicilia, inoltre, aveva un motivo aggiuntivo di risentimento in quanto si era vista negare la promessa di una forma di autonomia e l’abolizione della luogotenenza non fu intesa come una facilitazione all’integrazione ma piuttosto come una spinta alla centralizzazione.
I nuovi governanti, da Cavour in poi, si rifugiarono nell’opinione che il Meridione, pur naturalmente ricco, fosse condannato all’arretratezza dovendo scontare i danni del governo borbonico, tralasciando il particolare che la Sardegna, da un secolo e mezzo governata dai Savoia, si trovava in condizioni di arretratezza ancor più peggiori. Pertanto non presero mai in considerazione, malgrado le sollecitazioni, la possibilità di recarvisi per assumere una conoscenza diretta delle problematiche che limitavano la crescita di quelle genti di cui si marcavano solitamente gli aspetti deteriori (delinquenza, corruzione, analfabetismo e superstizione) e verso cui da più parti si manifestava disprezzo (“un esercito di barbari accampato fra di noi”) fino a proporne l’abbandono al loro destino poiché le altre regioni non erano in grado di sopportare l’onere della loro emancipazione ( Ma ciò non accade ancora oggi?). Le poche famiglie di ricchi proprietari terrieri (galantuomini) mantenevano il salario del contadino alla misura minima che gli permettesse di vivere solo per poter continuare a lavorare.
Una situazione di immobilismo che le nuove istituzioni non avevano mutato e dove il rinnovo degli istituti politici non era stato accompagnato da una altrettanto innovativa visione della classe dirigente che, invece, aveva peggiorato gli immutati costumi semifeudali e i vecchi privilegi, sorretti da un antiquato ordinamento sociale. Ordinamento che restò immutato, così che la classe dei proprietari, assimilatasi al nuovo governo, mantenne le precedenti cariche gestionali dominando un esercito di contadini che, legati ad essi da un vincolo di sottomissione, avevano radicata la convinzione che il proprietario tutto potesse e nulla si potesse fare, anche se richiesto dall’autorità, senza la sua approvazione. Ed è probabile che non vi sia stato mai in precedenza periodo in cui questo tipo di rapporto si sia sostituito a quello diretto tra istituzione e suddito. Causa e conseguenza dei limiti di sviluppo complessivo dello Stato, non potesse essere spiegata e risolta senza tener presente l’influenza dei vari fattori storici, politici e sociali che avevano contribuito a determinarla. Pertanto finché non fossero radicalmente mutate le condizioni economiche e sociali, attenuate le condizioni di arretratezza e la violenza non fosse più apparsa una attività redditizia, sarebbe stato privo di significato ogni concetto di libertà. Una società che in larghissima misura era esclusa dal voto e quindi non corteggiata da alcuno e da nessuno rappresentata. Per cui non si costruivano scuole, nei villaggi mancavano del medico, sostituito dalla fattucchiera o dal guaritore. I ricchi invece, anche se analfabeti, erano una potenza (si votava per censo) e, potendo strappare molte concessioni, non avevano interesse a migliorare le condizioni della plebe. Una vera alternativa coloniale con il peso di un tributo impositivo più elevato nel Meridione (40% rispetto al 32%) a fronte di una ricchezza nazionale inferiore a quella del Settentrione (27% rispetto al 48%), dove le immense ricchezze accumulate sfuggivano alle maglie del fisco. Ma alle proteste non si aggiungeva la formazione di correnti politiche che potevano difendere gli interessi locali, inserendo il Mezzogiorno nella vita politica nazionale. Il Governo, ritenendo che fosse più produttivo puntare sulle risorse del settentrione, per favorirne lo sviluppo industriale, attuò una politica di investimenti sotto forma di commesse che, accanto all’espansione di quella tessile, favorirono anche l’industria chimica, elettrica e meccanica, incentivando la nascita di stabilimenti siderurgici e cantieri navali. Sostenute sia dagli istituti di credito che dalle camere di commercio, vennero protette da tariffe doganali (1878) che rovesciavano la politica liberista nel commercio fino ad allora attuata dai governi della destra.
La politica protezionistica fu accentuata, nel 1887, coll’introduzione di una nuova tariffa doganale (avversata da Giustino Fortunato) perché veniva a ledere gli interessi dei piccoli coltivatori del Sud, mentre favoriva il settore tessile e siderurgico del Nord. Quest’ultimo già protetto con commesse statali, assorbiva una parte rilevante di risorse finanziarie che non investì nelle migliorie produttive necessarie a competere con le industrie straniere, adattandosi a produrre a costi elevati e non concorrenziali.
Il Meridione, prima tutelato dal protezionismo borbonico, quindi inserito dai governi della destra storica a concorrere senza ammortizzatori con i più solidi mercati nazionali, non avendo trovato alternative alla sua vocazione agricola, si trovò nella guerra commerciale apertasi con il ripristino del protezionismo, oggetto di ritorsioni verso i suoi prodotti (agrumi, vini ed oli). La sinistra, contrariamente alle attese, non avviò alcuna riforma agraria urgente per il Mezzogiorno, in quanto un ministro dell’agricoltura come Salvatore Majorana, latifondista e banchiere siciliano, divenne garante dell’immutabilità dei rapporti socio-economici del mondo agrario. Benedetto Cairoli che si alternò a Depretis nella guida del governo (n.14) tentò di abolire la tassa sul macinato ma, per l’opposizione dei deputati meridionali portatori degli interessi dei latifondisti del Sud, decisi a caricare il peso fiscale sui contadini, riuscì solo a ridurla (1879), rimandandone l’abolizione all’83. A questo non seguì però una generale riforma fiscale che ridistribuisse il carico impositivo. Questo, continuando a gravare sulle classi meno abbienti, le spinse alla reazione che, nel Nord portò alla costituzione delle prime leghe operaie ed alla proclamazione dei primi scioperi (1884-85), che, benché repressi dal governo, ebbero il merito di diffondere la protesta e favorire, rispettivamente in Piemonte, Lombardia, Liguria e Valpadana, aggregazioni operaie e contadine che contribuiranno alla costituzione del partito socialista (1892).
Merito della Sinistra storica l’introduzione (legge Coppino del 1877) dell’obbligo scolastico nel primo ciclo delle elementari e l’allargamento della base degli aventi diritto al voto. La Sicilia che un tempo era stata il granaio dell’Impero romano, ora, a causa di un sistema agricolo arretrato e degli immensi latifondi abbandonati dall’emigrazione ed inariditi dalle frequenti siccità e mai sottoposte ad opere di trasformazione e bonifica, non era più in grado nemmeno di soddisfare le sue esigenze, al punto da divenire, assieme alle altre del Meridione, tra le province con la produzione più bassa e variabile di frumento. D’altro canto la Sicilia restava comunque la regione che esportava (zolfo, vini e frutta) più di quanto importasse ma i benefici erano assorbiti dal resto d’Italia. Una politica che quindi incentivò l’emigrazione meridionale e lo spopolamento di vaste aree, perché l’emigrazione era considerata come un’inevitabile necessità per conseguire lo sfollamento delle campagne. Dunque, l’emigrazione era funzionale all’alleggerimento del settore agricolo dal peso dell’eccessivo numero di braccia e avrebbe portato al conseguente aumento di produttività. L’emigrazione, invece, decretò per il sud un lento e progressivo declino, tanto da farle rientrare oggi ancora in cima alle classifiche delle zone ad alto disagio insediativo. Emigrarono in cerca di pane e fortuna ben 25 milioni di meridionali, si svuotarono per prime le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi, poi paesi di 40000 abitanti che ne rimasero solo 2000. Poi alla fine, nonostante l’intervento straordinario dello Stato, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma agraria, i progetti e le leggi per l’industria nel Sud e in montagna, la questione meridionale non fu mai risolta e si acuì, ancor di più, il divario tra Nord e Sud del Paese. «Un’emigrazione biblica che ha disperso e ucciso un patrimonio di cultura, di idee, di civiltà, di storie costruite da intere generazioni di uomini e di donne».
Sono passati centocinquantasei anni dalla tragica unità, e molte cose sono cambiate, ma le speranze sono state deluse e tradite: l’emigrazione continua a dissanguare “Un Popolo Distrutto” che forse non potrà mai più credere in questa unità! Solo un
elemento unisce identitariamente tutti: l’emigrazione.
Nel 2008 il Rapporto elaborato da Confcommercio-Legambiente sul disagio insediativo prevedeva che, a partire dal 2016, molte aree interne, del Mezzogiorno, corrono il rischio di diventare «paesi polvere» e I dati purtroppo avvalorano in tutta la loro tragicità come in queste aree il processo di desertificazione, legato al disagio insediativo, sociale e occupazionale, sia quasi irreversibile.

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