POLITICA e CRIMINALITA’ ORGANIZZATA NELL’ITALIA UNITA

Probabilmente già esisteva una intesa cordiale tra la «Bella Società Riformata» e il regime borbonico che si era interrotta nel 1849, quando, dopo la partecipazione degli adepti della società criminale ai moti rivoluzionari, Ferdinando II decise di avviare una vigorosa offensiva poliziesca e giudiziaria contro i camorristi che si sarebbe prolungata fino alla stretta repressiva del 1858. Durante questo periodo, la «mala setta» si trasformò in «camorra liberale» e si pose al servizio del movimento costituzionale, proteggendone le riunioni clandestine, assicurando l’assistenza ai detenuti politici e facilitandone la fuga dalle prigioni. Il passaggio di campo di una forza potentemente insediata nel tessuto della capitale non mancò d’impensierire Francesco II. Il giovane monarca, infatti, fu a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire, il 7 novembre 1859, all’ambasciatore austriaco, Anton von Martini, che molti degli sforzi del suo governo erano in quel momento concentrati a impedire che i suoi capi organizzassero, d’intesa con il partito unitario, una massa di manovra per attuare un’insurrezione a Napoli.
Non si trattava di timori infondati. Il 31 luglio 1860, l’ambasciatore britannico, Henry George Elliot, bene informato del radicamento territoriale della consorteria delinquenziale, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani napoletani restati fedeli alla dinastia borbonica. I camorristi si erano, infatti, impegnati con i capi del movimento unitario a presidiare il porto della città in modo da facilitare, in caso di bisogno, uno sbarco delle truppe piemontesi e a controllare le vie d’accesso alla capitale del Regno al fine di rendere possibile l’ingresso dell’esercito dei volontari. Proprio questo accadde, a metà agosto, quando i membri dell’«onorata società», inquadrati dal ministro degli Interni e direttore di Polizia, Liborio Romano nella «Guardia cittadina», in cambio dell’amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e di un ruolo pubblicamente riconosciuto, divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi.
Come avrebbe ricordato, il russo Lev Illič Mečnikov, uno dei foreign fighters che parteciparono alla spedizione dei Mille, soltanto l’intervento della camorra (guidata Salvatore De Crescenzo e dalla sua «sanguinaria» sorella, Marianna, detta la Sangiovannara) riuscì a impedire in quel frangente una sommossa lealista, grazie a una serie di atti d’intimidazione violenta contro i sostenitori di Francesco II, e poi ad assicurare al «partito italiano» il controllo sistematico delle zone strategiche della città. Una testimonianza, questa di Mečnikov, che è avvalorata non solo dalla memorialistica e dalla propaganda borboniche (Giacinto De Sivo, Giuseppe Buttà, Francesco Durelli, Pietro Calà Ulloa), ma anche dalla lettera del 10 settembre 1860, scritta dal colonello garibaldino, Hugh Forbes, secondo il quale «le dimostrazioni di tripudio che accolsero il Generale, il 7 settembre, nella bella Partenope altro non furono che una frenetica mascherata imposta da lenoni e camorristi».
Nulla da stupirsi, allora, che «dopo aver reso questi servigi», come Elliot avrebbe annotato nelle sue memorie, la consorteria criminale acquistasse «una potenza e un’autorità spaventevole» destinata ad accrescersi nel periodo successivo, quando la camorra fu incaricata di assicurare il successo del Plebiscito di annessione, vigilando le urne a voto palese (21 ottobre 1860). Questa «autorità» e questa «potenza» non sarebbero diminuite neppure dopo la nomina di Silvio Spaventa alla carica di Segretario generale del dicastero d’Interno e Polizia della Luogotenenza delle Provincie napoletane perché anche Spaventa utilizzò guardaspalle e mazzieri, reclutati in ambienti contigui all’«onorata società», per garantire sì l’ordine pubblico ma anche per utilizzarli come attori di una strategia volta a intimidire avversari politici e nemici del nuovo ordine. Per Maxime Du Camp, un importante letterato francese, arruolatosi nel 1860 come volontario nelle milizie garibaldine delle quali cantò l’epopea in un libro di ricordi dedicato alla spedizione dei Mille ( M. Du Camp, Expédition des Deux-Siciles. Souvenirs personnels, Paris, Librairie Nouvelle, 1861.), l’intesa tra nuovo regime e camorra si sviluppò soprattutto grazie all’iniziativa di Garibaldi che, durante il periodo della Dittatura (7 settembre-ottobre 1860), decise di inglobare i membri della setta nell’assetto istituzionale post-borbonico per utilizzarli nel controllo delle carceri e contestualmente per distoglierli (?) dalla loro abituale attività delinquenziale. Fu proprio il fallimentare progetto del duce dei Mille a permettere alla camorra di compiere un salto di qualità sul piano organizzativo e gerarchico. Secondo Du Camp, dopo il 1860, la setta criminale riuscì a sottomettere i suoi aderenti a un’inflessibile tavola delle leggi, il cui rispetto era assicurato da un vero e proprio sistema giudiziario e da draconiane punizioni, e a fornirsi di una struttura di comando molto funzionale per capillarità e presenza territoriale estesa nell’intera città di Napoli e in tutta la Campania. Lo Stato italiano, dall’unificazione è incapace di fornire una risposta efficace e univoca alla piaga della delinquenza organizzata. Il potere statale, allora come nel futuro, oscillò troppo frequentemente, tra atteggiamenti di scarsa comprensione e sottovalutazione, tolleranza e rigore, strumentalizzazione e tentativi d’intesa verso «mafiusi» e «uomini di parola», cui fece spesso riscontro la capacità delle organizzazioni criminali d’infiltrare e di condizionare l’apparato amministrativo, giudiziario, poliziesco a livello locale e centrale. Non del tutto chiariti sono anche l’entità e il significato politico del contributo militare che le squadre della mafia agraria (i cosiddetti «picciotti»), utilizzate come guardia privata e «armata baronale» da latifondisti e «gabellotti», offrirono alle formazioni garibaldine, durante la campagna siciliana del 1860- Un contributo, che secondo alcune stime, si elevò a diverse migliaia di uomini, già prima dell’ingresso di Garibaldi a Palermo, e che finì per trasformare, fino al passaggio in Calabria, l’«Esercito meridionale», originariamente composto da 1162 uomini, tra volontari settentrionali e «combattenti stranieri», in una sorta di «milizia feudale» di ben più vaste proporzioni. Quello che appare evidente, in questa congiuntura, è che la convenzione tra il movimento anti-borbonico e le mafie, già sperimentata nel 1848-1849, fu siglata ancora prima dello sbarco a Marsala. Nell’opuscolo del 1864, Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia, il «barone Niccolò Turrisi Colonna» parlava esplicitamente del patto d’azione tra criminali e oppositori del gabinetto napoletano, sostenendo che, come nel 1848, anche nel 1860, contro il regime borbonico «era scesa in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Ma la testimonianza della brochure non si arrestava qui. Niccolò Turrisi Colonna, di cui ormai sono noti i legami organici con il sistema mafioso, sosteneva, infatti, che dopo la partenza di Garibaldi dall’isola, a causa dell’incapacità del nuovo governo a mantenere l’ordine, i grandi proprietari terrieri si erano trovati costretti a siglare una «componenda» con la «setta» alla quale si erano affiliati delinquenti comuni, faccendieri, trafficanti di poco scrupolo e il numeroso esercito dei guardiani rurali della provincia palermitana.
Il legame assai stretto con la congiuntura politica dimostra, che la formazione delle organizzazioni criminali si struttura entro e non contro il sistema, formale e informale, di gestione dell’ordine pubblico vigente. Mafiosi e camorristi sono solo dipendenti dalla congiuntura o imitano il modello politico, le funzioni stesse dello Stato moderno? Se l’intreccio politica-crimine è un tratto costitutivo e condizionante dello Stato nato dal Risorgimento, e allora che valore etico-politico innovativo ha avuto lo Stato liberale e democratico italiano? Liborio Romano e Silvio Spaventa e i loro metodi di lotta politica esauriscono il senso e la realtà del Risorgimento, dello Stato unitario italiano? Un passato, snodatosi in una tragica e contorta dinamica, che va dalla strage di Portella delle Ginestre (1947), evento su cui grava il sospetto di aver sancito il primo patto tra Stato e mafia dell’Italia repubblicana, al tentativo di Salvatore Greco di creare, nel 1970, le condizioni per favorire il colpo di Stato progettato da Junio Valerio Borghese, alla decisione di un altro boss di Cosa Nostra, Luciano Liggio, di scatenare una strategia della tensione, culminata con l’assassinio del capo della Procura di Palermo, Pietro Scaglione, idonea a dimostrare la potenza della fratellanza delinquenziale e a condizionare il mondo politico siciliano, infine, alla trattativa Stato-mafia sviluppatasi dopo la cosiddetta «locuzione delle bombe» del biennio 1992-1993.

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Già nel 1978 Rocco Chinnici, magistrato vittima di cosa nostra e ideatore del pool antimafia, durante un incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata, si esprimeva così: «Riprendendo il filo del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia». Più avanti aggiunge: «La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia».

In pratica la mafia, che esisteva in Sicilia prima dell’unità nazionale è da paragonarsi a quella descritta dal Manzoni in I promessi sposi: la differenza è puramente di carattere etimologico. Inoltre nel romanzo Don Rodrigo aveva i suoi “bravi” mentre i baroni siciliani avevano i “picciotti”, una diversità di carattere geografico, ma anche temporale: il Manzoni ambientò la storia intorno al 1630.

Una delle poche, forse l’unica, associazione criminale, nata prima dell’unità d’Italia è la camorra. Era un’organizzazione piramidale con al vertice il capintesta, ma veniva così strettamente controllata dalla polizia borbonica che i suoi traffici e interessi si limitavano a cose di scarsa importanza. I camorristi temevano così tanto i poliziotti borbonici da soprannominarli “i feroci”.

Ma come, quando e perché, questa organizzazione ha iniziato ad acquisire fama e potere, fino a diventare quel cancro sociale che oggi conosciamo?

Alla vigilia del 7 settembre 1860 Garibaldi doveva entrare a Napoli per prendere possesso della Capitale del Regno delle Due Sicilie. Il Re Francesco II di Borbone era partito il giorno prima per risparmiare ai suoi sudditi una guerra civile, lasciando l’incarico di salvaguardare l’ordine pubblico al Prefetto di Polizia Liborio Romano, il quale però già da tempo aveva attuato le sue contromisure per permettere alnizzardo di entrare indisturbato in città.
Il capintesta della camorra Tore ‘e Criscienzo, alias Salvatore De Crescenzo, ebbe senz’altro un ruolo chiave in quel frangente, ma il fatto che fosse un malvivente fa di lui un personaggio “scomodo” per la storiografia ufficiale. Sarebbe stato infatti imbarazzante ammettere l’importanza del suo contributo alla causa unitaria, avrebbe significato avallare la collusione Stato – camorra.

E proprio a lui si rivolse Liborio Romano per evitare disordini nel passaggio dei poteri dal governo borbonico al dittatore Garibaldi, tant’è che gli affidò l’incarico di comandante della nuova Polizia.

Grazie a Tore ‘e Criscienzo l’ordine pubblico a Napoli fu ripristinato totalmente e in breve tempo, a parte alcuni foschi episodi frutto di vendette personali. Così Garibaldi poté giungere indisturbato da Salerno a Napoli in treno.

In un brano tratto da La fine di un Regno, un saggio pubblicato nel 1909 da Raffaele De Cesare, senatore del Regno d’Italia, si legge: «Garibaldi, richiesto dove volesse alloggiare a Napoli, rispose: Io vado dove voglio; solo desidero, appena arrivato, di visitar San Gennaro.

Dopo Portici, il treno si fermò bruscamente. Tutti si affacciarono agli sportelli per vedere che cos’era, e videro un ufficiale di marina che s’avanzava, correndo e gridando: Dov’è Garibaldi? Garibaldi rispose: Dev’essere il capitano del Calatafimi, lo facciano venire. Appena giunto, il capitano, che non era quello del Calatafimi, ansante per la corsa fatta, disse al dittatore: Lei dove va? È impossibile ch’entri in Napoli; vi sono i cannoni borbonici puntati contro la stazione. E Garibaldi, tranquillo: Ma che cannoni! Quando il popolo accoglie in questo modo, non vi son cannoni; avanti… Presso alla stazione di Napoli, il De Sauget, vedendo molti operai ferroviari, disse al Rendina: È imprudente far discendere Garibaldi in mezzo a costoro, che son tutti soldati congedati e impiegati borbonici; appena il treno si fermerà, corri fuori la stazione e fa entrare il primo battaglione di guardia nazionale, che troverai, perché faccia cordone; io pregherò Garibaldi di attendere.

Ma, fermato appena il treno, Garibaldi disse: Scendo un momento per soddisfare un piccolo bisogno; e mentre Rendina saltava giù da uno sportello, per eseguire l’ordine del De Sauget, Garibaldi scese dallo sportello opposto; e celatesi per un momento, ricomparve in mezzo a tutti, calmo e bonario.

Don Liborio era alla stazione coi direttori De Cesare e Giacchi, e nessun ministro. Era il tocco e mezzo dopo mezzogiorno. Domenico Ferrante li presentò a Garibaldi; e il Romano recitò i primi periodi di un indirizzo, che poi fu stampato e diffuso.

Già fin dalle 10 della mattina si raccoglievano nelle vie, che da Toledo e da Chiaia vanno alla stazione, gruppi di popolani con bandiere d’ogni grandezza, armi e bastoni enormi. Si assisteva a scene esilaranti e un po’ grottesche.

La nota popolana, detta la Sangiovannara, al secolo Marianna De Crescenzo cugina di Tore ‘e Criscienzo, andava anche lei in carrozza alla ferrovia, seguita da gran folla di gente della Pignasecca e di donne armate e convulse: tutte scene, che ricordavano i momenti più folli della rivoluzione francese …»

Tra le suddette “signore” spiccano i nomi di:Rosa ’a pazza (per via delle sue stranezze), Luisella lun’aggiorno (perché riceveva i clienti in una stanza dove i lumini erano sempre accesi, anche di giorno), Nannarella quattro rane (perché le bastavano quattro monetine, appunto, per saldare il conto della prestazione) e, inghirlandata come un albero di Natale, la già citata Marianna De Crescenzo, la Sangiovannara, perché era nata nel rione di San Giovanni a Teduccio, sulla strada per Portici.

Delle quattro donne, la più importante era lei. Giovane vedova di un soldato borbonico, aveva messo su nel quartiere Pignasecca una taverna, diventata ben presto il covo della criminalità e del malaffare.

Per dimostrare la sua riconoscenza a queste donne, Garibaldi concesse loro un vitalizio di 12 ducati mensili (circa 5,4 milioni di lire). Insieme ad esse vanno citate anche Antonietta Pace, Carmela Fucitano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto.

Marianna De Crescenzo, per non arrecare offesa a Tore ‘e Criscienzo, sul documento ufficiale della concessione del vitalizio venne indicata con il solo soprannome di Sangiovannara, dato che il cognome De Crescenzo era ad uso esclusivo di Tore in quanto capo dell’organizzazione. Questo si evince sia dai documenti custoditi nell’archivio storico di Napoli sia dal libro di Aldo Servidio edito da Guida, L’imbroglio nazionale – Unità e unificazione dell’Italia, 1860-2000.

Inoltre, lo stesso Garibaldi, operando sulle rendite confiscate con il decreto del 23 ottobre del 1860 alla famiglia Borbone (leggi: patrimonio familiare, restato distinto, come sempre in 126 anni, dalle pur fornite casse statali, al punto da contenere persinole doti nuziali delle figlie di Ferdinando II) mise a disposizione della camorra un asse di 75mila ducati, (quasi 34 miliardi di lire) da distribuire in tre anni ai bisognosi del popolo. La cifra di per sé non era particolarmente rilevante, soprattutto se confrontata con gli sperperi perpetrati in poco più di 50 giorni di dittatura.

Nei mesi, e negli anni a seguire, Tore ‘e Criscienzo divenne un personaggio sempre più scomodo per il neonato regno d’Italia, al punto che anche lui cadde nelle maglie della legge Pica, nata per reprimere il così detto brigantaggio post unitario.

Ma Tore, sebbene semianalfabeta, era stato abbastanza furbo da conservare documenti compromettenti che testimoniavano appunto gli accordi tra il nuovo stato e la camorra. Così fu scarcerato e inviato a domicilio coatto dove poté curare gli affari della sua organizzazione.

Possiamo quindi dire che in quel fatidico 7 settembre 1860 non solo furono aperte le porte di Napoli a Garibaldi ma che rese possibile che la camorra man mano assumesse un potere tale da diventare l’organizzazione spietata, il cancro sociale che oggi conosciamo. Come la mafia in Sicilia, anche la camorra campana è figlia di questa Italia, nata male e cresciuta peggio.
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L´ingresso nella grande capitale ha più del portentoso, che della realtà. Accompagnato da pochi aiutanti, io passai frammezzo alle truppe borboniche ancora padrone, le quali mi presentavano l´armi con più ossequio certamente, che non lo facevano in quei tempi ai loro generali. Il 7 settembre I860!”. La “grande capitale” è Napoli, “io” è Giuseppe Garibaldi e “il 7 settembre 1860” è la data in cui il generale fece il suo ingresso nella città partenopea mentre il re Francesco II di Borbone si recava a Gaeta per organizzare l’ultima resistenza. L’eroe dei due mondi arrivò a Napoli a bordo di un treno accompagnato da tutte le personalità che erano andate a Salerno per accoglierlo. In testa al corteo Liborio Romano, Ministro di Polizia e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero l’ordine pubblico. Dopo aver percorso via Marina, essere passato dinanzi il Maschio Angioino ed essersi fermato al Duomo per ascoltare il “Te Deum “e a Largo di Palazzo, l’attuale piazza del Plebiscito, per fare un breve discorso, Garibaldi si diresse fino a Palazzo Doria D’Angri, dal cui balcone proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo. Questa data segnò l’inizio della fine. La fine del Regno delle due Sicilie e l’inizio del patto tra Stato e Camorra a Napoli. A sostegno di quest’ultima tesi le carte che dimostrano che il 26 ottobre 1860 Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella Proto e Marianna De Crescenzo, le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era sorella proprio di quel De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al suo ingresso a Napoli. Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto reciproco. Di De Crescenzo si racconta che avesse fatto sgozzare da una banda di camorristi Totonno ‘a Port’ ‘e Massa, il famoso contrabbandiere e capo del quartiere di Porto, quando si trovava all’interno delle carceri dell’antico castello della Vicaria. Ma Romano non reclutò solo “Tore”, già nel luglio 1860 altri camorristi furono nominati funzionari di polizia. Il ministro iniziava quindi a preparare l’accoglienza di Garibaldi dotando inoltre coloro che appoggiavano la sua causa di coccarda tricolore.


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