CONTROSTORIA IN SINTESI

Da qualche anno vengono pubblicati senza più “vergogna” diversi libri che analizzano il Risorgimento e l’Unità d’Italia senza alcuna mistificazione, ma nella loro drammatica verità storica. Si è ritenuto utile proporre una sintesi di quanto ricostruito dagli autori di alcune opere. La finalità è quella di mostrare che una serena lettura della verità dei fatti ed un pacato dibattito privo di toni polemici siano di grande vantaggio alla maturazione civile e democratica di ognuno di noi. 
«La pronipote dell’eroe dei due mondi, Ana Maria de Jesus, figlia di Ricciotti Garibaldi e di Costanza, sostiene che in famiglia la storia è: “Il bisnonno e il re si incontrarono a Vairano, perchè a Teano non ci è andato proprio, nemmeno a dormire. Aveva passato la notte alla taverna Catena di Vairano, si era alzato presto e, invece di partire, aveva deciso di aspettare Vittorio Emanuele. Ma quando arrivò, non scese da cavallo e gli disse in francese (perchè nel regno sabaudo l’italiano era poco comune): “Majestè, je vous remets l’Italie” ( Maestà, vi porto l’Italia) ed ”Insieme si diressero verso sud” ….». Col racconto sulla verità circa il presunto e mitizzato incontro a Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, il piemontese Lorenzo Del Boca a pag. 8 del suo volume “Maledetti Savoia” (Piemme, 1998), comincia ad elencare i falsi episodi, i luoghi comuni, le leggende costruite dall’iconografia ufficiale circa la storia del Risorgimento italiano come viene ancora oggi studiata da scolari e studenti sui testi scolastici. Nel medesimo volume si scopre così ad esempio, come il Regno Borbonico delle Due Sicilie non fosse affatto arretrato e sottosviluppato come la propaganda successiva all’unificazione volle dipingerlo. Scrive sempre Del Boca: «…Il Meridione riceveva gli ospiti in saloni arricchiti da arazzi, serviva vini pregiati in cristallerie delicate, proponeva tavole imbandite con pizzi e vasellame di Capodimonte. A Torino usavano ancora i piatti di legno. Il Sud conservava la raffinatezza culturale greca e araba e l’Università di Filosofia – fra docenti e studenti – poteva annoverare il meglio dell’”intelligentia” del tempo. Al Nord parlavano un dialetto venuto dai barbari d’oltralpe. Nelle province napoletane si lavorava il ferro, la ceramica, i filati. Le fabbriche di Pietrarsa e l’Opificio Reale rappresentavano il maggior complesso siderurgico dell’Europa del sud, in grado di reggere la concorrenza con Austria e Prussia. Erano dotati di un motore a vapore capace di sprigionare energia per 160 cavalli. Ci lavoravano 1000 operai e altri 7000 vivevano dei manufatti dell’indotto. La fonderia Orotea di Palermo, di proprietà della famiglia Florio, era conosciuta nel mondo per i prodotti di precisione e impegnava 600 operai. Venne poi smantellata per lasciare spazio all’Ansaldo di Genova. Il mercato tessile era saldamente in mano al Meridione. Lo stabilimento di Piedimonte d’Alife, dello svizzero Egg contava 1300 operai, 36 filatoi e 500 telai. Mentre la maggiore filanda del Nord, la Conti di Milano, impiegava 415 operai.
“ll sud aveva costruito le industrie di Scafati di Mayer e Zollinger, quella di Pallenzano e quella di Salerno. A San Leucio, su 80 ettari di terreno, sorse la più imponente seteria di quei tempi. Il gruppo industriale Guppy, con il socio d’affari Pattison, avviò un’azienda a Napoli per la costruzione di macchine agricole e locomotive a vapore: trovarono posto 1200 dipendenti. Cinquecento metalmeccanici operavano nella Real Fonderia di Castelnuovo, altrettanti nella Reale Manifattura di armi a Torre Annunziata.
“Il cantiere navale di Castellammare era una piccola città di 2000 impiegati. D’altra parte la flotta del regno delle due Sicilie contava 40.000 uomini di equipaggio. Le aziende calabresi a Mongiana, a Cardinale, a Monteleone e a Catanzaro, quelle di Matera, Palermo e Catania esportavano in Brasile e negli Stati Uniti.
Il Napoletano era di gran lunga la regione italiana più industrializzata. Il censimento, promosso in occasione dell’Unità d’Italia le accreditò un milione e 189.000 operai pari al 37 per cento degli attivi, contro i 345.000 del Piemonte che rappresentavano il 17 per cento…» (Maledetti Savoia, p. 234-235). Anche per Giuseppe Ressa in “Il sud e l’Unità d’Italia” (2003, liberamente scaricabile) «la regione Calabria annoverava, insieme ad altri stabilimenti siderurgici minori: industrie tessili con 11 mila telai complessivi (solo quella della seta impiegava tremila persone), estrattive (sale a Lungro, con più di mille operai, liquirizia, tannino dal castagno), industria manifatturiera (cappelli, pelletteria, mobili, saponi, oggettistica in metallo, fino ai fiori artificiali), distillerie di vino e frutta; tutto questo ne faceva la seconda regione più industrializzata del Sud dopo la Campania….. Si avete capito bene la Calabria!
“Il Meridione possedeva una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo, ne facevano parte più di 9800 bastimenti per oltre 250mila tonnellate ed un centinaio di queste navi (incluse le militari) erano a vapore. Erano attivi circa quaranta cantieri di una certa rilevanza e “tanto prosperò il commercio in 30 anni, che nel 1856 solo a Napoli vi erano 25 Compagnie di trasporto, che capitalizzavano oltre 20 milioni di ducati”. Allo scopo di favorire il commercio, furono stipulati, dai re meridionali, numerosi trattati commerciali con tutte le principali potenze.
“Il primo mezzo navale a vapore del Mediterraneo (una goletta) fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli, fu varato il 24 giugno del 1818…». Se è vero che la situazione scolastica nel Regno delle Due Sicilie era carente, con solo il 10 per cento di alfabetizzati (il dato peggiore nell’Italia pre-unitaria), lo stato borbonico era all’avanguardia nel campo del sistema previdenziale e pensionistico (introdotto nel 1813) nonché per l’organizzazione medica e ospedaliera, con 22 grandi ospedali in tutta la nazione e con il tasso più basso di mortalità infantile in Italia. (Il sud e l’Unità d’Italia, p. 166).
Contrarie a qualsiasi stereotipo sono i retroscena relativi ai veri motivi all’origine della spedizione garibaldina che sempre Lorenzo Del Boca trae dalle ricerche dello storico inglese Raleigh Trevelyan: «…La Gran Bretagna voleva giocare un ruolo di primo piano nelle questioni internazionali e vedeva con sospetto l’amicizia troppo forte che legava Francia e Piemonte. Contemporaneamente i diplomatici inglesi segnalavano con preoccupata apprensione l’avvicinamento dei Borbone all’impero russo che cercava una sbocco marittimo sul Mediterraneo. Aiutare il Piemonte a prendersi il Sud dell’Italia avrebbe avuto, per Londra, due risultati positivi. Innanzitutto si sarebbe accreditata a Torino come alleata affidabile almeno quanto i francesi, togliendo loro un’egemonia psicologica e politica su quello staterello governato dai Savoia. Poi avrebbero levato di mezzo un regno che poteva offrire i suoi porti ai concorrenti dell’Europa dell’Est. Le coste meridionali d’Italia, in vista dell’apertura del canale di Suez, sarebbero diventate un punto di riferimento importante delle rotte via mare e, quindi, un attracco strategico per i commerci. Da ultimo gli Inglesi sentivano la necessità di garantire le immense proprietà immobiliare e finanziarie che avevano acquistato e investito in Sicilia… Fra le imprese che gli industriali di Londra gestivano con profitto in Sicilia c’era quella dell’estrazione dello zolfo. Almeno metà della produzione di questo minerale prendeva il mare diretto in Inghilterra. Il resto era destinato a Francia, Olanda, Russia e stati Uniti. Attorno a questi accordi nel 1838, esplose una questione dai contorni allarmanti. Il Re di Napoli, Ferdinando II, ruppe le intese passate e concesse alla compagnia Taix e Aycard, francesi di Marsiglia una serie di agevolazioni tali da affidare loro una specie di monopolio nel settore. Gli inglesi si trovarono, in qualche modo, espropriati… 
Gli industriali danneggiati si rivolsero al tribunale per un risarcimento colossale, ma non riuscirono a convincere i giudici della bontà dei loro argomenti e persero la causa. Il governo di Londra a quel punto (aprile 1840) scelse l’azione di forza e decise di assediare i porti siciliani, bloccando le navi con bandiera borbonica. Il re di Napoli mobilitò 12.000 soldati minacciando rappresaglie terribili nei confronti dei possedimenti inglesi. La guerra commerciale fu a un passo dal trasformarsi in guerra vera e soltanto l’intervento degli stati della Santa Alleanza (Russia, Austria e Prussia) impedì una degenerazione della contesa. Il 21 luglio 1840 venne raggiunto un accordo che, praticamente, ripristinava le condizioni economiche di due anni prima. L’amicizia e la fiducia, però, erano del tutto compromesse. Inutile tentare di rabberciarle. Nessuno, per la verità, nemmeno fra diplomatici avvezzi a transazioni apparentemente disperate, tentò di chiedere ai contraenti dell’accordo un gesto formale di reciproca stima. La decisione degli Inglesi di scaricare il Borbone ebbe, in quegli episodi sulla contesa dello zolfo, una conferma decisiva. Si trattò di organizzarsi opportunamente e poi attendere l’occasione più propizia… » (Maledetti Savoia, pp. 62-65).
L’attenta studiosa Angela Pellicciari in diversi volumi quali Risorgimento anticattolico (Piemme 2004), I panni sporchi dei Mille (Liberal, 2003), L’altro Risorgimento (Piemme 2000) e Risorgimento da riscrivere (Ares, 1998), aggiunge un’altra motivazione soltanto accennata da altri autori, ovvero l’avversione dell’Inghilterra anglicana e protestante contro la sudditanza psicologica e culturale da parte degli italiani nei confronti della Chiesa Cattolica. Motivazione sostenuta anche da Elena Bianchini Braglia in Risorgimento. 
Le radici della vergogna. Psicanalisi dell’Italia (CSR Edizioni Terra e Identità, Reggio Emilia 2009) che riporta anche le denunce dei Gesuiti nella loro rivista La Civiltà Cattolica. Fra il 1825 ed 1832 inoltre il governo Borbonico scatenò una forte repressione contro le logge massoniche in Sicilia che turbò non solo i massoni anglosassoni ma anche quelli italiani, fra cui Garibaldi, Mazzini e Cavour. Quest’ultimo tuttavia, secondo Giuseppe Ressa aveva un motivo molto più pratico e pressante per estendere la sovranità dei Savoia anche al ricco Regno Borbonico, la medesima all’origine della Seconda Guerra d’Indipendenza, ovvero il dissesto finanziario del Regno di Sardegna ed il concreto rischio di bancarotta: «Nella discussione del 9 febbraio 1859 il marchese Costa di Beauregard denuncia: “Il Conte di Cavour vuole la guerra e farà gli estremi sforzi per provocarla. Nella pericolosa condizione in cui ci ha collocati la sua politica, la guerra si presenta al suo pensiero come l’unico mezzo per liberarsi onorevolmente dal debito spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere agli impegni che ha preso”, il bilancio del regno di Sardegna di quell’anno “ha un deficit di 24 milioni di lire che porta il debito pubblico complessivo ad un totale spaventoso di 750 milioni di lire” . Era quindi sull’orlo della bancarotta sia a causa della bilancia commerciale, da anni in passivo, sia soprattutto per la costosissima politica estera, in questa situazione l’unica possibilità per evitare il tracollo finanziario era la conquista di nuovi territori e come disse l’influente deputato sabaudo Boggio : “Ecco dunque il bivio: o la guerra o la bancarotta”.» (Il sud e l’Unità d’Italia, p. 55).
L’occasione più propizia per tutti venne naturalmente dopo che nel 1859 la II Guerra d’indipendenza fece guadagnare al Regno Sabaudo la Lombardia, l’Emilia e la Toscana. Londra invitò caldamente Cavour a togliere di mezzo anche i Borbone e lo Stato Pontificio, ed anche Garibaldi da parte sua all’inizio del 1860 era impaziente di tornare sul campo di battaglia per distrarsi da una cocente delusione sentimentale: a gennaio di quell’anno infatti doveva convolare a nozze con la marchesa Giuseppina Raimondi già da lui conosciuta più che intimamente ed in attesa di un figlio. Ma in prossimità dell’altare a guastargli la festa gli era arrivata la notizia che il padre del nascituro non era lui bensì un suo luogotenente in camicia rossa: la sposina si beccò un’esclamazione poco galante, una sedia ebbe l’onore di essere distrutta dall’eroe dei due mondi, e la conquista del Sud avrebbe avuto anche il merito di salvare l’immagine storica del Peppino nazionale (cfr. Maledetti Savoia, cit. pp. 49-50).
Tutte le opere sin qui citate abbondano di dettagli storici, frutto di ricerche su documenti d’archivio, diari, testimonianze poco note sui retroscena dietro le quinte della spedizione dei Mille: ovvero il ben documentato coinvolgimento di Cavour e della monarchia sabauda, il fondamentale sostegno, sia finanziario che in navi, uomini e mezzi da parte di Inghilterra ed anche Stati Uniti, la ricerca di appoggi presso la malavita organizzata e la costante opera di corruzione di generali e ufficiali borbonici come il settantenne generale Francesco Landi «che nella battaglia di Calatafimi, ad un passo dalla vittoria, fece ritirare i suoi uomini. Lo storico De Sivo sostiene che al generale avessero promesso una ricompensa di 14 mila ducati per la sua ritirata, somma depositata presso il Banco di Napoli. Quando, però, si recò a riscuotere il frutto del tradimento, trovò soltanto 14 ducati». (Ricciardi F., 1860: quei generali napoletani felloni e vigliacchi, 2009). «Morì l’anno successivo, nel 1862, ma i cinque figli non ebbero problemi: tutti ufficiali superiori nell’esercito del Nord. A Calatafimi – luogo eroico del “qui o si fa l’Italia o si muore” – furono uccisi trenta garibaldini. Non tutti per mano nemica.” (Maledetti Savoia, cit. p. 74).
Anche sui fatti di Bronte, tra il luglio e l’agosto del 1860, esiste una ricca documentazione. La fonte più autorevole e dettagliata è l’opera del brontese e testimone oculare Benedetto Radice le cui Memorie storiche di Bronte (1927) sono state riversate in rete a cura dell’ “Associazione Bronte Insieme” e liberamente consultabile nel sito dell’associazione. Vengono così ripercorse le vicende della cittadina, a quel tempo “feudo” inglese dei discendenti di Orazio Nelson, dall’agitazione dei nullatenenti per la mancata distribuzione delle terre secondo il proclama di Garibaldi dittatore a Salemi, agli eccidi dei possidenti e dei sostenitori della famiglia Nelson, fino all’intervento di Nino Bixio, chiamato urgentemente dalle autorità inglesi nell’isola, che una volta ristabilito l’ordine dopo un breve processo sommario fa fucilare cinque brontesi fra i meno colpevoli di tutti: tra essi un povero malato di mente e l’Avv. Nicola Lombardo, rappresentante dei nullatenenti, che in realtà si era prodigato per tenere a freno i suoi compaesani. C’è poi chi ha letto la severa e sbrigativa repressione di Bronte anche come una clamorosa svolta ideologica da parte dei generali garibaldini: «Fu il dramma di una parte della sinistra impegnata a decidere in Sicilia il nodo dell’egemonia politica del nuovo stato, ovvero se dovesse essere governato dalla sinistra o dalla destra. Bixio a Bronte reprime i suoi stessi compagni: l’avvocato Lombardo era dalla parte di Bixio» ha scritto Giuseppe Giarrizzo (cit. da Gino Saitta). Senza scomodare Antonio Gramsci, la questione storica di fondo è capire in che misura, nelle originarie intenzioni di Garibaldi e Bixio, quella spedizione militare dovesse e potesse rappresentare una guerra di classe: certamente dovevano rendersi conto che chi aveva organizzato e sostenuto quella spedizione (Cavour e l’Inghilterra) non avrebbe consentito che a livello sociale le cose mutassero più di tanto. A tal proposito un altro brontese ma dei nostri giorni, Antonino Radice, che nel suo libro Risorgimento perduto allarga la sua analisi ai protagonisti storici dell’unificazione, evidenzia proprio come Cavour dichiarasse al parlamento subalpino «non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra. Il Cavour piemontese apparteneva alla ricca classe terriera e nobiliare, della quale egli in fondo condivideva pensieri e umori. Per tali motivi la sua mente era ben lontana dalla ipotesi di rivolgimenti e di avanzamenti sociali apportatori di capovolgimenti di vita in una regione come la Sicilia, e tale sua convinzione alimentava in misura esasperata la diffidenza verso i propugnatori di cambiamenti di natura sociale che da tempo erano invece desiderati dai siciliani» (Antonino Radice, Risorgimento perduto, origini antiche del malessere nazionale, De Martinis & C., Catania 1995).
Una volta conquistata a cannonate la fortezza di Gaeta, ultimo rifugio di Francesco II di Borbone, il 13 febbraio del 1861, cominciarono realmente i guai per il Sud, e gli incalcolabili danni, a cominciare dalle vittime militari e civili. Non soltanto Lorenzo del Boca e Giuseppe Ressa, ma anche Gigi di Fiore nel suo saggio I vinti del Risorgimento (Utet De Agostini, 2004) citano i campi di prigionia del Nord, a cominciare da quello di San Maurizio del Canavese, ove vennero rinchiuse le decine di migliaia di prigionieri, soprattutto soldati borbonici ed anche nello Stato Pontificio, una volta completata l’unificazione. Riporta Del Boca: «I prigionieri aumentavano di numero in modo esponenziale. Il generale Manfredo Fanti scrisse a Cavour per chiedergli di noleggiare all’estero dei vapori perchè c’erano 40.000 prigionieri da spedire al Nord e la Marina non era in grado di fare da sola. Fu necessario attrezzare altri campi: uno poco distante da San Benigno Canavese, un altro ad Alessandria e un altro ancora a Fenestrelle, all’imbocco della Val Chisone che, dai tempi antichi, era stata fortificata con un sistema di caserme appollaiate come nidi d’aquila a 1.200 metri per resistere a possibili invasioni a opera dei francesi. Per essere certi che lassù, accanto ai ghiacciai, la vita dei prigionieri fosse davvero dura, i piemontesi si preoccuparono di strappare le finestre dei dormitori.» (Maledetti Savoia, p. 145). Nelle opere citate vengono anche riportate alcune testimonianze pubblicate sulla rivista La Civiltà Cattolica del 1861: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso a un spediente crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al giuramento militare ed al legittimo Re». (Il Sud e l’Unità d’Italia, p. 137).
Largo spazio da tutti gli autori viene poi dato alla reazione della popolazione del Sud Italia, etichettata poi dalla storiografia ufficiale come semplice “brigantaggio”. Sempre secondo Del Boca «la rudezza disumana dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali. Di conseguenza aumentò la durezza della repressione. Il numero degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.
“I fuorilegge riuscirono a costituire 400 bande agguerrite. Con un calcolo meticoloso Tarquinio Maiorino ha potuto stabilire che contavano 80.702 combattenti. Almeno altrettanti coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie: gli informatori, i vivandieri, gli agenti di collegamento, i conviventi, i familiari e le amanti. I banditi godevano di solidarietà diffusa fra la gente e, quando arrivavano nei paesi, era festa grande. “Molti vennero uccisi. Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare al carcere. Gli altri vennero sterminati in massa. Quanti? Michele Topa cita i giornali stranieri che, in quegli stessi anni, tentarono un bilancio di questa guerra nascosta e dimenticata. Risultò che, dal settembre 1860 all’agosto 1861 – poco meno di un anno solare – vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri. Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne. Le case distrutte furono 918, sei paesi cancellati dalla carta geografica. Cifre naturalmente provvisorie e ampiamente parziali per difetto.
“Con il ferro e con il fuoco distrussero Guardiaregia e Campochiaro nel Molise; Pontelandolfo e Casalduni nella provincia di Benevento…
“Il Meridione pagò l’Unità con 700.000 vittime, quindi la parola “massacro” non è né gratuita né esagerata.» (Maledetti Savoia, pp. 156-158). Molti autori riportano anche soluzioni “estreme” progettate, ma in realtà mai realizzate, per disfarsi definitivamente dei “briganti” meridionali, come la proposta dell’allora Presidente del Consiglio Luigi Menabrea nel 1868 di deportarli in Patagonia, progetto poi non andato in porto per l’opposizione del governo argentino.
«La visione dell’Unità come conquista dell’Italia da parte dei piemontesi si è affermata anzitutto come stato d’animo. I Meridionali, si sentirono infatti “conquistati”, non unificati in una patria comune. Ai loro occhi, prima Garibaldi e poi Vittorio Emanuele II apparvero come conquistatori stranieri, nè più nè meno di quelli che erano approdati nel corso dei secoli sulle spiagge del “bel regno” di Sicilia. Mentre agli occhi degli italiani più politicizzati in senso democratico e, anche, repubblicano, quale che fosse la regione d’Italia da cui provenivano, il processo che aveva condotto all’Unità si configurava piuttosto come una “conquista regia”, come il frutto di un’abile e spregiudicata politica dinastica condotta nello stile e con i metodi dell’ ancien régime, che la Rivoluzione dell’89 aveva reso per sempre improponibili» afferma Girolamo Arnaldi in L’Italia e i suoi invasori, (Laterza, 2002, pag. 179) ed in effetti la monarchia sabauda fece ben poco per smentire tale impressione, dal momento che Vittorio Emanuele continuò a definirsi “II” per non far torto ai propri antenati, la legislatura uscita dalle elezioni nazionali del 1861 venne denominata l’ottava dopo le precedenti sette del Piemonte pre-unitario, e la capitale rimase a Torino. Costituzione, leggi, istituzioni e sistema finanziario del Regno sabaudo vennero poi estese a tutto il resto d’Italia.
Il peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei residenti nel Sud, specie delle classi più povere, conseguenza di una errata politica agraria, fiscale ed economica da parte del neo-stato italiano nei confronti del Mezzogiorno – origine della “questione meridionale” – viene largamente documentato in cifre da molti autori che ne analizzano dettagliatamente i diversi aspetti: l’ingrandimento dei latifondi con le terre demaniali e della Chiesa, l’appesantimento delle imposte dirette e indirette gravanti su proprietà e popolazione; il peso dei gravosi debiti del Piemonte scaricato sulle regioni finanziariamente in attivo – Lombardia, Marche Umbria, e soprattutto le regioni del Sud – dopo l’unificazione del bilancio e del debito pubblico; le industrie siderurgiche di Mongiana in Calabria e Atina (Frosinone) chiuse dopo pochi anni dall’unificazione; le industrie metalmeccaniche, tessili e della carta boicottate dal governo di Torino che preferì assegnare commesse e appalti alle industrie del nord; e via dicendo (cfr. Giuseppe Ressa, Il Sud e l’Unità d’Italia, pp. 176 – 192). Si riconferma insomma quanto già espresso dallo storico contemporaneo Pasquale Villari nel 1868: «Il Risorgimento non portò affatto alcuna profonda trasformazione … E l’Italia nuova si trovò formata dagli stessi elementi di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversi.» (P. Villari, Saggi di storia, critica e politica, Firenze 1868), mentre anche sotto l’aspetto politico, lo storico inglese Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia 1861 – 1958 (Bari, 1959) si dimostra – in termini, ancora attuali – ancora più pessimista: «Il connubio Cavour-Rattazzi, secondo lo Smith, inaugurò in Italia quel sistema di governo di coalizione che ben presto diede luogo al trasformismo del Depretis e al parlamentarismo del Giolitti. Il sistema fondato sul compromesso d’interessi personali tra gli uomini più influenti di partiti avversi, eliminando il controllo e la critica della opposizione, paralizzò la lotta politica e la sostituì con gretti opportunismi di cricche, abilmente mascherati col principio che l’interesse nazionale deve prevalere sugli interessi dei gruppi. La vita parlamentare fu così ridotta a un coacervo di uomini dalle idee più opposte, ma legati assieme da meschini interessi contingenti.» (Carmelo Bonanno, L’età contemporanea nella critica storica, Liviana 1973, p. 40).
«Insomma, fra le righe di una storia ufficiale ne esiste un’altra controcorrente che casa Savoia prima e il fascismo poi, per motivi diversi ma alla fine convergenti, hanno concorso in modo determinante a soffocare. “Mai parlare male di Garibaldi” ha significato mettere la museruola alla libertà di indagine e a nascondere la verità. Presentarono il Risorgimento come un tripudio di fanfare, bandiere, fiori lanciati dai balconi, entusiasmi di piazza. Quei vent’anni abbondanti che portarono all’Unità diventarono acriticamente un’epopea e Rosario Romeo fu mal sopportato quando cominciò a sostenere che, per l’Italia, furono assai più determinanti le beghe internazionali fra Inghilterra e Francia» dice Lorenzo del Boca a conclusione del suo volume Maledetti Savoia (pp. 250-251).

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