Agli esuli liberali napoletani e siciliani, emigrati e ambientatisi a Torino dopo il fallimento del Quarantotto costituzionale di Napoli e Palermo, spetta una rilevante parte di responsabilità nell’aver fatto circolare l’idea di uno Stato meridionale corrotto, abitato da individui imbelli e oziosi, che richiedesse una profilassi militare per modernizzarsi. Giuseppe La Farina, dopo aver contribuito in modo significativo alla riuscita dell’impresa dei Mille, si limitò ad escludere categoricamènte un suo ritorno a Messina, dove pure aveva affetti consolidati pianti nel lungo esilio; Giuseppe Massari fece anche di peggio, giudicando una grande capitale come Napoli «funesta all’Italia» e marchiando con un giudizio severissimo la patria d’origine, come ebbe a scrivere mentre l’iniziativa garibaldina era in pieno svolgimento: “Oh! quella Napoli come è funesta all’Italia! Paese corrotto, vile, sprovvisto di quella virtù ferma che contrassegna il Piemonte, di quel senno invitto che distingue l’Italia centrale e Toscana in ispecie. Creda a me; Napoli è peggio di Milano!”.
Anche le responsabilità di Cavour sono state grandi; carico dei pregiudizi della sua epoca, Cavour ha guardato con occhio coloniale alla plurisecolare realtà del Due Sicilie. Il fastidio, l’irritazione, l’incomprensione nei confronti degli abitanti di uno Stato dall’esistenza quasi millenaria che ci si accingeva a liquidare con l’assenso franco-britannico. (dal Carteggio dedicato alla Liberazione del Mezzogiorno analizzati dallo storico americano Nelson Moe nel saggio: Altro che Italia! Il Sud dei piemontesi). Quell’idea forte d’Italia unita, frutto di invenzioni e nostalgie, di storia comune e separatezze e di tradizioni, paradossalmente si appanna, sfuma, si stempera, a volte scompare, proprio quando l’unità politico-amministrativa viene realizzata. Mentre l’unificazione era in corso, ben presto piemontesi e meridionali, patrioti e briganti, si accorsero di come tra mito e realtà lo scarto fosse abbastanza forte e di come quello che era stato percepito come somigliante fosse diverso, altro, e quelle distanze che si immaginavano superabili sarebbero diventate piú forti, quasi irraggiungibili. Risorgimento e unità d’Italia, ubbidiscono a tante necessità, a tante urgenze, alle preoccupazioni contingenti delle élite e dei governi. Proprio una storia di lunga durata che incontra una memoria frammentata, non condivisa, spesso contrapposta ha reso sempre difficoltoso il sentirsi italiano o, per meglio dire, ha reso mutevole, labile, profondo, controverso il senso dell’appartenenza. Ognuno di noi ha le sue controverse ragioni per dirsi e sentirsi italiano, anti-italiano, legato a una piccola patria, a un territorio piú grande, ad una patria. Per Pierre-Joseph Proudhon (filosofo, sociologo, economista e anarchico francese) “i veri italioti” costituiscono una “minoranza”: in Italia non vi è “un nucleo di popolazioni autoctone” tale da determinare una “nazionalità”. Vi sono invece – tiene a precisare – “popolazioni di ogni provenienza, di ogni carattere, in fondo non esiste una razza italiana, è un’invenzione”. Ed ancora: “l’Italia è anti-unitaria”: non vi è alcun “primo nucleo di ciò che altrove si chiama volgarmente nazionalità”. Inoltre Proudhon ritiene infondata l’aspirazione dell’Italia ad avere Roma quale capitale: per le sue tradizioni e le sue idee, come la sua geografia e le sue razze, l’Italia è in perenne antitesi con l’unità. Le città sono federaliste. Il “calcolo” di unirle forzatamente appare quindi una costruzione arbitraria. Concludeva che l’Italia è divenuta unitaria per l’ambizione di pochi. La storia ufficiale, quella presente sui libri di testo, e insegnate nelle scuole, racconta, di un’Italia nata dall’unione del Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, Ducati di Parma e Modena, Regno Lombardo-Veneto e Regno delle Due Sicilie attraverso un processo di unificazione del paese ad opera del genio politico di Cavour e delle prodezze militari di Garibaldi. La discesa nel meridione di Garibaldi consentì di annettere il Mezzogiorno al Piemonte e di fondare il Regno d’Italia, e fu accolta con grande entusiasmo dalla popolazione meridionale, entrando negli annali come un’impresa, che fece ascendere Garibaldi nell’olimpo del Risorgimento italiano. Il popolo del Regno delle Due Sicilie, era oppresso dalla tirannia dei Borbone, e Ferdinando II, (re dall’8 novembre 1830 al 22 maggio 1859) viene descritto come un uomo violento, soprannominato Re Bomba in seguito al bombardamento di Messina (settembre 1848), da lui ordinato per reprimere i moti rivoluzionari che imperversavano nell’isola. Il suo regno, sul cui trono gli successe Francesco II (dal 22 maggio 1859 al 13 febbraio 1861), ricordato anch’egli con un soprannome poco onorevole, (Franceschiello), era caratterizzato da un clima di immobilismo politico, arretratezza economica e amministrativa. Il popolo, fremeva di essere liberato dal dominio dei Borbone per ottenere le terre possedute fino a quel momento dai latifondisti. Altro segno della debolezza nella gestione dello Stato da parte della dinastia allora regnante, fu l’incapacità di organizzare una difesa militare all’attacco del Regno di Sardegna, che vinse con facilità la battaglia di Catalafimi del 15 Maggio 1860. La mancata omogeneità economica e culturale del paese, la questione meridionale e il fenomeno del brigantaggio sono visti come mere conseguenze delle spropositate aspettative della popolazione meridionale nei confronti di Garibaldi e del neonato Regno d’Italia, che di fatto ignoravano la situazione disastrosa in cui versava il Sud Italia. Mentre l’antistoria del Risorgimento può essere, sintetizzata nei tre seguenti punti, contrapposti alla versione appena narrata: 1) il processo di unificazione è una vera e propria guerra di conquista nei confronti di uno stato sovrano ricco, da parte di un Piemonte (allora Regno di Sardegna) fortemente indebitato e non come un interesse umanitario nella liberazione del Sud dai Borbone; 2) il Regno delle Due Sicilie era normalmente avanzato in vari settori e non arretrato, come riportato dalla vulgata dai testi scolastici; 3) il brigantaggio è il legittimo movimento di resistenza all’invasione piemontese intrapresa senza dichiarazione di guerra, e quindi illegittima, in opposizione a una visione meramente delinquenziale del fenomeno. Il processo di unificazione ha avuto dei protagonisti stranieri come la Gran Bretagna e la Francia che hanno reso meno “nazionale” il concetto di unità. L’interesse da parte di queste due grandi potenze europee era di tipo politico-economico e, un vero e proprio complotto internazionale ai danni del Regno delle Due Sicilie. Queste potenze straniere non erano animate da un interesse di tipo “umanitario” volto a raccogliere la richiesta di liberazione da parte del Sud. Come spiega Carlo Alianello nella sua opera “La conquista del Sud”, partendo da questo fraintendimento, si diffuse l’immagine arretrata del Mezzogiorno che conosciamo oggi. Un significativo esempio di questo, secondo Alianello, è la relazione che Lord Gladstone inviò a Lord Aberdeen in cui descriveva il Regno dei Borbone come la “negazione di Dio” riferendosi alle torture praticate da questi tiranni e alle immorali e scandalose carceri borboniche. Ma Lord Gladstone non entrò mai in un carcere, nel regno borbonico. Dopo le accuse ricevute da Lord Gladstone, i Borbone invitarono chiunque a visitare le proprie carceri per smentire quanto dichiarato ma senza esito. Per contro, grazie alle ambasciate britanniche, il contenuto della missiva si diffuse in tutta Europa contribuendo alla creazione dello stereotipo meridionale che conosciamo oggi. Alianello cerca di ristabilire la verità storica riguardo alle cause dell’unificazione; ma non sminuì mai il valore dell’unità nazionale, pur mettendo in discussione il processo che permise di arrivare a tale unità, visto come un processo di conquista e come l’invasione di un paese straniero. Nicola Zitara, invece, critica non solo il processo di unificazione ma l’Unità in sé auspicando un ritorno al Regno delle Due Sicilie eliminando il cosiddetto tutore – il Nord – nei rapporti commerciali con l’Europa. Per Gigi Di Fiore, il processo di unificazione,ed in particolar modo la repressione del brigantaggio, fu una «Guerra civile che fece tanti morti pari a quelli delle tre guerre d’indipendenza messe insieme». Lo stesso Garibaldi rimase deluso. Denominare in questo modo il processo di unificazione significa considerare alcuni eventi come crimini di guerra: eccidi, stragi, stupri, crudeltà compiute dall’esercito invasore. Sta di fatto, che ancora oggi l’Italia è un paese profondamente diviso.